domenica 30 maggio 2010

L'importanza di chiamarsi Gus


Augusto Binelli, il 30 giugno si avvicina. Pensa già a quando salirà la scaletta del PalaDozza per l’ultima volta?
«Ultimamente mi succede sempre più spesso. Non so dire quello che proverò. Certo, sarà una serata molto emozionante. Ma anche malinconica, come succede quando arriva il momento degli addii. Sarà il mio atto finale da giocatore, potete capirmi».
Nessuno dei suoi ex compagni vuole mancare alla partita d’addio di Gus. Lei ha molti amici, significa che ha lasciato il segno.
«Ci ho provato. Le risposte che ho avuto da gennaio, quando l’idea di quest’ultima recita si è fatta concreta, mi hanno davvero commosso. Senza contare gli amici che stanno lavorando per mettere in piedi la serata. Devo dire grazie a tanta gente».
Sa una cosa? Noi un Binelli che appende la canotta al chiodo non riusciamo a immaginarlo.
«Ma infatti non smetterò mai definitivamente. Continuerò a saltare in mezzo a un parquet con gli amici, questo è certo. Ora, poi, ho questa bella occasione con gli Over 45 di Alberto Bucci. Un anno fa, a Praga, abbiamo vinto il Mondiale. Ma è stato bello soprattutto ritrovarsi dopo una vita tra i canestri. Ho riallacciato rapporti anche con vecchi compagni delle juniores».
Vede? Senza palestra non sa stare.
«Lo so bene. E quando non ci vado direttamente devo accompagnare i miei figli. Le palestre di Bologna ormai le conosco tutte a memoria. E aggiungo che vorrei continuare a respirare quell’ambiente. Non più da giocatore, dopo il 30 giugno».
Da allenatore.
«Sì. Dopo il corso da tecnico di minibasket ho lavorato a Castel Maggiore, poi con i bimbi di otto anni a Budrio. Con buone risposte. A luglio seguirò il corso nazionale di Bormio. E poi vedremo se sono tagliato, se ho la stoffa».
Per insegnare la pallacanestro ai giovani?
«È un’idea che mi piace moltissimo. Come mi piacerebbe trovare una società di categoria per iniziare un percorso, magari da secondo. L’entusiasmo è tanto, e senza il basket mi sentirei perso».
Lei lo ha vissuto da protagonista per quasi trent’anni. Ha visto passare generazioni, lo ha visto cambiare. In che modo?
«In quanto a spettacolo, è stato un miglioramento. Oggi in campo vedi gesti atletici che vent’anni fa erano inimmaginabili. Al contrario, secondo me la tecnica ha fatto passi indietro. Certi lunghi alla McHale, per capirci, non li vedi più. Oggi si pensa molto di più allo show, e forse anni e anni in cui i nostri ragazzi si sono abbeverati al basket Nba hanno influito. Anche se oggi neppure in America i talenti spuntano come funghi...»
Lei laggiù avrebbe potuto giocarci, e in ben altri tempi.
«La storia degli Hawks, certo. Mi fregò il regolamento. Se andavi là e dopo un anno ti rimandavano indietro, dovevi rientrare in Europa con uno status da “straniero”. Io ero seconda scelta, mi offrivano un contratto annuale. Dissi: se mi fate un triennale, firmo subito. Non rilanciarono e tornai a casa. Ma se il regolamento fosse quello di oggi, sarei rimasto là senza pensarci due volte».
Walter Magnifico ricorda ancora quell’incontro con Mike Fratello in una stanza d’albergo: c’era già pronta una canotta col numero 11 per lei. Per lui niente, e ci restò un po’ male...
«Ce l’ho ancora, quella maglia. È rimasta lì, come certi sogni...»
Un rammarico?
«No, questo no. Una scelta mia. Ho voltato pagina un attimo dopo».
Del resto, con la Virtus di soddisfazioni se ne è tolte.
«Direi proprio di sì. Come potrei lamentarmi?»
La più intensa?
«Barcellona, la Coppa dei Campioni del ‘98. La prima della storia bianconera. Alzarla da capitano è stato il momento più bello della mia carriera. Ma ne ho tante, di emozioni che riaffiorano».
Qualche esempio.
«Il primo scudetto, quello della stella nell’84, anche se vissuto da panchinaro. E il primo vero, da titolare, nove anni dopo».
Avversari scomodi, in questa vita sotto i tabelloni?
«D’istinto dico Joe Barry Carroll, Roosevelt Bouie, spigolosissimo. E Sabonis, che con la Nazionale ho trovato sulla mia strada fin dai tempi in cui ero cadetto».
Compagni con cui ha legato?
«Direi soprattutto Coldebella, Frosini, Wennington, Sasha Danilovic. Ma io non ho mai avuto problemi, con nessuno».
Non dica che la Virtus è sempre stata un’isola felice.
«Se qualcosa non funzionava, si discuteva e ci si chiariva fuori dal campo. Dentro, tutti a remare nella stessa direzione».
Nemmeno tra i tecnici ha preferenze?
«Ho imparato da tutti. Da Messina come da Bucci, da Gamba in Nazionale, dallo stesso Bob Hill, che restò un anno a Bologna ma mi aiutò tantissimo. Senza dimenticare Bob McKillop, coach alla Lutheran High School di Brookville, o Michelini nelle giovanili bianconere».
Pensi a qualcuno che l’ha aiutata a diventare Gus.
«Se guardo indietro, parecchio, dico Fiorani, un mio allenatore a Carrara. Finita la terza media volevo andare subito a lavorare. Lui mi convinse a continuare con lo studio e con il basket. Un anno dopo mi comprò la Virtus».
Che idea, se la V nera ritirasse la canotta di Binelli...
«Non tocca certo a me dirlo».
Ultima recita al PalaDozza. Giusto che succeda lì, non è vero?
«È il posto dove tutto è iniziato, qui a Bologna. Dove sono diventato un giocatore della Virtus, dove mi sono fatto conoscere. Sì, è lì che devo dire basta».

