domenica 24 febbraio 2013

MARCO MASETTI: DA BOLOGNA A LONDRA PER "COSTRUIRE" L'ARGENTO DI TESCONI


Il Ct azzurro della Pistola: “Luca è un purosangue, non puoi frenarlo”

di Marco Tarozzi

Il Reno lo sfiora e lo sente nell’aria. Marco Masetti, Ct della Nazionale italiana di Pistola, abita a poco più di due chilometri dal nostro fiume, a Zola Predosa. Ma lo risale spesso quando punta verso Vergato, dove è attivo uno degli impianti di tiro a segno più importanti della regione, e non solo.
E’ stato un ottimo tiratore, capace di vincere cinque titoli italiani assoluti in carriera. E poi è passato dall’altra parte. A coltivare talenti, a instradarli, aiutandoli a non smarrirsi. Una decina di giorni fa ha risalito il grande fiume fermandosi a Sasso, per una serata di festa al Panathlon Valle del Reno, insieme a uno dei suoi campioni, quel Luca Tesconi, cuore e animo toscano, che ha regalato all’Italia la prima gioia olimpica a Londra, vincendo il giorno dopo l’apertura dei giochi la medaglia d’argento nella Pistola ad aria compressa 10 metri.
Ci credevano in pochi al ragazzo di Pietrasanta, alla vigilia della gara olimpica. Perché quando c’era da parlare del suo indubbio talento, saltava sempre fuori la faccenda degli alti e bassi, una costante della sua carriera fin lì. Ci credeva, però, Marco Masetti. Che sapeva cosa attendersi da uno come Luca.


“E’ sempre così. Quando parlo di lui so qual è il suo valore. Ha una grande forza: sa farsi scivolare le cose intorno. Mi hanno chiesto cosa c’è di mio nel suo argento olimpico e ho solo una risposta: poco. Siamo due caratteri diversi, lui è estroverso, ma ha una classe unica. Quando lo fai partire, non puoi più frenarlo. Devi lasciarlo correre, come si fa con i purosangue. Quando ne hai chiaro il talento, devi riuscire a sfruttarlo al meglio. Ecco, se ho un merito credo sia soprattutto questo: aver capito come approcciarsi a Luca”.

Ci sono stati momenti della preparazione in cui Masetti, con la sua esperienza, aveva già intuito l’epilogo della gara di Londra.

“Alle Olimpiadi, in qualificazione Luca ha fatto 584 punti. In  quel momento era quinto in classifica. Bene, io spesso in allenamento faccio tirare i miei atleti in condizioni di equilibrio precario. Con appoggi approssimativi, magari scalzi. E in quelle condizioni lui era l’unico ad arrivare a 580… Certo, lui ha sempre bisogno di cose diverse. Esercizi mai monotoni, che lo divertano. E’ un campione così: se non si diverte, non rende. Ma per dire quanto vale, basti pensare che con le nuove regole, ufficializzate dopo Londra, avrebbe vinto la medaglia d’oro. Perché ora nella fase finale si azzerano i punteggi delle qualificazioni, e alle Olimpiadi nella fase finale lui è stato il migliore risalendo dalla quinta alla seconda posizione”.

Tesconi non è solo, ovviamente. C’è una squadra da far crescere, dentro una realtà in cui Masetti si muove da tempo, e che dunque conosce meglio di chiunque altro.

“Mi sento libero di fare il mio lavoro. Come in ogni disciplina, c’è una classe dirigente sportiva che dà ovviamente direttive, ma scelta la linea politica, se nascono problemi ce li risolviamo tra noi all’interno del nostro gruppo. L’etica sappiamo rispettarla, anche quando i punti di vista divergono, come può capitare. Il gruppo, poi, è costruito bene. Il nostro preparatore atletico, Finardi, ha le idee chiare: è uno di quelli che pensano che se l’allenamento non ti crea qualche difficoltà, non è allenamento… lavora su tutto ciò che può aiutare a dare “disequilibrio”, per rafforzare il senso di equilibrio nel momento della gara. Per questa disciplina è una chiave di lettura importante. Stiamo facendo anche un ottimo lavoro con Claudio Robazza, lo psicologo che ci segue. Insomma, al di là della medaglia, credo si stia camminando sulla strada giusta”.

