venerdì 12 dicembre 2014

FULTZ, "VARESE LA MIA PRIMA ITALIA, BOLOGNA L'AMORE PER SEMPRE"



Gli anni di Kociss: “Quando Nikolic venne a prendermi in America
E Porelli mi disse: “Esci con me, così so dove sei di sera”

di Marco Tarozzi


La sua prima volta in Italia lo portò dritto a Varese. E fu subito grande basket, per John Fultz, in quella Ignis che aveva appena vinto il campionato italiano, la Coppa Italia e soprattutto la sua prima Coppa dei Campioni. Era l’estate del 1970. Lui usciva da anni felici alla Rhode Island University, dalle tre grandi sfide, veri e propri derby d’oltreoceano, con UMass di Julius Erving, da una preseason giocata con la canotta dei Lakers insieme a Jim Mc Millian e Jim Cleamons, dalle sfide con Calvin Murphy sfociate in una profonda amicizia. Era un’America da leggenda, ma John ne uscì per venire in Italia.

“Da Rhode Island ero uscito come quinto realizzatore all-time della franchigia, con una fama di buon rimbalzista e una media di oltre venti punti a partita, ma all’università avevo giocato soprattutto nel ruolo di centro, nonostante l’altezza, e l’idea che potessi sfondare nella Nba come ala piccola era lontana dalla mente di chi doveva farmi un contratto. Alla fine di quella rassegna estiva mi convocò Fred Shaus, general manager dei Lakers, insieme a coach Mullaney. Mi offrirono un contratto minimo, non garantito. Avrei dovuto essere felice di giocare in una squadra così blasonata, ma la cosa non mi andò giù. In quello stato d’animo, andai a giocare il North South All Star Game di New York, una vetrina per i migliori prospetti usciti dall’università. Quella sera giocai in squadra con Mel Davis, Calvin Murphy, Claude English, segnai 34 punti e fui eletto “mvp” dell’incontro. Dopo la gara, negli spogliatoi trovai ad attendermi un certo Asa Nikolic”.

Che all’epoca era il coach della mitica Ignis Varese, e le propose di trasferirsi in Italia.

“Mentii dicendo che non sapevo che in Italia si giocasse a basket. In realtà sapevo che gente come Bradley e Chubin, che erano stati miei idoli, avevano giocato a Milano. Ed in effetti quella di Milano fu la mia prima pista d’atterraggio. Finii poco lontano. Ma in un ruolo insolito, quello di straniero di coppa. Si trattava di veder giocare i compagni in campionato e farmi trovare pronto per le partite europee. Non semplice, per uno come me. Ma trovai una squadra fortissima. Con Manuel Raga legai subito, eravamo anche compagni di stanza. E poi c’erano Dino Meneghin, che subito iniziò a chiamarmi “Gianni”, “Capitan Uncino” Flaborea, Ossola, Rusconi, Bulgheroni. Fu una bella annata, arrivammo ancora una volta alla finale di Coppa Campioni e la perdemmo contro l’Armata Rossa di Belov. I miei compagni pagarono con la stanchezza la partita che avevano appena disputato con la Simmenthal, un vero e proprio “spareggio” di campionato. Finì 67-53 per loro, ne misi 22 con 11 rimbalzi, ma non bastò”.

Da lì in avanti, la sua storia italiana si chiama Virtus.

“Il primo incontro fu con Achille Canna, al Jolly Hotel. Fu lui a portarmi dritto dall’avvocato Porelli. Ci mettemmo un attimo a trovare l’accordo. Io volevo giocare con continuità, lui mi propose un ottimo contratto e non ci pensai due volte. Porelli era unico. Mi ricordo che ci fu un periodo, quando gli dissero che facevo un po’ tardi la notte, che per “controllarmi” meglio mi portava fuori lui stesso. “Così ti tengo d’occhio”, mi diceva. Insomma, di lì a poco nacque qualcosa che andava oltre il rapporto di lavoro. Nacque il mio amore per Bologna”.



Molti sono ancora convinti che la rinascita della pallacanestro in città, e le origini di Basket City, siano passate dalle mani e dai punti di due campioni d’oltreoceano: lei e il “Barone”, Gary Schull.