L'Informazione di Bologna, 28 maggio

domenica 23 maggio 2010

Alex Zanardi, un sogno a cinque cerchi



Alex Zanardi, è l’anno della consacrazione sulle strade della maratona. Primo a Milano e Roma, terzo a Padova. L’handbike per lei non ha più segreti.
«Se penso a com’era iniziata, nel 2007 a New York, devo dire che in effetti il salto di qualità è stato notevole. E i progressi hanno poco a che vedere con l’allenamento».
Non sarà entrato anche lei nel club di quelli che dicono “e pensare che non mi alleno mai..”
«No, no, anzi. Mi sto impegnando parecchio. E il bello è che la fatica non mi pesa. Quando vedi i risultati ti gasi e dare il massimo non è quasi mai un sacrificio. Per competere con certi atleti bisogna lavorare duro».
Dunque, qual è il segreto dei suoi progressi?
«Francamente, da quando ho cambiato la posizione di spinta tutto è migliorato. E molto velocemente. Però non è ancora abbastanza».
Non si accontenta mai.
«Il fatto è che fin qui ho gareggiato soprattutto in Italia. Contro fior di talenti, ci mancherebbe: ma nessuno di loro fa parte della mia categoria. Loro sono più aerodinamici, io ho più forza allo sprint. Un anno fa non riuscivo a leggere le loro targhe, ma adesso che viaggio alla pari mi sento un po’ come il bimbo che ruba la marmellata. Perchè basta che faccia una gara tutta in scia per uscire in volata e avere notevoli possibilità di vittoria».
Beh, mica le dispiacerà...
«Vincere fa sempre piacere, soprattutto pensando che prima a quelle posizioni nemmeno mi avvicinavo. Ma mi serviva la verifica fuori dai confini. L’ho avuta a Schenkon, in Svizzera, una settimana fa. Lì ho gareggiato con quelli della mia categoria, appunto. Non c’era il campione del mondo, l’americano Sanchez, ma di stelle ce n’erano, e in più si correva per ventuno chilometri abbondanti contro il cronometro. Contavo di fare una bella figura. Ho addirittura vinto».
E chi la ferma più, adesso?
«Se un anno fa mi avessero detto che a Padova avrei viaggiato alla media dei quaranta all’ora per quarantadue chilometri, mi sarei messo a ridere. Invece è andata così, in quattro ci siamo buttati sul traguardo, con una volatona, abbassando quella che fin lì era la miglior prestazione mondiale sulla distanza. E a trecento metri dall’arrivo ero addirittura in testa...»
Come sempre, quando lei ci si mette d’impegno trasmette entusiasmo.
«Sono contento, è vero. E non solo per i risultati. L’handbike è una disciplina affascinante, tutta da scoprire. Non c’è nulla di scritto. Ogni atleta ha una disabilità diversa, che include perdite oggettive ma anche situazioni che possono trasformarsi in punti di forza. Per dire: io non ho le gambe, tecnicamente un normodotato che si mette a fare una gara a forza di braccia con me perde sempre. Ci sono sviluppi aerodinamici che a me possono dare un risultato, a un altro l’opposto. È su questo piano che ho costruito la mia progressione».
Mettendo le mani sul mezzo, aggiustando, analizzando. Alla sua maniera, insomma.
«Ci ho messo la mia manualità, la fantasia, l’estro creativo che tanti anni di esperienza nell’automobilismo mi hanno dato. È così che ho bruciato le tappe, e ora mi trovo alla pari con ragazzi che si dedicano a questa disciplina da sette stagioni».
Starà trafficando alla sua nuova bici anche adesso, immaginiamo.
«Indovinato. Stavo proprio riflettendo su una modifica. Alzando un po’ il sedile, ho trovato una posizione che non vedo l’ora di testare sulla strada. Ho scoperto che abbassando il centro di rotazione dei pedali e inclinando un po’ di più il busto, ho nuovi margini di miglioramento. Se funziona, rifaccio la bici».