Una medaglia come quella di Tesconi aiuta a fare proseliti. E questa è uno degli argomenti più importanti e delicati, per Marco Masetti.

“Dobbiamo sfruttare l’effetto Olimpiadi per dare un po’ di impulso alla nostra disciplina. Perché l’interesse intorno al nostro movimento si accende in quei periodi. Appena prima, durante, subito dopo le gare olimpiche. Dobbiamo cercare di non ricadere nell’oblìo. Io sto cercando di portare avanti un progetto di ricerca del talento. Stiamo cercando di lavorare con le scuole. Ma il tiro a segno è una disciplina particolare. Oltre che uno sport, la Federazione assolve a un ruolo di Ente pubblico, è il luogo istituzionale nel quale ci si può addestrare all’uso delle armi. E diventa faticoso interfacciarsi con gli istituti scolastici. I ragazzi hanno genitori, che leggono i giornali e la tv, e certe notizie li mettono ovviamente in allarme. E’ complicato far capire che noi usiamo armi a basso profilo offensivo, lo è ancora di più entrare nelle scuole”.

In questo senso, spiega Masetti, a Vergato stanno facendo un lavoro encomiabile.

“A Bologna e Vergato abbiamo un paio di impianti che sono tra i migliori d’Italia. Quassù i responsabili dell’impianto sono stati bravi a trovare una sintonia con l’amministrazione e a far capire che il tiro a segno non è uno sport da mettere al bando, ma può insegnare molto ai giovani. Disciplina, equilibrio padronanza di sé. Sì, a Vergato stanno facendo un buon lavoro. Spero possano goderne i frutti come meritano”.

www.renonews.it, 22 febbraio 2013

Nelle foto: in apertura , la gioia di Luca Tesconi e Marco Masetti appena il toscano ha conquistato l’argento olimpico di Londra. Sotto, Masetti con Jessica Rossi




venerdì 15 febbraio 2013

ROTOLO, ORA ANCHE LA SFIDA CONTRO IL TEMPO




di Marco Tarozzi

Per dare un’idea piuttosto precisa della crisi della nobile arte del pugilato di cui spesso si discute, basterebbe un numero. Ventiquattro. Sono i giorni cheSimone Rotolo avrà a disposizione per preparare la sua sfida a Darren Barker, in palio il titolo intercontinentale IBF dei pesi medi.

Il talento bolognese, campione italiano di categoria dopo aver strappato il titolo a Matteo “Giaguaro” Signani e averlo difeso al PalaDozza contro il sardo Lorenzo Cosseddu, ha avuto notizia ufficiale della data soltanto ieri, mercoledì 13 febbraio. Dovrà salire sul ring dell’Alexandra Palace di Londra il 9 marzo. E in mezzo, appunto, ventiquattro giorni per mettere insieme una preparazione dignitosa.

Intendiamoci, Rotolo non è certo il tipo che fa tra un match e l’altro si mette in poltrona. Lui in palestra ci va tutti i giorni, sempre e comunque. E va detto che questa sfida la aspettava, dopo che era stato l’inglese a rimandare l’appuntamento di settembre per un infortunio. Ma da questo annuncio tardivo possiamo trarre conclusioni precise. La prima è che, in qualche modo, l’idea di combattere contro Rotolo non fa dormire sonni tranquilli a Barker. Mettere l’avversario in difficoltà, lasciandogli pochissimo tempo per preparare l’incontro, appare come una mossa strategica, dopo il rinvio autunnale. Ma ci domandiamo anche perché a Simone Rotolo, uno dei talenti più cristallini che il pugilato italiano abbia prodotto negli ultimi vent’anni, non sia mai stata data un’occasione decente in carriera. Quello che ha avuto, ed è comunque tanto, Simone se l’è dovuto conquistare con mille sacrifici, rubando tempo al lavoro, guadagnando niente in proporzione al valore messo in campo, combattendo di rabbia e di passione. E ci chiediamo dove sarebbe potuto arrivare questo ragazzo se avesse potuto boxare davvero da professionista, cioè concedendosi i tempi giusti, avendo a disposizione mezzi tecnici ed economici che nessuno gli ha mai offerto.