“In qualche modo è la verità. Quando arrivai a Bologna, nel 1971, la Virtus aveva perso un po’ del suo smalto. A palazzo c’era una media di duemila persone. Poi arrivarono quei derby, quelle sfide tra me e Gary che esaltavano i tifosi. E già alla fine della prima stagione si faceva il tutto esaurito. Gary era speciale, un altro che come me amava il basket passionalmente. In campo, non ce n’era per nessuno. Ci siamo divertiti, sono stati anni magici, certamente i migliori della mia carriera di giocatore, In Virtus trovai quell’America che non avevo potuto raggiungere a casa mia, anche se fu soprattutto colpa mia”.

In particolare quando i Lakers le offrirono la seconda opportunità, richiamandola negli States per un provino. Che fallì per motivi extracestistici…

“Fu proprio dopo la prima stagione a Bologna. In campo feci molto bene, ma la sciocchezza la commisi fuori. Comportamenti non ortodossi, diciamo così. Mi controllavano, si accorsero di tutto e mi fecero capire che non era il caso. Tornai in Virtus. Ma fu una specie di liberazione. A distanza di tanti anni, posso dire che forse inconsciamente non vedevo l’ora di mollare tutto e tornare a Bologna”.

Qui lei era un idolo, dentro e fuori dal campo.

“La mia casa era un porto di mare. Se qualcuno aveva bisogno, io c’ero. Iniziai a credere nei valori di pace e condivisione, facevo esperienze alternative. Ancora oggi mi considero un uomo non violento e propositivo, e non rinnego quei tempi, anche se so bene che avrei potuto vivere diversamente il mio percorso di atleta, sfruttare meglio il talento che mi era stato donato. Ci ho scritto un libro, su questa esperienza, ho raccontato tutto con sincerità perché penso che nascondere gli errori non sia il modo giusto per educare. I ragazzi sentono quando menti, con loro bisogna essere chiari, sinceri fino in fondo”.

Tre anni in bianconero e il primo trofeo da alzare al cielo dopo anni di astinenza.

“Vincemmo la Coppa Italia nel ’73-74, battendo in finale la Snaidero. Fu la mia stagione migliore alla Virtus, e mi convinsi che sarei rimasto a Bologna ancora a lungo. Ormai la consideravo la mia città. E la squadra era in crescita. Avevo iniziato con ragazzi che si chiamavano Bertolotti, Ferracini, Serafini, Antonelli, e io stesso avevo ventitré anni quando ero sbarcato in Italia. Sono certo che avremmo raggiunto insieme altri traguardi importanti. Ma un giorno coach Dan Peterson, a cui devo tanto per la mia crescita di giocatore e con cui c’è sempre stato un rapporto chiaro e diretto, mi spiegò bene la situazione. Disse che avrebbe voluto assolutamente confermarmi, ma anche che si era aperta questa incredibile possibilità di arrivare a Tom McMillen. Se non arriva, mi disse con sincerità, resti tu al cento per cento. Ma Tom arrivò, e la mia esperienza a Bologna si chiuse lì”.

Si è mai chiesto perché tanti tifosi, qui a Bologna, non hanno mai più dimenticato “Kociss”?

“Perché credo di aver fatto qualcosa di buono, e di averli fatti divertire e sognare, a modo mio.  Giocando un basket brillante. Qui sono rimasti tanti legami e amicizie, e sono i valori più importanti, per come la vedo io”.

Ha visto la nuova Virtus in azione? Le piace?

“La seguo, certo, e ho visto diverse cose in video. E’ una squadra giovane, con una gran voglia di fare bene. Credo possa crescere tantissimo. E coach Valli ha potuto forgiarla dall’inizio, questo non è un particolare secondario. Mettere la propria impronta su quello che si fa, per un tecnico, è determinante. Mi piace da impazzire Simone Fontecchio. Sono certo che diventerà un grande, perché fare quello che ha fatto a Pistoia e soprattutto contro Avellino, dove usciva da una partita complicata, ad appena diciannove anni è segno di grande temperamento e sicurezza”.

