martedì 17 agosto 2010

Rossi-Ducati: "Saremo una Nazionale rosso fuoco"


di Marco Tarozzi

Il segreto di Pulcinella l’hanno svelato così. Ferragosto, dopogara a Brno, ore 18: per prima arriva la mail della Yamaha, con i saluti di rito a chi le ha regalato (e prima ancora costruito) quattro titoli mondiali in sette anni. Segue lettera della serie “è stato bello, ma anche le cose belle finiscono” scritta (a mano) e firmata da Valentino Rossi in persona. Last but not least, alle 18.38, il comunicato di Ducati, a suggellare il matrimonio. Come raccontare con parvenza di novità quello che tutti già sapevano. Dettagli compresi: due anni di contratto, tra i 12 e i 13 milioni di ingaggio coperti in buona parte dagli sponsor. Due anni per tentare il colpo che non riesce dal lontano 1972: pilota e moto italiani che vincono nella classe regina del Motomondiale. Allora era la 500, e il colpo riuscì per l’ennesima (ultima, scoprimmo poi) volta a Giacomo Agostini e Mv Agusta. Valentino ci prova con la Rossa di Borgo Panigale, ha due anni di tempo prima di farsi aprire i cancelli di un’altra Rossa, a quattro ruote.
Il giorno dopo le dichiarazioni di Valentino virano verso Ducati, dopo le parole di affetto per gli anni gloriosi vissuti con la casa di Iwata. «Insieme saremo la Nazionale della moto. Saranno due anni bellissimi, lo sento. Mi sono sentito corteggiato da Preziosi, provando le sensazioni che mi fece provare Furusawa nel 2003».
Già, Filippo Preziosi. Che ha lavorato dietro le quinte, con pazienza, perché il colpo andasse in porto. L’ingegnere che ha creato il Desmosedici da MotoGP ha anche aperto le porte al team di Rossi, e ormai pare certo che anche Jeremy Burgess, all’inizio molto titubante, seguirà il campione anche in questa avventura. Sull’argomento, Rossi specifica che «Non so con certezza chi verrà. Ne stiamo discutendo».
È convinto ed entusiasta, Vale, e i paragoni con l’altra svolta, quella di sette anni fa (da Honda a Yamaha) lo pungolano. «Quella Yamaha era molto meno competitiva della Ducati di oggi. Ma i tempi cambiano, sarà difficile anche adesso. Forse andrà meglio nel 2012, quando torneremo ai 1000 cc., ma per dirlo dovrei provare la moto».
Cosa che Furusawa non pare intenzionato a permettere subito dopo Valencia. C’era una sorta di gentlemen agreement, per il quale Vale e Ducati avevano evitato di annunciare il passaggio a Laguna Seca, dove Yamaha festeggiava. Ma i giapponesi non l’hanno presa bene. Volevano che Rossi chiudesse con loro. «Spero che Masao ci ripensi. Cambio anche perché a fine anno lui va in pensione. Per me la Yamaha era lui, con lui ho sempre parlato di tutte le questioni, non solo tecniche».
Passione e voglia di avventura, dietro la scelta. Non solo un ingaggio stratosferico. «Quello me l’offrivano anche in Yamaha. Stessa cifra. Non ho mai scelto per soldi, nemmeno quando avvevo vent’anni. Ora meno che mai».

IL PILOTA
Vale, quando il talento domina sul motore

di Silvestro Ramunno

Prendere Valentino è come ingaggiare Leo Messi. Conta la squadra sì, ma il fuoriclasse è lui. Anche nel motomondiale dell’elettronica, del traction controll, della frenata assistita, della moto progettata al meglio per andar forte su ogni circuito, Rossi ha dimostrato di sapere e poter fare ancora la differenza. Non gli sarà mai passato per la testa di scambiare un computer con Jeremy Burgess (il capomeccanico che ha deciso, dopo pressanti inviti, di seguire Vale nella nuova avventura).
Valentino Rossi è il miglior concentrato di talento, tecnica (guardate come ha trasformato la M1 che nel 2004 non valeva nulla) e cattiveria alla guida. Uno che ha spostato l’asticella dell’andare in moto un bel po’ più avanti. Ammirare quelle staccate al limite, le impressionanti rimonte e i corpo a corpo mozzafiato, ti fa apprezzare la splendida unicità di gesti atletici difficili da percepire in uno sport a 300 all’ora.
Un pilota totale che schianta gli avversari colpendoli nelle loro debolezze dentro e fuori la pista. La caduta in picchiata di Stoner è cominciata a Laguna Seca nel 2008, quando Rossi decise che l’australiano doveva star dietro; Lorenzo ha abbassato la testa dopo quel sorpasso im-pos-si-bi-le (definizione di Loris Reggiani) all’ultima curva a Barcellona 2009.
Manico e psicologia, il Dottore è già laureato sul campo e in cattedra, Yamaha o Ducati, ci sarà sempre lui. Certo, comincia una nuova sfida e Vale dovrà rimettersi in gioco: 32 anni, una gamba che deve ancora andare a posto, un carniere di titoli e vittorie (che solo Giacomo Agostini non invidia) che ti può bastare fino alla pensione.
Rossi le sfide non solo le ha accettate, le ha cercate. Ha lasciato una Honda imbattibile per accomodarsi su una Yamaha da mezza classifica. Welkom 2004, contro il rivale Biaggi approdato sull’Hrc ufficiale, è stata un capolavoro, così come Laguna Seca dopo due anni difficili che lo hanno tenuto lontano dall’iride o la Catalogna del 2009 con Lorenzo beffato quando già pregustava la bandiera a scacchi a casa sua.
E se ne potrebbero citare altre di gare perfette, anche negli anni bui, anche quando aveva le pessime Michelin e combatteva contro la “triade perfetta” pilota-moto-gomme, cioè Stoner-Ducati-Bridgestone. Mugello e Assen 2007 le dovrebbe studiare chiunque abbia intenzione di mettersi a fare gare con le due ruote.
Il binomio d’eccellenza del Made in Italy, Rossi e la rossa, l’immagine di Bologna proiettata in tutto il mondo, il Davide italiano contro i Golia giapponesi, sono tutte conseguenze, bellissime conseguenze che saranno apprezzate dalla città, dal popolo della rossa, dagli italiani che amano le moto, dagli economisti e esperti di marketing territoriale. Cose, però che resteranno a bordo pista, al massimo se ne parlerà durante le prove del venerdì. Quando si fa sul serio servono Filippo Preziosi (che lo ha accolto con parole bellissime), Jeremy Burgess e soprattutto il manico di Valentino.