Rotolo è un fiore sbocciato nel deserto. Negli anni ha pagato organizzazioni confuse, incontri messi in cartellone all’ultimo momento, non sempre all’altezza delle sue possibilità. Ma si è sempre messo al centro del ring con pazienza, mostrando a tutti la sua classe e una tecnica che appartiene a pochi.

Con un bagaglio di 35 successi su 38 incontri da professionista, da campione italiano dei medi, va a Londra a sfidare questo Darren Barker che è stato campione del Commonwealth e d’Europa di categoria, che nel 2011 ha perso il treno del titolo WBC finendo sconfitto per ko dall’argentino Martinez. Dopo quel match, l’inglese che ha sette anni meno di Rotolo si era fermato. Doveva giocarsi il titolo intercontinentale IBF con Simone, ma ha marcato visita e se lo è preso tre mesi dopo contro il gallese Kerry Hope. Ora offre finalmente la chance al nostro campione. In ritardo, tutt’altro che elegante. Rotolo manda giù un altro boccone amaro, ma si mette ancora una volta in gioco. E certamente non regalerà all’inglese una serata tranquilla, comunque vadano le cose.

(PlayBologna, 15 febbraio 2013)

venerdì 1 febbraio 2013

SCAPINI, ALL'INFERNO E RITORNO



Mario Scapini, il grande buio e la rinascita: "Ogni passo avanti mi emoziona"
"Vado in palestra e mi stanco dopo venti minuti. Ma anche questa è una conquista"
 
di Marco Tarozzi

Hai ventitrè anni e sei nel pieno delle forze. Un talento. Quello che l’atletica italiana sta aspettando, perché tutti sanno che il futuro è dalla tua parte. Ci sarebbe da piegarsi sotto la pressione, ma tu no. Sei forte, sei determinato. Hai deciso i tuoi obiettivi e la strada per arrivarci. Non conosci ostacoli. E poi questa è la stagione olimpica, quella che sognavi, e l’hai iniziata nel migliore dei modi. Golden Gala, 31 maggio, 800 metri: subito il personale e il minimo per gli Europei. Solo l’inizio, pensi con un sorriso. Solo l’inizio.

Invece la vita è questa: capace di dare e togliere in un attimo. Senza fermate intermedie. Dalla luce al buio, di colpo. Parte la spedizione azzurra per gli Europei, ma tu non ci sei. Gli altri si guardano intorno, si fanno domande. Mario dov’è? A casa. Ha gettato la spugna il giorno prima di decollare per Helsinki. Quel maledetto mal di schiena. Così forte da non poterne più. Ma passerà, deve passare. Ci sono le Olimpiadi. Invece no, non passa. Invece aumenta. E ti senti sempre più debole.

SLIDING DOORS

Mario Scapini è nel salotto di casa, la finestra affaccia sul cortile di un bel palazzo signorile della Milano che ancora sopravvive ai cambiamenti. Oltre il vetro, una cartolina d’autunno. Pioggia leggera su sfondo grigio. Si sta bene qui, c’è un senso di calore e le parole escono senza fatica. Insieme a questa storia non voluta di caduta e rinascita. E’ strano e quasi terapeutico poter parlare di questi mesi terribili, ora che sono alle spalle.

Il “muro”, improvviso e inatteso, ha una definizione tecnicamente fredda: linfoma anaplastico a grandi cellule. La terapia è stata dura: dodici sedute di chemioterapia. La risposta è stata quella di un ragazzone di poco più di vent’anni. Ha ripreso quasi tutti i chili che aveva perso, Mario. Va in palestra, “e l’altro giorno ho fatto il mio primo giro in bicicletta, un’ora in tutto. Un’emozione”. Piccole, grandi conquiste. La paura è alle spalle, gliel’hanno detto anche i medici. C’è da ripensare al futuro, con la stessa grinta ma con molta consapevolezza in più. Mario racconta, racconta. Di quei dolori, delle cure, di chi gli è stato accanto, dell’atletica da ritrovare. Sorride, si commuove, si guarda dentro. Si sente nuovo.

