domenica 23 ottobre 2011

VITA E MORTE VELOCE DI UN CAMPIONE


di Marco Tarozzi

Quanto stride, oggi, quella filosofia che vuole gli eroi eternamente giovani e belli, fissati come leggende in quella “voglia di essere” che li ha accompagnati tutta la vita per abbandonarli all’improvviso, al primo vero schiaffo del destino. Quanto ci sembrava retorica, tra i banchi del liceo, la teoria della “morte felice dell’atleta” di Erodoto. Balle. Eravamo giovani, avevamo sete di vivere e la morte era un’idea lontana, indistinta, nemmeno immaginabile.
Supersic aveva ventiquattro anni. Era un talento e aveva la vita davanti a sé. Di più: aveva addosso quella “sete di vivere” che oggi, nella tragedia, lo accomuna ad altri campioni rimasti giovani in eterno nella nostra memoria. Come loro, Marco Simoncelli aveva un talento infinito e avrebbe voluto urlarlo al mondo. Certo, era già stato campione ragazzino, salito sul trono iridato in una classe difficile e affollata come la 250. Ma il mondo della MotoGp è un’altra cosa. Lui sapeva di poterci vivere alla grande, ma ancora non era riuscito a dimostrarlo pienamente. Anzi, la sua frenesia, il suo modo di concepire le corse “all’antica”, tutta fisicità, duelli e contatti, e non come un passatempo anestetizzato dalle regole e dalle penalità, gli avevano procurato non poche critiche, anche recentemente. E non tutte erano scivolate via: subdolamente strisciavano ancora tra i sussurri ad ogni problema, ad ogni incertezza.
Ma Supersic tirava dritto per la sua strada. Convinto dei propri mezzi, generoso, guascone, intelligentemente e genialmente “ignorante”, come quando coniò la splendida immagine su “velocità e ignoranza: bisogna prendere la bandiera a schiaffi”. Già, altro che a scacchi.
Quel soprannome, poi. Supersic. Qualcosa che fa pensare ai supereroi dei fumetti, quelli che si alzano in volo, sbattono, cadono e si rialzano come se fosse un film. Qualcosa che ti fa immaginare che non ci sia fine, per uno così, mai e poi mai. E invece non c’erano superpoteri. Solo passione, e il vento del destino che soffia contro. Quanti ne abbiamo visti, di talenti cristallini finiti così. Angelo Bergamonti, nel ricordo personale, fu il primo. A Riccione, in un pomeriggio di pioggia maledetto, di quelli che ti tornano alla memoria con quelle due semplici parole, “io c’ero”. C’ero, tenendo la mano di mio padre, e non avrei voluto esserci. Giorni che ti segnano, anche se allora, anno 1971, della tragedia arrivavano le voci, le frasi lasciate a mezz’aria, non il bombardamento di immagini che ha accompagnato questa morte in diretta, che ogni volta pugnala il cuore e lo fa sanguinare. Otello Buscherini, forlivese caduto mentre inseguiva il suo sogno mondiale, un sogno possibile. Jarno Saarinen e Renzo Pasolini, a Monza nel ’73: uno sembrava il campione fortunato, l’altro quello con la sorte contro, e invece entrambi avevano semplicemente una passione che li bruciava e la voglia di mettere le mani nel motore come oggi non si fa più. Quando morì Bergamonti, quando morirono Saarinen e Pasolini, si disse “mai più”. Si disse che il motociclismo non sarebbe stato più lo stesso, e fu così. Il motociclismo di oggi è un’altra storia, probabilmente. A colori, e non in bianco e nero. Ma Marco Simoncelli assomigliava tanto a loro. Al Berga, al Paso, a Jarno, a quelli lì, quelli che hanno un’idea eroica dello sport. E, maledizione, la pagano restando eternamente giovani nel ricordo.