Gianmarco Pozzecco allenatore, sull’altra sponda. Che effetto le fa?

“Non lo scopro io, ha già dimostrato, soprattutto in Sicilia, di poter fare quel mestiere. Lui è genuino, immediato, e credo che ai giocatori possa trasmettere passioni ed emozioni, che servono tanto a consolidare un gruppo e a raggiungere gli obiettivi. Poi mi è simpatico, è istrionico e spettacolare, e la pallacanestro per me ha bisogno anche di questo per farsi amare da sempre più persone”.



(www.virtus.it)
(foto tratte da “Mi chiamavano Kociss”, John Fultz, Minerva Edizioni)

 

venerdì 7 novembre 2014

QUANDO GIGI RIVA TORNERA'.....



«Quando si andava in trasferta a Milano, a Torino, ci chiamavano pecorai. Oppure banditi. Avevamo dalla nostra migliaia di sardi all’estero, in quell’Italia del nord. Non esisteva la Costa Smeralda, non c’era mica l’Aga Khan, questa bellissima terra non l’avevano ancora massacrata. Noi, che pure eravamo solo dei calciatori, le demmo un nome. Eravamo una questione d’orgoglio, di rivincita per tanta gente. Ed eravamo una squadra completa, giusta sul campo in ogni ruolo… Io rispondevo alle ingiustizie a muso duro, e spesso mi perdonavano perché ero importante per la Nazionale e non potevano squalificarmi: allora, gli squalificati non venivano convocati».
(Gigi Riva)


Grazie per i sogni di bambino.
Per i gol in bianco e nero.
Per la rabbia e il silenzio.
Vorrei che quel tempo tornasse, ma va così.

Felici settanta, Campione.
 


sabato 26 luglio 2014

POMPILI, QUEL BOLOGNESE SUL K2



 “Oggi alle 15 ore loc. Tam, io e Amin eravamo in vetta al K2, senza ossigeno. Solo il cielo sopra di noi ma coperto… 17 da c4. Bello!”.

Un tweet. E non si può chiedere di più, sinceramente, a uno che ha viaggiato per quasi diciassette ore, senza ossigeno, a quota 8000, guardando sempre verso l’alto. Diciassette ore, dal campo 4 alla vetta, per regalarsi un sogno. Ce la racconterà meglio domani la sua impresa, Giuseppe Pompili, il bolognese che non smette neppure un attimo di pensare all’Himalaya, dall’ultimo piano del palazzo di via Bellaria in cui vive. Un alpinista di pianura che ha già lasciato più volte il segno del suo passaggio, e del suo modo di intendere le salite, sulle grandi cime del mondo.

Lo aveva fatto, prima di oggi, sull’Everest, la montagna più alta della Terra, salendo dalla cresta nord-est in solitudine, e prima ancora sul Cho Oyu. Lo aveva fatto ultimando la salita delle “Seven Summits”, le più alte vette di ciascuno dei sette continenti, terzo italiano assoluto e secondo nella combinata (Carstensz e Kosciuszko), dopo Reinhold Messner. Ma il K2 ha un fascino e un’attrazione che forse nessun’altra cima emana. Giuseppe l’aveva già tentata due volte, sempre con lo stesso approccio: spedizione limitata, due o tre persone al massimo, niente ossigeno, niente sherpa a fare il lavoro sporco. Alla cima era arrivato vicino, così come a quella del Nanga Parbat, e non si è trattato di insuccessi: semplicemente, Pompili può mettersi in azione sfruttando “finestre” di bel tempo limitate, non avendo la forza, né le risorse economiche, delle grandi spedizioni.