“Questo era l’anno di Londra. Era il mio pensiero fisso. Fa effetto riflettere sul fatto che che lo è stato fino a pochi mesi fa, a come una prospettiva possa cambiare di colpo. La stagione era iniziata nel migliore dei modi, lo stage in Marocco era filato via liscio e al Golden Gala, primo grande appuntamento di stagione, ho corso in 1:46:95 gli 800 metri. Record personale e minimo per gli Europei. Mi sono detto: chissà che non sia l’anno buono. Nelle stagioni precedenti sono sempre stato frenato da qualche acciacco e ogni volta che ero costretto a fermarmi l’umore cambiava, vedevo nero. I miei genitori insistevano a dirmi che dovevo prenderla con più filosofia, ma io non li stavo troppo a sentire. Ora ho capito che avevano ragione…”

Dopo un debutto così, Mario si era messo in testa di chiudere in fretta anche la pratica-Olimpiadi. Bisognava sfruttare la condizione. Guadagnarsi in fretta il pass per Londra, per poi organizzare con tranquillità le tappe di avvicinamento.

“Passa una settimana dal Golden Gala e sono al meeting di Trento. La gara di Roma mi ha caricato, voglio provare subito a correre intorno a 1:45, per non lasciare dubbi a nessuno. Ma in albergo sento per la prima volta uno strano dolore all’addome. Temo un’appendicite, mi faccio visitare e la minaccia è scongiurata. Vado alla gara, ma durante il riscaldamento il dolore si ripresenta e insieme a Gianni Ghidini, il mio tecnico, decido di non rischiare. Sette giorni dopo sono in Slovenia, non mi sento bene e corro una gara dimenticabile. Torno a casa ed esplode il male alla schiena. Sempre più lancinante. Un giorno prima degli Europei decido di non partire. Sono a pezzi, fisicamente e moralmente. Mi arrabbio di brutto e penso a tutti i modi possibili per risolvere il problema. Le Olimpiadi sono ancora una priorità”.

LA GRANDE PAURA

Fine giugno. Mario si affida a fisioterapisti, chiropratici, ma il male aumenta. E’ solo a casa, a Milano. Mamma e papà sono al mare con la sorella, per aiutarla a seguire i nipotini.

“Io faccio fatica anche a muovermi in casa. Certe sere non vado nemmeno in cucina a prepararmi da mangiare, spizzico quello che trovo. Mio padre torna a casa, mi vede e in un attimo decide: ora ti fai visitare, poi ce ne andiamo tutti al mare e al diavolo le Olimpiadi. La salute è più importante”.

A metà luglio arriva la febbre, il male ormai è insopportabile. Mario si fa ricoverare. Non mangia, non beve. Non riesce nemmeno a parlare. Al San Raffaele è un esame dietro l’altro, e in due settimane arriva la diagnosi. Un frontale con la vita.

“Dire che per me era un ambiente nuovo è un eufemismo. L’ospedale era un luogo ignoto, fino all’estate scorsa. Sono stato catapultato in una realtà che non conoscevo. E non per fare esami di routine, ma in Oncologia d’urgenza. Ho affrontato la prova: la trafila degli esami si è chiusa con un intervento chirurgico, diagnostico. Una laparoscopia. Era il 2 agosto. Le Olimpiadi erano iniziate da meno di una settimana, il giorno dopo sarebbero iniziate le gare d’atletica. E io dovevo iniziare la chemioterapia”.

Altre priorità, appunto. Il mondo intorno che cambia. Mario esce dall’ospedale dopo due sedute di chemio, il 20 agosto, e continua la cura da casa. Un passo avanti, anche per il morale. Ma è debole, ovviamente. Arriva a pesare 58 chili, tredici meno di quando è in condizione. Affronta un viaggio nuovo e imprevisto. A fine ottobre ne vede finalmente l’approdo.

“Non so quale sia stato il periodo più difficile, in questi mesi. E’ successo tutto così in fretta. Nemmeno sei mesi, dai primi sintomi del male ad oggi. Di primo acchito penso ai giorni passati in ospedale, quelli in cui ho sofferto di più. Mi davano la morfina e anche con quella passavo notti insonni. Non riuscivo a stare nel letto, dovevo restare sollevato e passavo ore a fissare il vuoto come un vegetale. Qualsiasi rumore mi dava fastidio, anche il fruscìo delle pagine sfogliate di un giornale. Ma dopo le prime due sedute di chemio ho subito sentito un miglioramento, e anche tornare a casa mi ha aiutato. Forse però, pensandoci a freddo, le vere difficoltà sono arrivate dopo, perché ero finalmente cosciente. Quando mi hanno diagnosticato il tumore ero in trance, mi lasciavo cadere addosso tutto quanto. E’ dopo che inizi a renderti conto, a capire quando qualcosa non funziona. Diventi ipersensibile. Alla decima seduta di chemio ho iniziato a stare male per una saturazione da farmaci, provando quello che altri meno fortunati di me provano fin dall’inizio. Ma per fortuna da lì in poi è iniziata la rinascita. Il mio fisico è rifiorito. Guarda qui: ho ancora un po’ di effetto-gonfiore, quello che lascia il cortisone assunto a dosi massicce, ma non sono tornato un bel ragazzo?...”