LA MOTO
Una storia nobile e un progetto vincente

di Marco Tarozzi

Dicono: Rossi che passa da Yamaha a Ducati riporta alla memoria un altro grande cambio di scuderia, di rotta, di prospettive. Che riguarda, quando si dice il destino, l’unico pilota italiano la cui leggenda riesce ancora a tener testa a quella del Dottore, non fosse altro per numero di titoli iridati vinti. Ricorda, insomma, la scelta di Giacomo Agostini, che nel dicembre 1973 annunciò al mondo il suo addio alla mitica MV Agusta, con la quale correva dal 1965, e aveva vinto tutto, e il suo passaggio alla Yamaha. Il paragone è affascinante, perché mette in relazione i due centauri che più di chiunque altro hanno cambiato la storia del motociclismo. Ma in queste due storie l’unico punto in comune è l’età dei due protagonisti. Il grande Ago aveva trentadue anni quando decise di cambiarsi il destino. Valentino ne avrà trentadue quando affronterà il Mondiale MotoGP in sella alla Desmosedici. Il resto è dissonante. Agostini se ne andò da una Mv Agusta in difficoltà: un’azienda in cui la crisi, iniziata con la morte del conte Domenico Agusta nel ‘71, sfociò nel ritiro definitivo dalle corse. Il Dottore abbandona il team e la moto più forte, quello che ripartirà la prossima stagione con in casa il campione del mondo. E lascia una moto, la M1, che è diventata la più forte del lotto grazie al lavoro suo e del suo team.
Valentino ha una certezza, però. Non fa un salto nel vuoto. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Ducati è tornata a dipingere di rosso i circuiti della classe regina. Il progetto MotoGP è cresciuto, è diventato grande: otto campionati, compreso quello in corso, un titolo mondiale, mille emozioni per un popolo che non ha mai tradito la sua fede. È cresciuto nel cuore di un’azienda che, in quanto a dimensioni, non può battersi con i grandi imperi del Sol Levante, ma in quanto a risultati ha saputo riportare ad alta quota la creatività e la tecnologia della scuola italiana. Rossi entra in un mondo pieno di storia. Che parla della genialità delle prime grandi invenzioni dell’ingegner Taglioni, dei primi giorni di gloria sulle strade del Motogiro e della Milano-Taranto, del grande ritorno con la 750 bicilindrica desmodromica alla 200 Miglia di Imola, nel ‘72, con la storica doppietta Smart-Spaggiari. E di Mike Hailwood, re del Tourist Trophy ‘78 con la 900 SS, e del lungo regno in Superbike battezzato dalla vittoria di Lucchinelli nella prima gara della categoria, a Donington nell’88. E ancora della discesa in campo in MotoGP, pensata nel 2002 e realizzata un anno dopo. Il progetto Desmosedici GP, voluto e realizzato da Filippo Preziosi e Claudio Domenicali. E una moto da molti considerata scorbutica, buona per un talento puro come Casey Stoner, che ci ha vinto il titolo nel 2007. Eppure, anche Loris Capirossi ci ha fatto cose egregie, e anche lui ha mancato l’iride di un soffio, un anno prima dell’australiano. Valentino, insomma, sposa Ducati anche per cancellare i luoghi comuni. Da novembre si metterà al lavoro e a suo modo volterà pagina. Non resterà che aspettare il risultato di questo incontro unico. Talento, professionalità, voglia di stupire ancora. A pensarci, pilota e moto hanno lo stesso carattere.