L'Informazione di Bologna, 24 ottobre 2011

lunedì 17 ottobre 2011

LA FIRMA DI GASTON PER SVOLTARE


di Marco Tarozzi

Il fatto più clamoroso è che se qualcuno andrà a rivedersi i gol di questo pomeriggio domenicale dovrà accontentarsi di quelli del Bologna. Proprio così: la squadra che fino a ieri ne aveva segnati due in cinque partite, in questa giornata fuori del normale è stata l’unica a trovare la via del gol, e a vivacizzare una colonna di mortificanti “zeroazero”. Un segno, probabilmente: niente di meglio che ripartire in una giornata in cui tutti se ne dovranno accorgere, in un modo o nell’altro.
Due gol a Novara in quella che potrebbe essere ricordata, più avanti, come la partita della svolta. Quella che ha sbloccato un gruppo che si stava accartocciando nei suoi pensieri negativi, e che in fondo ha continuato a pensar male fino a quando Ramirez ha illuminato il cielo di Novara con quel colpo preciso, della serie “tiro e non ci penso su”, roba che riesce ai talenti e non riuscirebbe cento volte a noi comuni mortali. Lì, fateci caso, il Bologna ha iniziato a metterci anche il carattere, la personalità. E dopo il raddoppio di Acquafresca ha addirittura fatto la voce grossa, rischiando di dilagare contro un Novara che, va detto, era sulle ginocchia e aveva smarrito la via anche per malasorte, inesperienza e nervosismo. Tant’é: la squadra di Tesser è una di quelle su cui il Bologna deve tarare la sua corsa, quelle contro cui perdere colpi sarebbe reato. E stavolta il Bologna non ha sbagliato.
Gaston Ramirez “hombre del partido”, altro da aggiungere? Della necessità di avere il Nino dalla propria parte abbiamo detto tutti. E averlo significa anche farlo partecipe di un progetto, per piccino che esso sia: questo si chiama “salvezza”, non sarà sfavillante ma può servire anche a lui. Giocare, brillare, farsi vedere: se vuoi spiccare il grande salto, devi partire dalle basi. Il recupero, soprattutto mentale, tocca a Pioli: l’inizio è incoraggiante. Ben più della sorte nera di Marco Di Vaio, stoico nell’inseguire gol che una volta erano banalità. Solita storia: più resti a secco e più ti fai domande, è il dannato mestiere del bomber. E hai un bel dire che l’importante è aver preso questi tre punti. Uno come Di Vaio ha dormito male, stanotte. E quelli che non dimenticano sperano sempre che il vento cambi.

L'Informazione di Bologna, 17 ottobre 2011

(foto di Roberto Villani)

domenica 9 ottobre 2011

IL GIRO DELL'EMILIA HA UN RE RAGAZZINO


di Marco Tarozzi

Il bello del Giro dell’Emilia è che sa sempre regalarti una storia importante. Può essere quella di un campione affermato, e sono tanti quelli che hanno lasciato il segno su questa grande classica in più di cent’anni di storia e novantaquattro edizioni. Oppure può proporti un nome nuovo di zecca, ma certamente non banale. Tutto da studiare, da memorizzare, perché una cosa è certa: se un corridore poco conosciuto ai più vince su queste strade, farà di sicuro parlare di sè.
Così sarà per Carlos Alberto Betancur, il talento di Colombia che si è fatto un sontuoso regalo per il ventiduesimo compleanno. Lo festeggerà tra cinque giorni, aggiungendo alla lista della felicità questa vittoria sul colle della Guardia, davanti al santuario di San Luca, luogo-simbolo per i bolognesi e da oggi anche per lui, ragazzo di Ciudad Bolivar abituato a ben altre altitudini, essendo nato e cresciuto a quota 1800 sopra il livello del mare.
Intendiamoci: per gli addetti ai lavori (e per chi conosce bene l’argomento ciclismo) Betancur è tutt’altro che uno sconosciuto. Vicecampione del mondo al Mondiale di Mendrisio 2009, un anno fa sempre da dilettante ha messo in carniere il Giro Bio, e quest’anno si è piazzato al quarto posto nella tappa del Sestriere del Giro d’Italia vinta dopo una fuga epica dal bielorusso Vasili Kiryienka. Ma qui, sulle rampe di San Luca, ci si aspettava il guizzo di un solito noto. Ivan Basso, soprattutto, che due settimane fa era addirittura venuto a ripassare il percorso, per tentare il bis della vittoria del 2004. O Juan Josè Cobo, trionfatore della Vuelta. O ancora Scarponi, Nibali, Rodriguez, il vecchio Rebellin. Tutti fuori dai giochi: Cobo si è fermato dopo la prima delle cinque salite al colle, Basso al terzo passaggio del circuito finale già mostrava la corda. L’unico a tentare qualcosa è stato Davide Rebellin, quarto e primo degli italiani sul traguardo, ma si è mosso troppo tardi.
A vivacizzare la corsa ci aveva pensato un gruppo di cinque uomini, in fuga dal chilometro 18 fino al primo passaggio a San Luca. Più di 140 chilometri da soli, con un vantaggio massimo di 8’26 prima del cinquantesimo. Dentro c’era anche Davide Ricci Bitti da Villafontana di Medicina, cresciuto a pane e ciclismo, da ragazzo, proprio nella società del paese natale, oltre che nella Dalfiume di Ozzano. Gli altri: Denifl, Laganà, Solari, Zdanov. L’austriaco Denifl è stato l’ultimo a mollare, a meno di trenta chilometri dalla fine, dopo il primo giro del circuito finale. Lì ci ha provato un altro giovane, Gianluca Brambilla della Colnago, anni ventiquattro, una vittoria da professionista nel 2010. La Liquigas, fin lì attivissima per preparare la strada a Basso, a un certo punto ha smesso di spingere, togliendo riferimenti agli altri protagonisti annunciati. E Betancur ne ha approfittato, come un veterano delle corse: prima ha riagganciato Brambilla insieme a Kiserlovsky e Zaugg, poi è rimasto a giocarsela con lo svizzero negli ulitmi chilometri. Sull’ultima salita è andato via tutto solo verso la sua prima, grande vittoria da professionista. Ha resistito ai tentativi di ritorno del gruppo, ormai sfilacciato, e forse sulle strade del Giro dell’Emilia ha iniziato a scrivere la sua favola.