Non sta proprio mai con le mani in mano.
«Sono uno che si arrangia, lima, taglia, lavora. Ho ancora molto da scoprire e per fortuna sono curioso. Poi, in casa ho una miniofficina, e non mi fermo mai davanti agli ostacoli».
Si ricorda il sogno di tre anni fa? Parlava di Paralimpiadi come di qualcosa di inimmaginabile. Invece ora Londra è davvero vicina.
«Non è più un sogno, ma un obiettivo. Devo migliorare ancora un po’, ma credo di poterci arrivare. E senza rubare il posto a nessuno, cosa che non mi sarebbe piaciuta se nel 2008 mi avessero dato una wild-card. Ci posso arrivare per merito mio, perché ho ancora qualcosa da raschiare in fondo al barile».
Pensi come sarebbe contento Franco Ballerini, che l’aveva sospinta su questa strada.
«Faccio fatica a parlare di Franco. Non voglio vantarmi di un’amicizia che in fondo era recente. Ma tra noi c’era sintonia, fatta di passione vera. Mi chiamava, anche solo per dirmi “ciao, come va”, e io ricambiavo. Mi ha sempre seguito in questa avventura. Diceva che sarebbe venuto con me a Londra, nel 2012. Voglio pensare che, se ci arriverò, lui sarà lì con me».
Non ha proprio più tempo per le quattro ruote, insomma...
«Sono fermo, ma le possibilità di continuare le ho avute. Però si trattava di trovare compromessi. Io ho avuto la fortuna di guidare macchine bellissime, fino a un anno fa. Perché dovrei accettare compromessi, allora? Ho tante cose da fare, roba che non mi bastano ventiquattro ore al giorno. Questo stop si è rivelato un’occasione per dedicarmi a qualcos’altro. Poi, se si ripresentasse un’opportunità bella, non mi negherei. I motori restano la mia passione più grande».
Ha scoperto il mondo della maratona. Sensazioni?
«È l’attività sportiva per eccellenza. Non siamo fatti naturalmente per percorrere certe distanze, ogni volta è una sfida. Migliorare un personale è un obiettivo che va oltre la classifica. Puoi arrivare centesimo ed essere felice, perché hai abbassato il limite e porti a casa il risultato. È il senso profondo del fare sport».


ALESSANDRO ZANARDI è nato a Bologna il 23 ottobre 1966. Ha esordito in Formula Uno nel 1991 (debutto alla Jordan, al posto di Schumacher, con un nono posto a Barcellona), dove ha gareggiato per Jordan, Minardi, Lotus e Williams, disputando in totale 41 gran premi, con un sesto posto in Brasile (1993) come miglior risultato. I risultati più brillanti li ha ottenuti in America, in Formula Cart. Debuttante nel ‘96 col team di Chip Ganassi, alla seconda gara è già in pole position e chiude la prima stagione al terzo posto, da “Rookie of the Year”. Nel ‘97 la consacrazione, con la conquista del titolo che resterà suo anche nel ‘98, a coronamento di una storica doppietta. Dopo la parentesi in Williams nel ‘99, torna negli States in Champ Car col team di Mo Nunn nella stagione 2001. Il 15 settembre dello stesso anno, l’incidente al Lausitzring. Ricoverato in condizioni disperate, si salva ma subisce l’amputazione di entrambi gli arti inferiori. Torna sul circuito fatale nel 2003, per “completare” i giri mancanti di quella gara drammatica, e due anni dopo torna al successo nel Mondiale Turismo con la Bmw. Innamoratosi dell’handbike, fa il suo esordio alla New York City Marathon del 2007, cogliendo il 4° posto. Già nel giro azzurro, la prossima settimana sarà a Piacenza con la maglia della Nazionale per le prove di Coppa Europa.