Per questo il successo di questa salita vale doppio. Perché è stato inseguito, voluto, conquistato rispettando la montagna. E anche perché era deciso che sarebbe stata l’ultima volta. Lo aveva spiegato lui stesso, in procinto di partire. Così. “C’è un demone che ciascuno di noi deve seguire. Il mio si chiama K2. Mi voglio regalare un ultimo tentativo nel 60esimo anniversario della salita prima di chiudere una volta per tutte con gli 8000, cogliendo questa occasione unica e irripetibile. C’è un tempo per ogni cosa, e non occorre scomodare l’Ecclesiaste per saperlo. Il mio tempo alle alte quote sta finendo e non solo per questioni anagrafiche. Ultimamente mi sento un po’ come un dinosauro, un appartenente a un tipo di alpinismo in via d’estinzione. I grandi mutamenti di questi ultimi anni stanno cancellando la figura dell’alpinista medio, non turista d’alta quota ma neppure professionista sponsorizzato. E’ perciò che – con intima soddisfazione personale – mi accingo a compiere il mio ultimo tentativo in completa autonomia, anche economica. La libertà ha un prezzo, che in questo caso pago volentieri”. Sì, Giuseppe Pompili è un uomo libero. E per una buona mezz’ora, questo pomeriggio, ci ha guardati tutti dall’alto, rigirando tra le mani il suo sogno diventato finalmente realtà. Un sogno chiamato ChogoRi, in lingua Balti. Significa, semplicemente, “Grande Montagna”. Confidenzialmente, K2.


lunedì 16 giugno 2014

FIGURINE – PIPPO, PRIMA DEI BAFFI


Oggi l’ho risentito al telefono, Pippo Cindolo. Non capitava da un po’. Mi occorreva un commento per un servizio che sto “costruendo”. Mi è tornata in mente quella figurina Panini, l’album era “Campioni dello Sport”. All’epoca ancora con il volto glabro, prima che crescessero i capelli e quei baffi da moschettiere. Era un mezzofondo dall’immagine vagamente hippie, che mi affascinava quanto i risultati: Cindolo, Del Buono, Fiasconaro, Fava. Lunghi capelli, cuori che si spendevano senza risparmio.

Quando gli ho ricordato che è stato lui la “causa” del mio innamoramento per la corsa, con un’allegrìa nella voce mi ha detto che alla festa per il centenario del Coni gli hanno detto la stessa cosa Bordin, Cova e Baldini. “Bene”, gli hi risposto, “così sai che questa sensazione vale anche per chi non ci è arrivato, a una medaglia olimpica”. “Ed è proprio questo il bello”, ha replicato: “così il cerchio si chiude, e c’è un senso di completezza che mi rallegra”.
Penso ancora al ritaglio della Gazzetta che riportava il suo incredibile risultato alla maratona di Fukuoka.
2 ore, 11 minuti, 45 secondi. Il 7 dicembre del 1975. Trentanove anni fa. Per me, resta una pietra miliare nella storia della maratona italiana.
E’ un onore che mi abbia chiesto di dargli del tu. Dice che tra innamorati dell’atletica si fa così. E sì, anche questa volta ha ragione lui.

UN ALTRO VIAGGIO NELLA MEMORIA ROSSOBLU'




di Marco Tarozzi

Torna a vivere il Bologna di ieri. Quello dei ricordi e quello dimenticato, che pure ha messo le basi per una storia ultracentenaria e gloriosa. Succede proprio in questi giorni di incertezza per il Bologna di oggi e del futuro, come un paradosso o un apparentemente gravoso contrappasso. Invece, è solo esercizio di memoria. Che non è mera nostalgia, ma può far bene anche quando c’è da tirare su le maniche e ricostruire. Sono passati appena quattro giorni dal cinquantenario dell’ultimo scudetto rossoblù, quello conquistato dalla banda Bernardini all’Olimpico di Roma, contro l’Inter campione d’Europa, il 7 giugno 1964. E ne mancano due alla replica di uno spettacolo che la scorsa estate, nelle prime due rappresentazioni, a giugno e a settembre, si è distinto per originalità e profondità della ricerca storica e culturale.

Venerdì sera alle 21 torna infatti il “Percorso della Memoria Rossoblu”, viaggio nella storia che porterà circa 120 persone (numero chiuso per motivi logistici e organizzativi) a camminare in uno dei luoghi più suggestivi e meno conosciuti di Bologna, la Certosa, tra i luoghi dove riposano i grandi campioni che hanno vestito la maglia rossoblù. Merito di Cristian Ventura e Stefano Dalloli, che hanno avuto l’idea e l’hanno perseguita con determinazione. Questa iniziativa parte da loro, dal Centro Bologna Clubs, ed è un’operazione culturale suggestiva, oltre che un atto d’amore.