DA CIUDAD BOLIVAR PER DIVENTARE CAMPIONE

di Andrea Bartoli

Ha una di quelle facce che sprigionano simpatia, il colombiano Carlos Alberto Betancur. A dirla tutta non pare neppure abbia da poco conquistato, dominandola, una delle classiche del ciclismo professionistico più antiche, quel Giro dell’Emilia arrivato quest’anno alla sua 94a edizione. Cosi apparentemente rilassato da dire: «Una corsa abbastanza dura, ma non troppo».
Ma non é sfrontatezza, la sua, quella che potrebbe avere un quasi ventiduenne (li compirà il 13 ottobre), ma consapevolezza dei propri mezzi: «È da un mese che mi sento molto bene ed all’inizio di settembre, assieme al mio team Acqua & Sapone, si é deciso di puntare sul sottoscritto per il finale di stagione, Giro di Lombardia compreso». E sulle durissime rampe che portano a San Luca, i frutti di quella scelta si sono visti tutti: «Quando a undici chilometri dall’arrivo é scattato lo svizzero Zaugg della Leopard, l’ho seguito senza indugi. Ho capito che poteva essere l’azione giusta e soprattutto le gambe rispondevano. Poi, lui ha iniziato l’ultima ascesa molto forte, ho aspettato che calasse un po’ il ritmo e quando, affiancandolo, ho colto dal suo sguardo la stanchezza, ho attaccato deciso».
Bel tipo Betancur, alla prima vittoria da professionista ha messo in cascina una delle corse più belle del calendario italiano. Non una meteora, si capisce, perchè nel 2010, da dilettante, ha vinto il Giro d’Italia Bio e il Giro di Colombia Under 23, dopo l’argento nel mondiale 2009 a Mendrisio. Un ragazzo molto attaccato alla famiglia, con papà Ignacio contadino nelle piantagioni di caffè, mamma Piedad casalinga ed i fratelli Andres, Paola, Cristina e Javier. Devoto, pure, tanto da sfoggiare sotto la maglietta un crocefisso e ringraziare più volte il Signore sotto la fettuccia d’arrivo. Un salto dai 1800 metri di Ciudad Bolivar fino a Santa Maria Monte, nel pisano, coccolato dal suo direttore sportivo sia di club sia nella Nazionale colombiana Franco Gini. Un amore, quello per la bicicletta, sbocciato a quattordici anni quando una professoressa della scuola, a furia di vederlo arrivare in sella alla due ruote, lo portò direttamente preso il team più forte della città. E adesso il colombiano dell’Acqua & Sapone pensa a chiudere bene il 2011, magari con un bel colpo al Lombardia, e guarda già con interesse il Giro d’Italia 2012: «Quest’anno ho preso le misure alla corsa rosa con il quarto posto nella tappa del Sestriere, ma per la prossima stagione mi piacerebbe curare una buona classifica». Sempre con il sorriso sulle labbra e con una simpatia innata: se al Giro dell’Emilia è nata una stella è presto per dirlo, ma Carlos Alberto Betancourt sulle rampe di San Luca ha recitato da grande campione.

L'Informazione di Bologna, 9 ottobre 2011