L'Informazione di Bologna, 22 maggio 2010

mercoledì 19 maggio 2010

Pompili, la nuova sfida ha un nome antico: K2


Torna in Baltoro, Giuseppe Pompili. Terra che lo attrae e in qualche modo lo respinge. «Evidentemente, quegli ottomila per me sono stregati. Tre volte li ho affrontati, tre volte sono tornato indietro a mani vuote. Anche se in un paio di occasioni sono arrivato a un passo dalla cima».
Ci riprova, l’alpinista bolognese che ha nel palmares due grandi Ottomila, Everest e Cho Oyu, e che è stato il terzo italiano a completare la serie delle Seven Summits, dopo Messner e Magliano. E lo fa ritentando la “montagna degli italiani”, il K2 o Chogorì, quello della conquista di Compagnoni e Lacedelli ma anche delle laceranti (e giuste) polemiche di Walter Bonatti, dei suoi diritti riconosciuti ufficialmente solo mezzo secolo dopo la conquista del ‘54.
Partirà ai primi di giugno, Pompili, con la solita spedizione “snella”, economica e autosufficiente, che però contempla una novità: accanto al trevigiano Adriano Dal Cin, fidato compagno di salite, ci sarà anche Sergio Valentini. Trentino, guida alpina, Valentini era tra gli uomini del Soccorso Alpino travolti da una valanga sul Pordoi lo scorso dicembre, mentre erano alla ricerca di escursionisti dispersi. Da quella tragedia, che fece quattro vittime, si salvò per miracolo. «Sergio ha esperienza, è forte ed è entrato subito nello spirito delle nostre cordate. Stile alpino, mezzi limitati un po’ per scelta e un po’ per necessità: basti pensare che alla voce “sponsor” anche quest’anno ho solo una compagnia telefonica che mi permetterà di ricaricare il cellulare a metà prezzo: così anche quest’anno potrò tediare i frequentatori della rete col mio blog...».
Scherza, e minimizza come al solito, questo “scalatore di città” che ha fatto della passione per la montagna, se non un mestiere, un punto fermo della sua esistenza. Ma è pronto alla sfida, e mai come quest’anno si sente a posto anche fisicamente.
«Ho appena effettuato l’ultimo test di soglia a Isokinetic, sotto le cure preziose del leggendario dottor Giulio Sergio Roi. Le verifiche dicono che, rispetto a un anno fa, sono molto più in condizione. Del resto, negli ultimi tempi sono riuscito a fare diverse uscite nelle Alpi, dove ho fatto i conti con un maggio terribile. Dalle parti del Cervino mi hanno accarezzato bufere niente male, diciamo che sono pronto a quello che mi aspetterà in Karakorum. Poi, il dottor Roi mi fa notare che sono tre chili sopra il peso forma. Ha ragione, ma non farò sacrifici per perderli, accadrà naturalmente: in ogni spedizione himalayana perdo regolarmente dai cinque ai sette chili».
Anche i dettagli sono stati studiati accuratamente. Nessun accanimento. La spedizione parte ai primi di giugno proprio per avere tutto il tempo necessario ad acclimatarsi.
«Passeremo un paio di settimane negli altipiani di Deosai, nei pressi di Skardu, salendo cime minori e dormendo oltre quota 4000. Una volta acclimatati, attraverso il passo di Gondoghoro raggiungeremo il campo base del K2. Qui resteremo, verosimilmente, fino ai primi giorni di agosto».
Sulla montagna degli italiani, i connazionali in cordata quest’anno saranno davvero pochi. «Probabilmente soltanto noi tre. I grandi nomi, da Marco Confortola a Simone Moro, sono in Himalaya adesso. Entrambi sul Lhotse. Confortola ha appena rinunciato alla vetta, Moro ci sta provando.. Ma le condizioni laggiù, mi dicono, stavolta sono particolarmente infide. Spero vada meglio quando arriveremo noi al campo base del K2».
Succederà intorno al 20 giugno, e da lì inizierà la salita vera. «Dura, anche lungo la via normale, lo Sperone degli Abruzzi, su cui ci avventureremo noi. Se ce la faremo, sarà la ventiseiesima ripetizione di un italiano. Non un record, me ne rendo conto. Ma io salgo lassù per me stesso, mica per fare l’exploit della vita. E se tutto andrà per il meglio, sarà ancora più bello farsi un viaggio Islamabad-Doha-Pechino-Pyongyang per andare a... riposarsi in Corea del Nord».