 

“Il filo della memoria, quando si spezza, va sempre riannodato”. Bella, questa annotazione che quelli del Centro Bologna Clubs si sono segnati, e dalla quale sono partiti per inventarsi un progetto di grande valore culturale. Il punto di partenza, e tutto sommato anche d’arrivo, è semplice: togliere la polvere ai ricordi, renderli nuovamente vivi, fruibili, accessibili. In questo caso sono i ricordi del Bologna Football Club, che in oltre un secolo di vita ha attraversato le vicende e condiviso i destini della città, nella gloria e nella tragedia. Venerdì verranno ricordati alcuni grandi del Bologna, passando anche a portare un pensiero lieve a quelli che tra quelle mura hanno trovato il riposo eterno.

Si partirà dalla tomba di Renato Dall’Ara, il presidentissimo che firmò cinque dei sette scudetti rossoblù, e non potè godersi l’ultimo per un pugno di giorni dopo aver riportato il Bologna ad alta quota dopo oltre vent’anni di difficoltà. Toccherà poi ai pionieri come Cesare Alberti, Angelo ed Emilio Badini, “Pirèin” Genovesi e “Teresina Muzzioli”, fino ad Angelo Schavio, ricordato con emozione davanti al mausoleo di famiglia. E non verranno dimenticati grandi come “Faele” Sansone, Amedeo Biavati, fino alla bandiera Giacomo Bulgarelli. Un viaggio nella gloria e nella tragedia, perché questa società ultracentenaria ha attraversato due guerre mondiali e scollinato un millennio, e la sua vita è la stessa di una comunità che ha festeggiato e sofferto, gioito e pianto.

 

La serata (inizio alle 21, ritrovo un quarto d’ora prima all’ingresso principale della Certosa) sarà condotta da un Virgilio petroniano che avrà sembianze e voce di Orfeo Orlando, attore sopraffino e tifoso “doc”. I narratori (e autori dei testi) saranno alcuni giornalisti bolognesi che si alterneranno lungo un percorso fatto di letture e contenuti multimediali: Alberto Bortolotti, Marco Tarozzi, , Luca Sancini, mentre toccherano a Rita Mandini, volto noto della tv locale, leggere i testi di Luca Baccolini. A Piero Gasperini il compito di leggere il famoso articolo di Luca Goldoni “L’urlo della città”, che racconta la Bologna vuota e trepidante che attendeva notizie dall’Olimpico quel 7 giugno 1964. Con loro Roberto Martorelli, referente nell’ambito del progetto di valorizzazione dellaCertosa e del Museo del Risorgimento, che ha collaborato alla realizzazione del progetto con il Centro Bologna Clubs.

Un viaggio di grande suggestione per il quale è richiesto un  contributo di 10 euro: due saranno devoluti per la valorizzazione del Cimitero (Bologna ha la struttura più antica d’Europa, ma pochi bolognesi lo sanno), i restanti per il completamento del progetto “Percorso della Memoria Rossoblù” che prevede altre tappe e altre emozioni. Per info e prenotazioni: 335 2699200.
 
 

venerdì 23 maggio 2014

TONY CORRE LIBERO



di Marco Tarozzi

Anton Krupicka sorseggia con calma un espresso nel lounge bar di un albergo ai piedi dell’Appennino bolognese. Il suo sguardo è intenso ma rilassato, trasmette tranquillità. Ogni tanto butta un occhio verso la collina, che incombe senza minacciare. Non è casa, ma è comunque il suo mondo. Quello che punta dritto verso l’alto, che dimentica le strade facili e si infila nel verde della natura. Il mondo, quando tende alla semplicità, è davvero un bel posto in cui vivere.
Il tour europeo del campione statunitense di ultratrail ha subìto un brusco stop proprio dove lui avrebbe voluto non fermarsi mai: durante la sua prima partecipazione all’UTMB, la grande corsa del Monte Bianco per cui aveva attraversato l’oceano. Un problema tendineo al cavo popliteo, che già lo aveva infastidito nel corso della preparazione negli States e che ancora lo costringe a un periodo di recupero e riposo per lui insolito, lo ha costretto ad abbandonare la corsa mentre lottava per la vittoria, nei pressi del Gran Col Ferret. Brutta botta per il morale, ma Tony non è tipo da mollare facilmente. Volta pagina, si gode questo viaggio europeo e quasi si meraviglia dell’affetto con cui lo hanno accolto in Italia, e del fatto che tanta gente conosca la sua storia e il suo modo di interpretare la corsa. Quando gli ricordiamo che da queste parti lo chiamano Tarzan, il sorriso si trasforma in risata. Allegra, contagiosa.

