martedì 20 luglio 2010

Don Arturo guarda ancora in alto



di Marco Tarozzi

L'elisir di eterna giovinezza, don Arturo Bergamaschi deve averlo trovato ad alta quota. E se adesso, con ottantadue primavere sulle spalle, certe vette oltre quota seimila preferisce non salirle più, può ancora permettersi di guardarle da molto vicino. Più vicino di quanto succeda alla maggior parte di noi. Con gli anni il suo fare alpinismo, che ha affascinato tanta gente e ne ha fatto un'autorità in fatto di spedizioni in giro per il mondo, si è trasformato in trekking. D'alta quota, però. Impegnativo anche per fisici preparati.
Lui ci scherza su. “Il mio allenamento? Sono sempre in giro per Bologna, e la macchina non so più cosa sia. Inforco la bicicletta e via, con qualunque clima”.
Adesso che l'estate fa sul serio, però, è arrivato il momento di partire. Per la spedizione numero quarantasei di una brillante carriera da alpinista-ricercatore. Quarantasei, con beneficio d'inventario. “Ma sì, deve essere così, anche se ormai ho quasi perso il conto. Pensare che mi avvicinai alla montagna quando ero seminarista, per una convalescenza dopo una broncopolmonite. Ha presente quegli amori a prima vista? Si può dire che non sia quasi più sceso”.
La prossima avventura inizia venerdì prossimo, e durerà fino al primo agosto. Destinazione Ladakh, nel nord dell'India. Lo chiamano Piccolo Tibet, incastonato com'è tra le catene del Karakorum e dell'Himalaya. Un paese dove buddisti, oltre la metà della popolazione, e musulmani sciti (la percentuale di induisti è minima) riescono ancora a convivere in armonia ed equilibrio. Culture e credenze diverse, a cui don Arturo si apre con curiosità da quando, spiega sorridendo “ho intrapreso questa vocazione da prete vagabondo, che va sempre in giro alla ricerca del prossimo”. E se il prossimo è apparentemente così distante, meglio ancora. Ne nascono situazioni uniche, come una messa officiata oltre quota cinquemila a cui si aggregano, ognuno con le sue modalità di preghiera, uomini di diverse religioni, che in quei luoghi dove la solidarietà prevale non sanno essere nemici.
Il viaggio in Ladakh di don Bergamaschi è per pochi. “Partiamo in quattordici, questa volta. Da Leh, la capitale, e non tutto il tracciato è certo. Di sicuro vedremo il monastero di Hemis, il più importante di quel paese, e non dimenicheremo la visoone mozzafiato del gompa del monastero di Rizong, che si staglia circolare in fondo a un canyon. O l'incredibile oasi di Tingsmogang, la valle più verde e fertile di quella terra. Non sarà un trekking comodo, questo no. Viaggeremo sempre tra i 4000 e i 5000 metri, sette ore al giorno per un totale di venti, venticinque chilometri con dislivelli tra i 600 e i 1000 metri. E sfioreremo vette himalayane, di oltre seimila metri, che ho già salito con altri compagni nella spedizione del '97”.
L'ennesimo atto d'amore per la montagna di un sacerdote di ferro (classe 1928) dal cuore ragazzino. Quarant'anni dopo la prima grande spedizione, in Kurdistan nel 1970. In mezzo, appunto, altri quarantasei viaggi ad alta quota, quasi duecento tra prime ascensioni assolute e vie nuove, un lavoro di ricerca spesso scientifico che ha coinvolto grandi specialisti e aiutato la scienza a progredire. Non è solo questione di passione, anche se don Artuto, con la solita ironia, minimizza. “Il fatto è che andare in quota è la mia medicina. E con i trekking perdo sali e recupero salute”. Tutto vero, ma la questione è molto più profonda. Buon viaggio, allora. Una volta di più.

L'Informazione di Bologna, luglio 2010

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