GIUSEPPE POMPILI, bolognese di 47 anni, ingegnere nucleare, è stato il terzo italiano dopo Messner e Magliano a completare la serie delle Seven Summits (avventura sulla quale ha scritto un bel libro edito da Minerva Edizioni), versione “Kosciusko”. Nel 2008 ha completato anche l’altra versione, quella che contempla la Piramide Carstenz come vetta più alta dell’Oceania, e dopo Messner è l’unico italiano ad aver firmato l’impresa con entrambe le varianti.
Ha all’attivo due ottomila: il Cho Oyu (8201 m) conquistato dal versante cinese nel 2002, e l’Everest, su cui è salito (primo emiliano) nel 2004. Nel 2007 ha tentato il concatenamento Broad Peak-K2, arrivando a un passo dalla vetta del primo. Un anno fa ha sfiorato la cima del Nanga Parbat, in un’estate tragica funestata dalla scomparsa, nella corsa alla vetta, dell’austriaco Wolfgang e della coreana Go.

L'Informazione di Bologna, 17 maggio 2010

martedì 18 maggio 2010

Sant'Antonio, il calcio perduto nella Bassa


Storia di confine e campanile, di argine e nebbia, di legami forti e sfide paesane. Storia di calcio puro, “vintage”, ai margini del mondo come questo piccolo posto della Bassa che fa festa come i grandi, con tanto di pullman scoperto che porta in giro per il borgo la squadra che ha costruito, vissuto, realizzato il Sogno.
Il Sant’Antonio ha fatto il grande salto. L’anno prossimo giocherà in Promozione, per la prima volta nei suoi ottantun’anni di storia. Perché qui si respira calcio dal 1929. Prima, fino al 1963, erano tornei amatoriali. Da lì in avanti, attività federale. Ballando da una categoria all’altra, ma mai potendo festeggiare un primo posto in campionato. Fino a domenica, a quel pareggio pieno di reti (4-4 nel derby con i cugini del Medicina, del cui comune Sant’Antonio è frazione), che tanto ricorda quello rocambolesco di due anni fa, che ebbe tutt’altro epilogo. Era la stagione 2007-2008, la squadra era al comando della classifica ma all’ultima giornata pareggiò 3-3 a San Benedetto e fu superata dal Castenaso. Poi, ai playoff, venne battuta dalla Vadese, che in campionato aveva racimolato diciannove punti in meno.
Stavolta è andata diversamente. Come si sperava e si sognava, e anche questo a vederlo adesso sembra un mezzo miracolo. Perché è vero che negli ultimi due anni il Sant’Antonio nei pronostici fa la parte del favorito della vigilia, ma è altrettanto vero che a Natale rincorreva a tredici punti dalla vetta, e ne aveva dieci da recuperare ancora a sette giornate dal termine. Una favola, che sia andata a finire così, col pullman scoperto e la gioia di una storica promozione. Ma non certo un caso. Lo sa bene Emanuele Righi, tecnico fuori dagli schemi (o “fuori dalle righe”, si potrebbe dire parafrasando il titolo della trasmissione che conduce su Futurshow Station). Uno che di calcio scrive sui giornali e parla alla radio. Ma che di calcio vive domenica dopo domenica qui, in questa periferia felice del pallone, da quattro lunghi anni.
«Sì, credo si possa dire che è stata un’impresa. Questa è un’ottima squadra, ma se la giocava con almeno altre quattro. E bisogna esserci, per capire quello che abbiamo fatto. Qui si va in campo in mezzo ai silos, alle spalle dello stadio c’è una vecchia fabbrica, gli spogliatoi sono vecchi e adesso, finalmente, saranno rinnovati. Ma dentro quel rettangolo c’è tanto cuore. E intorno persone come Barbara Antinori e Pino Renzi, marito e moglie, rispettivamente presidente e direttore generale della società. Due fenomeni, che fanno di una società a gestione familiare un gioiello, mettendo avanti valori diversi da quelli del calcio di oggi. Chi viene a giocare qui sa che un rimborso spese c’è per tutti, ed è sicuro. In cambio deve giocare per degli ideali veri, tutto qui».
Come ha fatto Vincenzo Maenza, cugino dell’ononimo campione olimpico di lotta, uno che ha giocato in B col Cesena negli anni Novanta. Come ha fatto Morgan Nani, che nel Brescia ha giocato con Roby Baggio ed è stato compagno di squadra di Viviano. Gente che a questi livelli fa la differenza, e che viene qui, nel mondo alla fine del mondo, grazie al lavoro di persuasione di Righi.
Il resto, ovvero tutto quello che serve, lo fanno loro, Barbara e Pino. Presidente e direttore generale, marito e moglie, vedetela come preferite. Hanno coinvolto le aziende locali, che partecipano e supportano sentendosi parte del gruppo, immedesimandosi nelle imprese della squadra. Hanno offerto alla gente di qui la possibilità di accendersi per un sogno di pallone. Il resto lo ha fatto il campanile. Domenica sera, il pullman della festa è passato da Fossatone con uno striscione: «Qui sapete fare le rane, ora ingoiate questo rospo». Storie d’altri tempi. Di un altro calcio. Che non esiste più, dicono. Niente di più sbagliato. Esiste. Se non ci credete fate un salto qui, nel cuore della Bassa. Dove c’è un piccolo borgo pieno di felicità.