L’Informazione di Bologna, 17 agosto 2010

venerdì 13 agosto 2010

Rossi-Ducati, scene da un matrimonio


di Marco Tarozzi

Insomma, è fatta. Giù la maschera, il matrimonio tra Valentino Rossi e la Ducati è una realtà, e non certo da oggi. Che poi, per una sorta di “gentlemen agreement” tra il team di Borgo Panigale e Yamaha, si sia deciso di aspettare il fine settimana di Brno per annunciarlo, è un dettaglio. Troppo interesse aveva la Yano i giapponesi a non rovinarsi la festa americana di Laguna Seca, e in cambio potrebbe arrivare a Valentino il permesso di prendere confidenza con la Desmosedici già nei test di Valencia, appena finito il campionato, senza dover attendere la scadenza naturale del contratto. Tutto rimandato a Brno, allora: e stavolta il Dottore e la Rossa di Borgo Panigale si dichiareranno amore reciproco, dopo sette lunghi anni di corteggiamento da parte dell’azienda bolognese.
LA LUNGA CORTE - Ci provò nel 2003, la Ducati. Mentre Rossi stava divorziando da Honda. Ci fu una visita in azienda, si parlò di progetti futuri e tutto finì lì. Abboccamenti anche nel 2006, sempre senza esito. Poi, Ducati ha scelto di partire da lontano: mettendo a contratto per la stagione 2009 Nicky Hayden, compagno perfetto di Vale ai tempi della Honda. E una serie di eventi ha accellerato l’operazione. Prima i problemi di stress di Stoner e la “fuga” in Australia, a fine stagione 2010, che portarono il team a fare un’offerta a Jorge Lorenzo. Poi l’addio di Livio Suppo, che l’australiano raggiungerà alla Honda nella prossima stagione. Quest’anno, infine, ci ha pensato Yamaha, mostrando di avere ormai scelto Lorenzo, e non seguendo più di tanto il Dottore dopo la caduta al Mugello. Ad altissimi livelli, lo sport non prevede riconoscenza. Allora Valentino ha sciolto le riserve. E ha accettato l’ennesima offerta della Ducati.
L’ACCORDO - Offerta di quelle imperdibili, va detto. Tra i 12 e i 13 milioni d’ingaggio, che la casa di Borgo ha potuto mettere sul piatto con il supporto di Marlboro, Fiat e Alice. Due anni di contratto, e poi via libera per un futuro di Vale su un’altra Rossa: la Ferrari, che lo attende dal 2013, quando potrà offrirgli una terza macchina per portarlo, finalmente, sui circuiti di Formula Uno. In questo assalto non va messo in secondo piano il lavoro di Filippo Preziosi, l’uomo nella cui mente si annidano i segreti della Desmosedici. L’amicizia tra il campione e l’ingegnere della Ducati è stata decisiva, in tutta l’operazione.
CAMBIAMENTI - Da lunedì il mosaico si sistemerà. Valentino in Ducati, con Hayden; Lorenzo numero uno in Yamaha, con accanto Ben Spies, che diventerà “ufficiale” dopo un anno di rodaggio in una scuderia satellite. Con Stoner, alla Honda, resterà Pedrosa, e a farne le spese sarà Andrea Dovizioso. Tramontata l’ipotesi della terza Honda, per lui si aprono due strade: Team Gresini, accanto a Simoncelli, con una Honda “quasi” ufficiale, o Yamaha Tech 3. Mentre Loris Capirossi è a un passo dal ritorno in Ducati, seppure alla corte del Team Pramac. Ma deve rivedere il suo cachet.
PER LA LEGGENDA - È una sfida titanica, quella che attende il Dottore. Certamente, l’ultima della sua strepitosa carriera. Fino all’inizio di questa stagione non era affatto convinto di affrontarla, e immaginava di chiudere in Yamaha. Il mutare (talvolta il precipitare) degli eventi lo ha definitivamente convinto. E adesso ha un paio di sfide da giocare, che potrebbero fargli fare un passo in più nella leggenda. La prima: da 38 anni (Agostini-MV Agusta) manca un’accoppiata tutta italiana sul gradino più alto della classe regina. La seconda: solo quattro piloti hanno conquistato il titolo, in 500 o MotoGP, con due marche diverse. Sono Geoff Duke, Mino Agostini, Eddie Lawson e lo stesso Rossi. Riuscisse a farcela anche con la Ducati, Vale resterebbe solo: nessuno ha mai fatto tris. Finora.

UN GRANDE COLPO PER SCACCIARE LA CRISI

Ci voleva, una notizia del genere. Perché anche se fa di tutto per nasconderlo, il carrozzone della MotoGP la crisi l’ha sentita, eccome. Navigando nella stagione meno esaltante della sua breve storia, la classe regina sembra quasi immobile, nell’attesa del grande annuncio che dovrebbe cambiarle il cammino. Perché è fuori discussione che il binomio Rossi-Ducati è destinato a far parlare di sè. Anzi, lo sta già facendo, da quando la notizia ha cominciato a farsi, di giorno in giorno, sempre più credibile.
Per Yamaha Valentino Rossi ormai rappresenta il passato. La casa di Iwata ha scoperto le carte, facendo ben intendere di voler puntare tutto sul talento (e sulla gioventù) di Jorge Lorenzo. Valentino ha cercato di ristabilire le gerarchie in pista, ma la caduta al Mugello ha compromesso definitivamente i suoi progetti. Vale è un ragazzo acuto, intelligente. Ha capito subito l’aria che tirava, e che il vento era cambiato. Proprio al Mugello la Ducati si è rifatta sotto. E ha accettato le sue richieste, in toto, con gli sponsor che le hanno coperto le spalle sognando ad occhi aperti questo connubio.
Adesso i riflettori si accenderanno su una carovana che aveva ammucchiato un po’ di polvere. E anche quest’anno, in qualche modo di transizione, va verso l’epilogo. Non ce ne voglia Lorenzo, che sta portandosi a casa il suo titolo mondiale festeggiando le vittorie in pista con messe in scena che sembrano, anche quelle, sbiadite ripetizioni degli sketch del Dottore. Poi, si ricomincerà da quei due nomi che esaltano la fantasia degli appassionati.
Non parte da zero, Rossi. Parte da un team che ha saputo crescere e imporsi, che ha sfiorato un titolo con Capirossi nel 2006 e l’ha conquistato con Stoner l’anno dopo. Nessuno esce sconfitto, a ben guardare. La Yamaha resta la moto da battere, e ha in casa il futuro campione del mondo. Stoner vivacchia in Ducati in attesa di rilanciarsi con la nuova Honda. Valentino è pronto per la sua sfida, e per dimostrare che può domare questa Rossa considerata troppo bisbetica.
Qualcuno paragona questo storico passaggio a quello, a strade invertite, che portò Agostini dalla MV in Yamaha nel 1975. Ma allora Ago se ne andava da una scuderia in grave crisi per sposare la causa di quella emergente. Stavolta Valentino lascia il team più rodato, quello vincente. Ma non va verso l’ignoto, questo no. Va in Ducati, un nome che è una garanzia.
m.tar.