Ride, Mario. Anche quando inizia a raccontare le tappe della riconquista, prove così lontane per intensità da quelle  cui era abituato quando si allenava in pista. Eppure altrettanto decisive e importanti.

“Ascolto il mio fisico e vedo il cambiamento giorno dopo giorno. Vado in palestra, metto il “livello 1” sulla cyclette e genero una potenza di 30 watt, quando un tempo arrivavo a 250. E dopo venti minuti sono stanco. Ma anche questa è una conquista, come quando miglioravo i personali. Io e il mio fisico abbiamo iniziato un percorso insieme. A volte è lui a dirmi “stai calmo”, a volte sono io ad aver paura di esagerare. Ma vedere che risponde è semplicemente stupendo”.

CAMMINARE SUL FILO

Adesso che del male può parlare guardando indietro, Mario Scapini è un giovane uomo più forte dentro. Certi incroci col destino ti cambiano la prospettiva. C’è una vita da vivere, e certamente è un’altra vita.

“Direi che ho avuto un paio di input fondamentali, per affrontare il futuro. Il primo riguarda il mio fisico: ho capito che non è invulnerabile e può fare brutti scherzi. E poi ci sono quei giorni passati in un reparto oncologico del San Raffaele, cercando di realizzare quello che succedeva a me e a chi mi stava intorno: gli altri pazienti, alcuni miei coetanei. Ecco, lì ho capito davvero che noi viviamo nell’incoscienza di quello che ci può accadere, ma intanto camminiamo su un filo. Non so cosa mi ha dato la forza di reagire. Per come sono fatto io, non parlerei nemmeno di reazione. Ho semplicemente pensato a guarire. Quella era diventata la priorità, la mia Olimpiade. Quando all’inizio si era pensato a un’infezione avevo detto “okay, sistemiamola”. Quando mi hanno detto che era un linfoma, non ho pensato diversamente”.

E’ stato forte, Mario. Lo dicono tutti, anche se lui la mette giù con semplicità: “C’ero dentro, dovevo reagire, e mi è anche andata bene perché la situazione ha iniziato subito a migliorare”. Intorno ha avuto gente forte quanto lui. Quelli che gli sono stati più vicini sono gli stessi che non lo avevano mai abbandonato neppure prima.

“I miei genitori, naturalmente. Durante il mio ricovero, mio padre ha dormito là dentro ventisette giorni su ventotto. Oddio, dormito è un eufemismo… passava le notti buttato scomodamente su una poltrona. Mia madre non è stata da meno. E poi ho avuto vicina la mia ragazza, Diletta. E il dottor Tavana che mi è venuto a trovare subito. In quei momenti non parlavo nemmeno, ma sentivo bene la loro presenza. Nel tempo sono venuti a dimostrarmi il loro affetto Gianni Ghidini, il mio tecnico, e Matteo Guidotti, mio amico del cuore e compagno di allenamento. A tutti loro devo qualcosa. Hanno sofferto con me, forse anche più di me perché si sentivano spesso inadeguati, impossibilitati ad aiutarmi. E invece non sanno quanto sono stati importanti”.

Tornato a casa, Mario ha scoperto di avere più amici di quanti immaginasse. Un abbraccio collettivo, una processione di sentimenti che non accenna a fermarsi.