L'Informazione di Bologna, 18 maggio 2010

foto di Stefano Bosi - Omnia Foto

lunedì 17 maggio 2010

Silenzi e incertezze. Ma il futuro va pensato adesso


Cagliari-Bologna 1-1

Finisce così. Sole tiepido, quel tanto di maestrale che rende piacevoli le domeniche di maggio, odori di Sardegna. E una partita di calcio che è l’ultimo dei pensieri, con due squadre che si fronteggiano non avendo più nulla da chiedere a questa stagione. Potrebbe essere un giorno di festa, non fosse che da queste parti ci si interroga, da tempo, sul come si è arrivati al traguardo. E quel come non piace alla gente, perché non dà emozioni nè stimoli. È arrivata la protesta, prima di Cagliari. L’ennesimo strappo tra una proprietà che si guarda intorno per trovare forze nuove a cui passare la mano, e una tifoseria che alla seconda salvezza agguantata a fine corsa, con soltanto un paio di mesi di risultati a effetto e intorno tanta monotonia, è passata dalla noia alla rabbia. Ai “zero tituli”, da queste parti, ormai ci si è abituati da quasi mezzo secolo. “Zero emozioni”, fa sapere il popolo rossoblù, è davvero troppo.
Finisce così, e in realtà è solo l’inizio. E il tempo dirà che estate ci aspetta. Se un remake di quelle passate, fatte di incertezza, di silenzi, di rincorse per agguantare parametri zero sul mercato, di costruzioni provvisorie. O se qualcosa è destinato a muoversi, possibilmente a breve. Era questa, dopo la salvezza raggiunta, la sensazione di Franco Colomba. Presto si farà chiarezza. È, ovviamente, anche la speranza di tutti. Ma per il momento si infrange contro le voci di trattative avviate e smorzate in partenza, contro nomi che passano e vanno (Tesoro, Spinelli, Squinzi e avanti il prossimo), qualcuno appoggiato su basi fondate, qualcun altro probabilmente sognato, dalla gente e magari pure dai Menarini.
Intanto, le certezze sono poche. Che questo gruppo è destinato a perdere pezzi, prima di tutto: già ieri, appena dopo la doccia, Adailton e Pisanu hanno recitato la loro lettera di commiato. Altri li imiteranno, tanti - se non si affronta in fretta il domani - saluteranno con affetto, ma senza voltarsi indietro due volte. Altra certezza: Colomba. Lui l’ha vinta, la sua battaglia, prendendo in mano una squadra allo sbando e senza futuro e facendola diventare, al di là del gioco e degli episodi del campo, un gruppo vero, in grado di restare aggrappato con le unghie alla A. Ricordiamolo: non era affatto una certezza, quando è venuto a fare il profeta in patria. Ma neanche lui, in questo contesto, può godersela a fondo.
La prima settimana senza campionato inizia con la proprietà deferita per le sue frequentazioni moggiane; con Luca Baraldi ancora in ufficio ma con una ridotta operatività, e probabilmente una valigia pronta sotto il letto; con i viaggi del Geometra a Milano. Questo è il presente, e non piace al popolo rossoblù. Urge un futuro diverso. Da subito.