m.tarozzi@linformazione.com

L'Informazione di Bologna, 13 agosto 2010

giovedì 12 agosto 2010

Il ragazzo che ama i motori e sogna Londra


di Marco Tarozzi

IMOLA - Fabio Scozzoli un esempio da seguire l’aveva. Si chiamava Domenico Fioravanti. Ancora ragazzino, Fabio si metteva davanti alla tv e gioiva alle vittorie del campione. «Avevo dodici anni, lui gareggiava a Sidney. Puntai la sveglia per vedere la finale dei 100 rana. Quella medaglia d’oro alle Olimpiadi è un’emozione che ancora mi porto dentro».
Dieci anni dopo, Fabio si è preso il bronzo agli Europei sulla stessa distanza. E al “crono” di Fioravanti, quasi un decennio dopo, ha dato una bella limata: nel 2009 è stato il primo atleta azzurro a scendere sotto il minuto, sulla distanza. Ha nuotato in 59”85 in finale alle Universiadi. Un tempo che quel giorno valeva l’argento.
Fabio ha compiuto ventidue anni il 3 agosto. È nato a Lugo, vive a Forlì e tutti lo credono imolese. Perché qui è cresciuto, macinando chilometri nelle corsie dell’Imolanuoto, la società che ha lanciato anche Ilaria Bianchi, primatista italiana dei 100 farfalla. Qui ha trovato il suo guru: Tamas Gyertyanffy, ungherese, un’autorità nel suo campo. A Budapest, proprio dove Fabio si è preso questo bronzo europeo, anni fa ha cresciuto molti talenti. Il più sfavillante è stato Tamas Darnyi, quattro medaglie olimpiche e altrettante iridate in bacheca. Poi, il tecnico magiaro ha virato sull’Italia. Prima Desenzano, poi Imola. Da sei anni tra lui e Fabio è nato un bel feeling. Il ragazzo ha ringraziato il maestro, dopo essere salito sul podio. E il maestro rilancia: «La sua gratitudine per me è motivo d’orgoglio. È un atleta modello, sincero e generoso. E ha grandi margini di miglioramento. Glielo dico sempre: quando non ci saranno più errori da correggere ti manderò a giocare a bocce».
Fabio intanto gioca con i motori. Sono la sua seconda passione. Ha una Bmw serie 1, e quando può spinge sull’acceleratore con gli amici nelle piste di go-kart. Della velocità ama i miti: Valentino Rossi, da buon romagnolo, e la Ferrari. «A dirla tutta, dopo l’addio di Schumi avevo perso interesse. Ma adesso c’è Alonso e mi sono riavvicinato alla Rossa».
Mamma Laura, lughese, fa la dentista, papà Graziano alleva cani. La sorella Silvia, fisioterapista, è stata la prima a prendere la strada della piscina. Fabio le è andato dietro, a sei anni, Non ha più smesso. E ora rilancia: «L’Europeo era il primo passo per trovare autostima. Per crederci davvero. La salita non è finita, ma io e Tamas abbiamo un progetto olimpico e questo bronzo lo rafforza». Destinazione Londra, allora. Inseguendo Fioravanti.

m.tarozzi@linformazione.com

L'Informazione di Bologna, 12 agosto 2010

mercoledì 11 agosto 2010

Colomba: "Questa sfida mi affascina"