“Mi hanno chiamato tutti. Gli amici del mare, che per la prima volta si sono ritrovati in Sardegna senza di me e quasi si sentivano in colpa… E poi il mondo dell’atletica. Ferrari, il presidente della Pro Patria, gli atleti della società, il mio ex tecnico Giorgio Rondelli. E ancora il presidente Arese e tanti dirigenti della Fidal che neppure conoscevo di persona, gli atleti con cui mi sono battuto in gara o ho condiviso i giorni dei raduni. Tutti, davvero. Qualcuno si scusava, pensando di dire cose banali, invece mi hanno dato forza. Ho scoperto di avere tanti amici, e soprattutto di non avere nemici. Ci può stare: nella vita mi è sempre andato tutto bene, ho avuto genitori unici, amici veri, gente intorno, insegnanti giusti a scuola, Rondelli che mi ha fatto scoprire l’atletica quando pensavo solo al calcio. Mi sono trovato spesso al posto giusto nel momento giusto, come agli Europei Juniores del 2007, con quella vittoria nei 1500 che mi ha portato alla ribalta. Insomma, sono stato molto fortunato. Credevo che tutta questa buona sorte potesse pesare a qualcuno, anche giustamente in fondo. Invece devo dire che tutti, tutti, anche quelli che avrei giustificato se non mi avessero chiamato, mi si sono avvicinati con sincerità, col piacere di farsi sentire. Ci penso e mi dico che forse qualcosa di buono l’ho fatto…”
 
 

QUALCOSA E’ CAMBIATO

Parla di opportunità che gli si sono aperte davanti come strade da seguire. Di ricchezza che non deve andare perduta. Confessa, buttando un occhio su questa giornata uggiosa, di aver avuto una vera, grande paura.

“Quella di non poter tornare a fare quello che facevo nella mia vita precedente. Invece ci arriverò, e intanto ho imparato a leggere in modo diverso anche le piccole cose. Prima volevo tutto: finire la facoltà di Ingegneria nei tempi giusti, essere un vincente nell’atletica. Nella stagione olimpica ho intensificato gli sforzi sul campo d’allenamento: otto ore di Università e poi spesso doppio allenamento. Se vivi così, tutto quello che hai intorno ti sembra dovuto. Oggi vedo che sì, sono su un filo, ma guardo giù e ci sono tante cose che avevo rimosso o dimenticato. Ogni conquista mi emoziona: ho gli occhi lucidi quando pedalo sulla cyclette, che prima mi sembrava la peggior iattura per un atleta. Mi sento felice e farò di tutto per coltivare questa fortuna e non disperderla. Lo so, sembra una frase fatta per fare il figo, ma è la realtà. Dicono ci sia un percorso logico per tutto quello che facciamo. Ora vedo che è così: ho sofferto cinque mesi in cambio di un’esperienza che mi porterò dietro tutta la vita. E’ stato un buon affare”.

RITORNO AL FUTURO

La rinascita è partita dal raduno di San Vincenzo di inizio dicembre, dove la Federazione lo ha voluto per riabbracciarlo. Tocca obiettivi a cui ora si può appena accennare. Impervi e per questo affascinanti. Sono traguardi a cui punterà uno Scapini nuovo di zecca. Diverso dentro.

“La chiamata al raduno è stata una riconquista. Un’emozione immensa. Ma il ritorno vero, da atleta, arriverà quando riuscirò di nuovo a correre con continuità e sicurezza. Le Olimpiadi? Magari non le avrei agguantate, ma mi piace pensare di sì e le considero un traguardo perso. Le ho viste in tv. O meglio, la prima parte me la sono persa, in quei giorni ero poco presente a me stesso. Poi ho iniziato a guardare le dirette dell’atletica. Senza audio, per quella faccenda del fastidio a sentire rumori... Ho provato un po’ di invidia, è vero. Non perché non ero là, ma nei confronti di quei ragazzi che gareggiavano ed erano il ritratto della salute. Sì, lo ammetto: invidiavo il loro stare bene”.

L’atletica azzurra è uscita malconcia dalla trasferta londinese. E schiacciata moralmente dal caso Schwazer.