L'Informazione di Bologna, 17 maggio 2010

giovedì 13 maggio 2010

L'ingegner Bonacini ha bruciato le tappe



La vita di Daniele Bonacini è un lungo atto d'amore per lo sport. Prima e dopo il dramma. Che sta lì in mezzo, un maledetto incrocio del destino da cui lui ha saputo ripartire, armato di passione e determinazione. Prima, dopo. In mezzo una data: 1993.
“L'anno dell'incidente stradale che costrinse i medici ad amputarmi la gamba destra sotto il ginocchio. Fino a quel momento ero sempre stato uno sportivo. Giocavo a calcio, a tennis, praticavo il surf. E' stata una brutta botta, improvvisa, ma non mi sono fermato. Ad aprile del '94 mettevo la prima protesi, a fine '95 il primo piede in fibra di carbonio. Nel '97 ho iniziato a fare footing al parco, e alla fine di quell'anno provavo una protesi da corsa preparata dal Centro Inail di Vigorso. Sono stato la prima persona a correre con una protesi uscita interamente da un'azienda italiana”.
Da allora, allenandosi sodo su piste e pedane d'atletica, Daniele ha raggiunto traguardi importanti. Ha partecipato a tre campionati europei e ad altrettanti mondiali, alla Paralimpiade di Atene, nel 2004, ha vinto titoli italiani, è salito ai vertici nazionali della velocità e del salto in lungo. Ha avuto anche le sue delusioni, naturalmente. E anche da quelle è sempre ripartito. “La più intensa? Quando mi hanno lasciato fuori dalla spedizione paralimpica di Sidney 2000. Avevo corso i 200 metri in 25”3, quarta prestazione europea e settima mondiale dell'anno. Il minimo “A” era più basso di tre decimi, 25 netti. Avrebbero potuto convocarmi, e un posto in finale me lo sarei guadagnato, e invece mi lasciarono a casa. Ma era un'altra organizzazione. Quelli che all'epoca guidavano il settore tecnico avevano la “fissa” delle carrozzine. E lasciavano a casa ciechi, amputati. Una vergogna. Ero così abbattuto che smisi di correre, e fu mia moglie a convincermi a ripartire. Dopo Sidney è cambiato tutto: dal presidente, che è diventato Pancalli, alla direzione tecnica. Sono tornato in pista, a prendermi le mie soddisfazioni”.
Nello sport, nello studio. E poi sul lavoro. Daniele ha una laurea di ingegnere meccanico e l'esperienza necessaria per metterla a frutto nel campo della diversa abilità in ambito sportivo. Negli ultimi tempi, tra professione e famiglia, ha virato deciso verso nuove priorità. “Due date in particolare mi hanno cambiato la vita. Il 25 luglio 2006, quando è nata mia figlia Elisa, e il 13 marzo 2007, quando ho deciso di fare il grande passo mettendo in piedi un'azienda, la Roadrunnerfoot Engineering, nata su spin off del Politecnico di Milano, presso il quale ho iniziato tre anni fa un dottorato di ricerca. Il mio mestiere l'ho costruito letteralmente sulla mia pelle. La misison è semplice: rendere la tecnologia più accessibile agli utenti. Mi spiego: oggi, se una persona vive il dramma di aver perso un arto, si ritrova di fronte a problemi anche economici. Deve pagare 2000 euro per avere un piede in carbonio, e dietro quella cifra c'è un ricarico di costi enorme, che può arrivare a sfiorare il 70 per cento. Ci sono troppi passaggi di mano. Per dire: un piede arriva dagli Usa, piuttosto che dalla Germania, e approda prima a un'azienda italiana, poi a un'ortopedia, infine all'utente. Se invece c'è un produttore italiano che vende direttamente all'ortopedia, un passaggio scompare. Se non addirittura due”.
Per l'ingegner Bonacini è prima di tutto una questione etica. “Un amputato ha bisogno del piede in carbonio per camminare. Io ho messo in piedi un'azienda, e certamente voglio fare utile. Ma non a scapito dell'utente. L'utile si fa scommettendo sulla tecnologia, sull'innovazione. E' questa la nostra sfida. Abbiamo brevettato un piede “da camminata” e vogliamo immetterlo sul mercato a basso costo. A una cifra di circa 900 euro, anziché 2000”.
C'è altro, a riempire le giornate di Daniele. Un'idea che si chiama “Disabili No Limits”. Un progetto in fase avanzatissima. “Abbiamo pensato a una Srl per produrre a basso costo e a un'associazione attraverso la quale donare piedi in fibra di carbonio, tutori, carrozzine. Penso a un operaio, a un pensionato che debbano comprarsi un piede da 2000 euro. Per riuscirci devono evitare di mangiare. Attraverso l'associazione cercheremo di avere quei soldi per acquistare le protesi e regalarle a chi ne ha bisogno, lavorando a stretto contatto con le istituzioni perché ci dicano chi ha veramente necessità. E insieme al CCM (Comitato Collaborazione Medica), organizzazione non governativa di cooperazione internazionale, lavoriamo a un progetto per portare protesi a bassissimo costo nei paesi dell'Africa dove il problema delle mine antiuomo ha decimato la popolazione creando centinaia di migliaia di invalidi. Se avremo risposte da una grossa fondazione e da un istituto bancario partiremo dall'Etiopia. Per poi raggiungere anche Mozambico, Zimbabwe, Angola”.
L'agenda è fitta di impegni. Delicati, nobili, importanti. Le presenze al campo sono, di conseguenza, un po' meno frequenti. “Ai tempi di Atene 2004 mi allenavo otto volte a settimana. Oggi lo faccio venti volte in due mesi. A fine marzo mi sono chiamato fuori per le Paralimpiadi, ma il mio allenatore dice che è una sciocchezza. Effettivamente, da quando affronto le gare senza pressioni, non per vincere ma per passione pura, ho una condizione invidiabile. Chissà, magari mi convincono a ripensarci. Solo che dovrei rivoluzionare la mia vita per la ventesima volta in un anno”.