di Marco Tarozzi

Franco Colomba, Sestola non è Andalo: stavolta la squadra c’è, anche se non è completa.
«Sì, stiamo arrivando. C’è un’ossatura, una forma precisa. Del resto, le trattative non si fanno in quattro e quattr’otto, ci vuole pazienza, costanza, tenacia. La società ha lavorato e sta lavorando molto bene. Non saremo proprio tutti, all’inizio di questa seconda fase di ritiro, ma nel giro di poco tempo tutte le caselle saranno riempite».
È già il Bologna dei giovani, come si è visto a Ravenna contro il Napoli. Il che significa?
«Che dei giovani avrà il carattere: voglia di imporsi, di arrivare, volontà e naturalmente gamba. Sta a noi, ora, tirar fuori il meglio da ognuno di loro. I ragazzi hanno pregi e difetti, noi proviamo a esaltare i pregi».
La squadra che si è salvata all’ultimo guizzo nella passata stagione aveva ben altra età. Per lei è un bel cambio di prospettiva.
«Io sono abituato a lavorare con quello che ho a disposizione. E la regola, in fondo, è quella: se hai giocatori maturi che ti danno garanzie per raggiungere un obiettivo, dai loro fiducia. Se hai ragazzi di talento, li getti nella mischia. La nuova proprietà ha fatto scelte precise, invertendo la tendenza. E io sono contento di lavorare con un gruppo che può costruirsi un futuro».
Sposa in pieno la politica di Porcedda.
«Sì, e l’avventura mi affascina. Non vedo l’ora di cominciare».
Meglio così. Smetteranno di pensare che lavorare coi giovani non la convince del tutto.
«Io su questa faccenda avrei qualcosa da obiettare, sinceramente. Nella mia carriera ho allenato in diverse situazioni, diciamo pure che le ho provate tutte. Ma di ragazzi che sono partiti con me e hanno fatto strada ce ne sono parecchi. A Salerno, per dire, avevo Grassadonia e Iuliano».
A Reggio Calabria, Pirlo e Baronio insieme...
«Mica solo loro. Vogliamo aggiungere Possanzini, Kallon, Cirillo, Cozza, Morabito, Bogdani, Vicari e... mi fermo. Semmai aggiungo Floro Flores e Bocchetti, a Napoli. E anche nella scorsa stagione non mi sono tirato indietro, se ricordate».
Ha creduto in Casarini.
«Ha avuto le sue possibilità e ha scalzato gente di trentadue, trentatrè anni».
Insomma, qual è la ricetta?
«Semplicissima. Se un ragazzo è bravo gioca, se non lo è aspetterà il suo turno. Se è maturo va in campo, se non lo è dovrà crescere ancora, mentalmente e tecnicamente. Tutto qui».
A far gruppo ci penseranno gli anziani rimasti. Ce ne sono ancora.
«Di Vaio, Viviano, Buscé, Portanova. Lo stesso Britos ormai è quasi un veterano. E Moras? Visto come ha tenuto insieme la difesa, contro il Napoli, dando consigli fondamentali ai nostri Primavera?»
Ha già idee precise sul modulo da proporre?
«Quando il cerchio sarà definitivamente chiuso vedremo, ragioneremo di quel che c’è. Per ora parto dal 4-4-2, che conosciamo già. Ma non mi cristallizzo, perché le mie valutazioni partono sempre dalla base umana, più ancora che da quella tecnica. Io sono convinto che siano i giocatori a esaltare il modulo, non il contrario».
A centrocampo arriva Ramirez, arriverà Perez. Doveste chiudere anche per Matic, gli spazi per Mudingayi si ridurrebbero.
«Non so cosa succederà, di qui alla fine delle operazioni di mercato. Ma a un allenatore i buoni giocatori fanno comodo. È ovvio che non possono andare in campo tutti, ma danno garanzie».
Perez è un gran bel colpo.
«È un giocatore di grande esperienza, abbiamo visto dove è arrivato al Mondiale con l’Uruguay. Uno così può sistemare molte cose».
Ramirez dovrà andare a fare un’ultima apparizione con la maglia del Penarol a Madrid, contro il Real. Contrariato?
«Non è che la cosa sposti più di tanto i miei progetti. Noi siamo partiti con un po’ di ritardo, qualche contrattempo è nella norma. Prendo atto di questa situazione, ma abbiamo fatto senza fin qui e sapremo aspettarlo».
L’attacco, sinceramente, così com’è sembra leggerino.
«Valuteremo a vista. Oggi abbiamo Di Vaio, Bernacci, Meggiorini, Gimenez, Paponi. Strada facendo faremo le nostre verifiche, oggi questi sono i nostri attaccanti».
L’idea è che su Almeyda la società si stia ancora muovendo.
«Le idee per l’attacco erano e sono tante. Non tutti gli affari possono andare in porto immediatamente, qualche frenata ci sta. Ma già così, non mi sento scoperto».
Come si sente, invece?
«Bene. Soddisfatto, in sintonia con questo cambio di ritmo. Pronto a fare la mia parte per aiutare questo Bologna giovane a crescere. In fretta, possibilmente».

L'Informazione di Bologna, 11 agosto 2010

m.tarozzi@linformazione.com

martedì 10 agosto 2010

Lardo: "La mia Virtus cresce bene"