“Non voglio entrare nel merito di una scelta che certamente ha turbato me come tutto il mondo dell’atletica. Non voglio fare il giudice, Alex ha preso decisioni pesanti, che certamente lo hanno scosso e per le quali ora dovrà pagare. Ma sono rimasto perplesso di fronte a una sua dichiarazione: ha detto che in tutti questi anni ha sofferto, pensando alla preparazione olimpica. L’ha vissuta come una tragedia. Ho pensato che anch’io facevo tragedie per una distorsione alla caviglia e in qualche modo l’ho capito. Però erano proprio i giorni in cui mi avevano appena diagnosticato un tumore, e non ho potuto fare a meno di pensare che se mi dicessero che devo passare quattro anni a cercare di riconfermarmi campione olimpico, beh, sarebbero i quattro anni migliori della mia vita…”

LA FORZA DENTRO

Il bello della vita sono le cose semplici. Guardare avanti è una cosa semplice, ma adesso significa molto di più. Aver provato cosa significa stare in bilico, e poi aver ritrovato l’approdo. La buona terra, su cui riprendere a camminare. E presto a correre, certo.

“Ai primi di novembre ho avuto i risultati finali. I medici mi hanno dato carta bianca, ora sta al mio fisico e a me. Il futuro? Io nella vita faccio tre cose: il fidanzato, lo studente e l’atleta. Lo facevo anche prima, ma ora gli obiettivi sono più chiari, ho dentro una enorme forza interiore che mi aiuterà a raggiungerli e voglio recuperare il tempo perduto. Sono sincero: la prima cosa a cui ho pensato è stata il matrimonio con Diletta. Credo sia il traguardo più importante e quel giorno lo considererò una vittoria. Sto scrivendo la tesi per la laurea in Ingegneria Meccanica, in aprile voglio che arrivi anche quella. L’atletica? Sono realista: mi chiedo se il mio fisico mi permetterà di fare le cose che facevo prima. Poi c’è spazio anche per i sogni, i desideri tipici di un atleta: l’anno prossimo ci sono le Universiadi, un obiettivo un po’ pazzo ma non impossibile. Ci sono altre Olimpiadi a cui pensare: lo facevo già in ospedale, scherzando con medici e infermieri che mi dicevano che in fondo Rio è più bella di Londra… Dall’altra parte c’è una persona che sa bene quello che ha passato e pensa: magari per sei mesi non scendo sotto i cinque minuti a chilometro nei mille, magari non ci scendo mai più. Beh, comunque vada sono sereno: se non dovessi tornare ai miei livelli, sarò contento dell’atletica ad alta quota che ho vissuto, se invece verranno altri anni gloriosi e felici me li godrò più del normale…”

Mario guarda fuori dalla finestra. Milano è sempre più umida e grigia, eppure è bella anche così. E’ meraviglioso respirare questo odore di pioggia, in un autunno di rinascita.
“In quei primi giorni all’ospedale, quando stavo malissimo, mi chiedevo se avrei mai ritrovato la voglia di correre. Mi sembrava che non mi interessasse più nemmeno quello. Meno di una settimana dopo pensavo già a quando mi sarei riallacciato le scarpe. In tre mesi ho attraversato un oceano e sono tornato più ricco. Sto svegliando il cervello, riaprendo il cuore, ricostruendo i muscoli. Ed è bellissimo”.


MARIO SCAPINI è nato a Milano il 2 febbraio 1989. Da ragazzo amava e praticava il calcio, ed è stato Giorgio Rondelli ad intuirne le doti e a convincerlo a dedicarsi a tempo pieno all’atletica. Da allievo ha conquistato i primati nazionali di categoria negli 800 e nei 1500, nel 2006 ha vinto gli 800 alle Gymnasiadi e nel 2007 è salito prepotentemente alla ribalta conquistando il titolo europeo juniores dei 1500 metri ad Hengelo. Sempre da junior ha ottenuto la miglior prestazione italiana nei 600 metri (1:17:70 nel 2008). Nel 2009 è stato campione italiano sia negli 800 che nei 1500, sia nella categoria Under 23 che agli Assoluti. Alla fine di quella stagione è stato uno degli “Eroi del running” designati dalla nostra rivista. Nel 2010 è stato semifinalista negli 800 agli Europei di Barcellona. E’ allenato da Gianni Ghidini. Nei 1500 ha un personale di 3:43:56 ottenuto a Trento nell’agosto 2009, mentre il primato sugli 800 lo ha ritoccato all’ultima edizione del Golden Gala, il 31 maggio 2012, correndo in 1:46:95. Proprio poco prima che la malattia lo fermasse.
 
RUNNER'S WORLD, gennaio 2013