Runner's World Italia

lunedì 10 maggio 2010

Subito un progetto per la A per ritrovare il feeling perduto


BOLOGNA-CATANIA 1-1
Quarantuno punti. Salvezza. Con un turno di anticipo. Il Bologna resta in Serie A, dopo una partita giocata a non ferirsi, dentro un pomeriggio che sembra un paradosso.
In campo, la felicità dichiarata, a gesti e a parole, da un gruppo che ha viaggiato controvento. Partendo male, cambiando timoniere, recuperando terreno, stringendo i denti. Un mese di fiammate entusiasmanti, poi un finale in sofferenza, sette punti nelle ultime dieci partite, una corsa più di cuore che di gambe, con la testa girata all’indietro.
Intorno al campo una festa contenuta, applausi ai giocatori ma proteste, cori, dissenso nei confronti di chi questo Bologna ha cercato di tenerlo in linea di galleggiamento, pur con una buona dose di errori ammessi con sincerità, pur tra decisioni prese, ripensate, rimandate. Proteste contro la società, contro la famiglia Menarini.
“Meritiamo di più”, mandano a dire i tifosi. Siamo i primi a saperlo, risponde il presidente Francesca Menarini, aggiungendo che no, questi segnali non li capisce, proprio nel giorno in cui l’approdo è sicuro.
Non è stata una settimana facile, quella che ha portato alla salvezza. I nervi erano tesi. Persino uno come Franco Colomba, persona per bene e tecnico avvezzo alla navigazione in acque tempestose, ha manifestato il suo dissenso. Lui che ha ragione a dire che la sua parte l’ha fatta. La sua opera è completata, sta scritta nei numeri. Quando arrivò, col sogno di essere profeta in patria, il Bologna aveva messo insieme sei punti in otto partite. Non aveva gioco e non aveva, soprattutto, certezze di futuro. Lui ne ha aggiunti trentacinque, un bottino prezioso. Ha costruito un fortino intorno a un gruppo demotivato, e lì dentro ha lavorato sulle teste più ancora che sulle gambe. Ha rimesso in gioco gente che si era chiamata fuori. Poi, certo, ha fatto le sue scelte. A volte di coraggio, altre di prudenza. Ha cambiato poco, ha riproposto spesso facce di cui si fidava. Talvolta ci ha lasciato perplessi: su un paio di scelte di Bergamo, per dire, ancora ci facciamo domande. Ma la sua partita, lunga una stagione, Colomba l’ha vinta. Il destino gli riserva strade in salita, e rompicapo che quasi sempre riesce a risolvere.
Ecco, fin qui il futuro è solo Franco Colomba. E questo (meglio: anche questo) alimenta il dissenso. Nel periodo migliore della risalita, dietro alla squadra c’era un’idea di solidità societaria. La strada sembrava imboccata anche sotto questo aspetto. Poi, è tornato il tempo dei dubbi e delle riflessioni. Dell’incertezza.
Ora che il Bologna è salvo, bisogna costruire il domani. Non è una questione di nomi. Piaccia o meno il progetto-Baraldi, è tempo di decidere. Di scegliere una strada e di percorrerla. Questo, in fondo, è il messaggio. Meritiamo di più, lo dicono i tifosi e lo pensano tutti, anche la famiglia Menarini. Meritiamo un futuro migliore, dunque iniziamo a pensarlo e a progettarlo.

L'Informazione di Bologna, 10 maggio 2010
(foto di Roberto Villani)