di Marco Tarozzi

Lino Lardo, partiamo da Beppe Poeta. Che significa il suo arrivo?
«È un innesto importante, ha caricato l’ambiente. Mettiamo in squadra una persona con valori veri, un bello spot per la pallacanestro. Tecnicamente non si discute, due anni fa è stato il miglior play del campionato, ed ha un entusiasmo coinvolgente. In più è un italiano, e noi stiamo cercando di costruire una squadra sempre più italiana. Insomma, si adatta perfettamente al progetto Virtus a cui stiamo lavorando» .
Eppure, l’ha detto lei, non era il primo dei suoi pensieri.
«Vero. C’era l’interessamento di altre squadre, c’era un budget che mi sembrava fuori portata, per quella che è la nostra linea societaria. Ma alla fine credo ne sia uscito un accordo
favorevole per tutti. Sabatini ha fatto un grande sforzo, e ha dimostrato di avere le idee chiare sulle questioni di mercato. E anche per il giocatore Bologna è un
approdo importante».
L’ha già sentito, ovviamente.
«Sì, ed è pieno d’entusiasmo. Ha una carica coinvolgente».
Ora come pensa di inserire Koponen nel nuovo assetto?
«Petteri l’anno scorso ha dimostrato di essere la vera “combo guard” moderna. La sua crescita è stata significativa. Può giocare da 2, come gli è congeniale, e da 1. Avere questi due giocatori mi faciliterà le cose, questo è sicuro».
Par di capire che non ci sia fretta di riempire la casella dell’esterno extracomunitario. Però se arriva tardi, magari da un college, dovrà inserirsi in un gruppo già rodato.
«Questa cosiddetta pazienza ci favorirà, il tempo è dalla nostra parte. Oggi io ho una squadra, e l’innesto di un altro esterno si può valutare con calma. E se il gruppo lo costruiamo bene, l’inserimento non potrà essere un problema. Dovremo essere bravi a valutare il mercato, senza fretta. L’operazione Poeta ci permette di tirare il fiato».
Jared Homan è un marcantonio che dovrebbe spostare parecchio, in difesa.
«Credo proprio di sì. A livello di marcatura sui pivot dovrebbe tenere l’uno contro uno, permettendoci di andare meno in aiuto, come eravamo costretti spesso a fare la scorsa stagione.È uno che dà presenza, rimbalzi, che intimorisce l’avver sario».
Il motto più sentito in questi giorni è “squadra giovane e frizzante”. Cosa c’è dietro le parole?
«Come media siamo la più giovane squadra del campionato. Ci vorrà pazienza, ma la fame e l’entusiasmo sono assicurati. Se qualcuno di questi ragazzi venisse in Virtus senza quelli, avremmo sbagliato qualcosa. Ma sulla passione io conto a prescindere, la chiedo ai ragazzi e ai più anziani. Abbiamo un nucleo formato da Koponen, Sanikidze, Moraschini da cui ripartire. Penso a una pallacanestro veloce, bella, divertente. Ma penso anche a una squadra: devo trasmettere ai miei giocatori il concetto di gruppo, perché è quello che vince, alla fine».
Sabatini le ha lanciato un messaggio: “non vorrei che fossimo ancora i penultimi in quanto a punti segnati”, ha detto.
«Io e Claudio ci confrontiamo spesso, anche allegramente. La prima cosa che mi chiede se gli propongo un giocatore è se sa segnare da tre... Discutiamo, a volte scherzando ed altre seriamente. Ma io capovolgo la questione e dico che l’anno scorso siamo stati la seconda miglior difesa del campionato. E con un pizzico di fortuna in più, e non voglio parlare degli infortuni, saremmo qui a parlare di un secondo posto».
Non abiura, insomma…
«Dico di più: oggi, con una squadra del genere, l’aspetto difensivo è ancora più importante. Conoscete il mio motto: difendere forte per attaccare meglio».
Blizzard sarà il sesto esterno. Dietro anche a Moraschini. Significa che gli cercherete una sistemazione altrove?
«A oggi la squadra è quella che conoscete. È chiaro che la nostra intenzione è quella di dare maggior spazio a Moraschini, rispetto alla passata stagione. Contiamo molto su di lui, sulla sua voglia di sfruttare l’opportunità. Blizzard viene da un lungo periodo di inattività, dovremo valutarne le condizioni. Sì, a oggi
è il sesto esterno, ma fa parte della squadra e noi tuteliamo i nostri giocatori».
Laboratorio Lituania. Che ne dice?
«Dico che già il progetto Ozzano è importante. Acquistando una società di A dilettanti, Sabatini ha dato un bel messaggio a chi vuole guardare oltre. L’altro discorso è più complesso: io sono stato a Las Vegas, Faraoni a Vilnius. Bisogna essere presenti alle manifestazioni importanti, muoversi su tutti i fronti. Così si possono allacciare collaborazioni. Negli States quella V sulla mia maglia attirava gli agenti. Venivano a cercarmi, e questo significa che il nome Virtus è una garanzia in Europa e nel mondo intero».
Nuove regole: quanto rivoluzioneranno il sistema di gioco?
«La palla è ferma e questo è il tempo delle sentenze. Mi sembra quando, a metà degli anni Ottanta, misero la linea dei tre punti e il ferro sganciabile. Io giocavo a Forlì, anche un tiratore come me ci guadagnò. È stato un momento importante di evoluzione, questo sì. Ma a dire come stanno le cose sarà il campo. Non credo che mezzo metro cambi molto, per gli esterni. Forse ci saranno spazi più ampi dentro l’area, più difficoltà con gli aiuti, e per uno come me che dà importanza al gioco in pivot basso è una buona notizia. Se lì sotto hai un giocatore pericoloso, hai più possibilità di scelta».
Lei ce l’ha.
«Amoroso nell’ultima stagione è davvero migliorato. Homan ha caratteristiche diverse, fisico e stazza, ma certamente se la giocherà. Li vedo bene, dentro il gioco che ho in mente».
Presto per parlare di valori in campo?
«Sulla carta ci sono squadre con fisionomie precise. Montegranaro ha scelto tre americani ottimi. Milano si muove bene, Roma si muoverà. L’incognita? Siena. Saprà essere vincente come prima, da subito, dopo quello che ha cambiato?»
La Virtus, in tutto questo?
«A me piace molto. Quando a maggio Sabatini mi propose di puntare sui giovani, gli ricordai che Bologna è anche una piazza che chiede il risultato. Lo so, sono razionale, che devo farci? Ma strada facendo ho visto crescere bene questo progetto. È coraggioso, e per questo abbiamo bisogno di avere vicino i nostri tifosi. Ma se ci crediamo tutti insieme, andremo lontano».

L'Informazione di Bologna, 3 agosto 2010

domenica 8 agosto 2010

Porcedda: "Il mio Bologna vi stupirà"


di Marco Tarozzi

Sergio Porcedda, presidente del Bologna da un mese esatto. Più la fatica o il divertimento, fin qui?
«Diciamo che è stato un mese molto impegnativo, e non è certo finita qui. Forse non ci aspettavamo una full immersion di questo genere, ma eravamo pronti a lavorare per il presente e il futuro del Bologna. Il lavoro procede, naturalmente. E l’entusiasmo è più forte di tutto, cresce di giorno in giorno. Aggiunga a questo che siamo ottimisti per natura, può immaginare se ci fermiamo qui».
Entusiasmo e passione sincera per il calcio. Nata su campi protetti da un dio minore. Le va di fare un salto indietro, di ricordare?
«Da ragazzino giocavo a pallone. Ed ero scarso, chiariamo subito. Poi ho fatto l’arbitro, fino a ventotto anni. Tanti miei amici vengono da quegli anni, e la passione non si è mai addormentata».
Ancora più indietro: nel 1970 lei andava verso gli undici anni e il Cagliari vinceva uno scudetto storico.
«Che ricordi... Battevamo i piedi sulle tribune di legno dell’Amsicora, ci sentivamo un tutt’uno con quella squadra. Sì, lo scudetto è stato uno spartiacque, per noi ragazzi di Sardegna. Ma anche la rinascita dopo la caduta in C è un ricordo indelebile, un momento di ritrovato orgoglio».
Cosa resta di quegli anni, del mito di Gigi Riva?
«Gigi è un amico. Una persona per bene, oltre che un pezzo di storia del nostro calcio. Un uomo equilibrato, sempre dentro le righe nel suo mestiere. E a Cagliari ha fatto una scelta di vita: ricorda quando rifiutò la Juventus, per restare in quella che era diventata ormai casa sua?».
Era il calcio degli anni Settanta. Certe storie racchiudevano valori profondi. Merce molto più rara, oggi.
«Ci vorrebbe un po’ di selezione, nel calcio di questi tempi. Troppa gente gira intorno e dentro l’ambiente. Nel mondo sono cambiate tante cose, un ridimensionamento non guasterebbe. Sentire ragazzi di vent’anni che si lamentano per un ingaggio di trecentomila euro mi fa riflettere. Servirebbe più equilibrio, sotto ogni aspetto».
Quando lei pensa a una squadra giovane, la misura solo col talento o cerca anche altri valori?
«Mi piace pensare a ragazzi che abbiano voglia di diventare uomini veri, oltre che bravi calciatori. Ci credo molto. Mi ha fatto una bellissima impressione, per dire, la scelta di Krhin e della sua famiglia. Il padre, che è anche il suo agente, mi ha detto che prenderà casa a Bologna e verrà a vivere col ragazzo. Scelte che pagano, alla lunga».
Aveva promesso un Bologna giovane e affamato. E ha già abbassato l’età media della squadra di oltre quattro anni.
«Vero. E in queste ore sono arrivati Garics e Gavilan. Potremo migliorare ancora, da questo punto di vista, con l’arrivo di Gaston Ramirez. Abbiamo cercato di fare una metamorfosi indolore, ma concreta. Non smetterò mai di ringraziare chi mi ha preceduto, lasciandomi un Bologna da Serie A e permettendomi di avere anche meno dubbi sul fatto di sposare o meno quest’avventura. Ma è chiaro che bisognava cambiare, era finito un ciclo».
Ha parlato di Ramirez come di un giocatore che ormai veste rossoblù.
«Siamo veramente a buon punto. Poi, sa bene come è il calcio. Quando hai chiuso un’operazione al 99 per cento, ti resta quell’uno con cui fare i conti. E non puoi avere la certezza assoluta».
Già che ci siamo: Diego Perez resterà un sogno?
«A volte mi sembra che l’affare sia ormai fatto, a volte torna davvero a sembrare una chimera. Io spero si realizzi. Diciamo così: persone serie, affidabilissime, mi hanno detto che verrà sicuramente».
Un gruppo giovane è garanzia per il futuro, nella sua visione delle cose.
«Stiamo cambiando tanto adesso per avere una base solida per diversi anni. Fa parte di quel progetto pluriennale su cui ho basato tutto il mio approccio a questa società. Certo, ci vuole coraggio. Guardi l’esempio dell’Arsenal: hanno scommesso su gente come Eduardo, Fabregas, e hanno avuto ragione. Noi abbiamo preso Gavilan, il più forte attaccante giovane spagnolo. E Paponi, uno che ha fatto la trafila delle Nazionali giovanili. Lo conoscevo da tempo, ci credo molto. Come credo in Meggiorini. È così che si costruisce il futuro, secondo me».
Con uno sforzo notevole anche dal punto di vista economico. Dieci milioni, si diceva, ma alla fine saranno parecchi di più.
«Non ho messo un tetto di spesa. Ma credo che i tifosi del Bologna si siano resi conto che stiamo facendo sforzi enormi, e senza aver ceduto nessuno».
Stasera c’è la prima sfida significativa, in prospettiva campionato. Sarà a Ravenna per Bologna-Napoli?
«Eccome. Presente, ci mancherebbe. E posso dire una cosa sul Napoli?»
La ascoltiamo.
«Ecco, De Laurentiis ha scelto una strada giusta. Ha iniziato prendendo Hamsick dal Brescia, portando talenti come Lavezzi e Santacroce. Una politica coraggiosa, appunto. Sto cercando di fare qualcosa del genere, a Bologna. I talenti ci sono. Krhin, Ekdal, Meggiorini, Esposito, Morleo. Garics è nazionale austriaco, a 26 anni. Credo che da questi uomini possa uscire un gruppo solido, che nelle prossime stagioni dovrà subire variazioni minime».
Il campionato inizia in salita. Preoccupato?
«Meglio curarlo subito, il mal di denti. Poi, preferisco chiudere in casa col Bari, una squadra che sta nella nostra fascia, piuttosto che con un’Inter magari ancora in corsa per lo scudetto».
Una squadra giovane puntellata da qualche uomo d’esperienza. Basta per stare tranquilli da subito?
«Continuo a dire che il nostro obiettivo è una salvezza serena. Poi, il campo può sempre sorprenderti, e dovremo stare attenti. L’esempio della Lazio della passata stagione deve farci tenere gli occhi aperti, sempre».
Lei parla poco, amministra con raziocinio. Eppure ha preso in mano una squadra di Serie A in un paio di mesi. Una botta di follìa?
«L’unica, fin qui. E non me ne pento. Per il resto è così, mi piace lavorare sottotraccia. Lo faccio da una vita, con impegno. Ho avuto anche fortuna, certo. So che il calcio è un mondo a sè, ma credo che anche qui il lavoro e la serietà alla fine possano pagare. Cercherò di dimostrarlo».

m.tarozzi@linformazione.com

L'Informazione di Bologna, 8 agosto 2010

lunedì 2 agosto 2010

Il ragazzo che insegue l'Europa



di Marco Tarozzi

Marco Orsi, gli Europei di Budapest sono alle porte. Si avvertono già, nella testa?
«Eccome. Sono ancora in collegiale a Roma, perché la mia prima gara sarà il 9 agosto. Ma ci sono già immerso fino al collo. E l’emozione cresce».
La condizione anche?
«Sì, direi che siamo a buon punto. Dagli Italiani giovanili di Roma ho avuto buone risposte. Ho nuotato i 100 stile in 49.54, pensavo di stare poco sotto i cinquanta secondi».
Ha fatto di più, quel giorno: Pippo Magnini, che ha vinto il titolo tra i “grandi”, ha nuotato più lento di lei: 49.77.
«Lo so. È una soddisfazione scoprirsi all’altezza di un campione come lui, almeno in un’occasione».
Le cito un titolo del Messaggero del 27 luglio, uscito pochi giorni dopo i tricolori: “Orsi è il vero erede di Magnini”.
«Bello. Lo ritaglio e lo metto nell’album dei ricordi migliori. Confesso che mi piace l’idea di essere considerato così importante per il nuoto azzurro. Ma allo stesso tempo conosco la realtà. State tranquilli, Filippo non ha affatto abdicato, ci vorrà ancora tempo prima che eventualmente si realizzi il passaggio di consegne. E dico di più: sta lavorando per agguantare un podio nei 100, e lo vedo molto bene, in gran forma».
Nel frattempo, con lui ormai si allena quasi quotidianamente.
«Roma è diventata la mia seconda casa. Un po’ per via dei collegiali, un po’ perché sono tesserato per le Fiamme Oro. È stato bello entrare nel gruppo, trovarsi a tu per tu con questi campioni. Sinceramente, io non pensavo che sarei arrivato a questi livelli. Sono cresciuto con gradualità, senza colpi ad effetto. Però sono qui, e ci sto bene».
Come è stato trovarsi accanto a “quelli dell’Acquacetosa”?
«Bello, grazie a loro. Mi hanno aiutato, mi sono sentito subito accettato. È tutta gente che non se la tira, le loro medaglie e il loro essere campioni non te li sbattono in faccia. Sono amici, ci si diverte insieme fuori dall’acqua».
A proposito di stelle: un giorno dello scorso dicembre lei ne ha oscurata un’altra, e bella grande.
«Già, ho battuto Phelps. È stato a Manchester, a “Duel in the Pool”, una kermesse che metteva di fronte una rappresentativa americana e una europea. Bel ricordo, ma diciamola tutta: l’ho affrontato in una gara che non era la sua...»
Sensazioni?
«Lì per lì, nessuna in particolare. Ci ho pensato dopo, a freddo. Non avrei mai creduto di lasciarmelo alle spalle. Comunque vada, un giorno potrò dire: io una volta ho battuto Phelps...»
Che obiettivi si è dato per questi Europei?
«Cercherò di infilarmi in finale, possibilmente sia nei 50 che nei 100 stile. Nei 50 sono settimo nelle liste europee stagionali, staremo a vedere. Poi, mi piacerebbe contribuire a una medaglia dell’Italia nella 4x100. Sulla carta è fattibile: abbiamo davanti Francia e Russia, ma i margini di miglioramento ci sono. Ce la giocheremo con loro, stando attenti che nessuno ci attacchi alle spalle».
Favoriti delle gare individuali?
«I soliti francesi. Dico Bernard, Bousquet, e questo gigante diciottenne, Yannick Agnel. L’avete visto: è alto due metri, fa paura...».
Ha risolto la questione delle distanze? Diceva che non si può restare a vita specialisti dei 50...
«Infatti ho lavorato molto sulla doppia distanza, e la velocità è migliorata. Mi sento più versatile. Del resto, non potevo avere problemi ad allungare, con un tecnico come Fabio Cuzzani».
Perché sa come prenderla?
«Prima di tutto perché davvero un grande allenatore, e voglio che sappia che anche se qualche volta discutiamo un po’ non potevo trovarne uno migliore. Poi perché lui allena anche Martina Grimaldi sulle distanze lunghe. Se sa come far entrare nella testa l’idea di fare 25 chilometri, figurarsi quanto ci mette a inculcare il concetto di percorrere cento metri. Lui sì, che è davvero versatile».
Già, la Grimaldi. Si vedrebbe mai a nuotare per chilometri e chilometri?
«Per carità, è roba sua... Però è stata brava, eh? La migliore di tutti. E ha portato a casa un titolo mondiale. Spero che non sia appagata, che faccia il bis a questi Europei».
Il presidente Uisp, Casadio, dice che la cosa più bella nei successi di Orsi, Grimaldi e Sgarzi è il percorso che hanno fatto. Atleti-persone, prima che atleti-macchine. È d’accordo?
«È così. Ho iniziato nella piscina di Budrio, la mia città. Per imparare a nuotare. Nessuno mi ha messo pressioni, per arrivare a questi livelli. Mi sono sempre sentito in famiglia».

MARCO ORSI è nato a Budrio l’11 dicembre 1990. Cresciuto al Circolo Nuoto Uisp, oggi ha il doppio tesseramento (oltre che con la società bolognese, con il team militare delle Fiamme Oro). È allenato da Fabio Cuzzani, che è anche il tecnico di Martina Grimaldi.detiene i primati dei 50 stile in vasca lunga (21.82) e corta (20.93, e ha vinto i titoli italiani assoluti nei 50 stile ai Primaverili 2009 e Invernali 2009, nell’ultimo caso doppiando anche col titolo dei 100 stile. Si è messo in luce col 4° posto nella 4x100 agli EuroJunior del 2007. Nel 2008 ha vinto il Mondiale Junior nella 4x100. Argento nella 4x100 e bronzo nei 100 agli Eurojunior 2008, bronzo agli Europei in vasca corta nella 4x50 un anno fa. Sempre nel 2009 ha conquistato il quinto posto nella 4x100 ai Mondiali (nuotando la sua frazione in 47.91). I suoi personali: 21.82 nei 50 metri, 48.78 nei 100.