“E’ divertente, no? Voglio dire, io non sono il tipo che si mette a correre nella giungla. Vado in montagna, nei boschi, lungo sentieri impervi, ma la giungla mi manca. Okay, credo sia a causa di come mi presento in corsa. Senza troppi orpelli, spesso a torso nudo. Va bene, ci sta, se vi piace chiamatemi pure così, ma la mia è una storia diversa”.

Una storia iniziata in Nebraska, la terra natale, e quasi subito votata ai ritmi della corsa offroad.

“Facevo le scuole elementari, avevo quasi undici anni e ricordo una gara sul miglio che mi aveva attirato. Mancavano un po’ di giorni all’appuntamento e decisi che il modo migliore per arrivarci preparato fosse correre esattamente quella distanza, un miglio, ogni giorno. E lo feci. Ci ho messo poco a incrementare le distanze, e subito ho sentito un miglioramento nella mia vita. Dal punto di vista fisico e da quello mentale. Non ho più smesso di correre”.

A modo suo. Uscendo dalle strade più battute, cercando boschi, sentieri, quel mondo che ci affascina e in cui quasi non sappiamo più immergerci.

“Io ho avuto fortuna, le contingenze mi hanno aiutato. In Nebraska abitavo in una zona non certo affollatissima, a due passi dal bosco. Soprattutto, per raggiungere una strada asfaltata dovevo correre molte miglia. Mi sono abituato da subito a correre come faccio ancora oggi, immerso nella natura, e ho iniziato ad amare quelle sensazioni. A sedici anni ho corso la mia prima maratona, d’istinto. Senza una preparazione specifica. Ho sentito che affrontare distanze più lunghe era nelle mie corde, e ho seguito quella strada”.

Il trasferimento per motivi di studio in Colorado, a diciotto anni, ha reso ancora più limpidamente estrema quella scelta.

“Oggi faccio base a Boulder, a quasi 1700 metri di altezza sul livello del mare, e ho trovato la dimensione giusta per vivere. Abito a cinque minuti dal centro della città, ma dietro casa ho già la natura che incombe, meravigliosa. A pochi metri passa un torrente di acqua ghiacciata e cristallina, una cura perfetta per le infiammazioni post-gara… Poi vegetazione fitta e strade che vanno all’insù, proprio come piace a me”.

Pensieri di un runner molto particolare. Uno abituato a convivere con sé stesso, e la cosa deve piacergli parecchio. Uno che sa riflettere sulla corsa e sulla vita. D’altra parte, quello in filosofia è stato il secondo “academic degree” che Tony si è messo in tasca, dopo quello in fisica. “Un po’ Aristotele e un po’ Galileo”, spiega scherzando. E poi è arrivato anche il diploma in geologia, che per uno così legato alla terra e alla natura ha un suo significato. Gli serviranno, assicura. Adesso, a trent’anni, pensa a correre da professionista. Potrebbe sembrare un controsenso: il cultore della vita semplice e naturale che campeggia sui manifesti di aziende di materiale tecnico all’avanguardia. Tony ha una spiegazione, ed è convincente.

“Questa domanda me l’hanno fatta in molti, c’è stata anche qualche polemica nel mio Paese. Io faccio il professionista, oggi come oggi. Il che non significa che corra perché mi pagano, lo farei comunque. Ma dico che la gente compra le scarpe, e che io stesso quando corro devo usarle. Mi occorrono. Non vedo come una cosa tanto grave il fatto che io abbia uno sponsor, e che magari provi a dare il mio contributo perché quei prodotti possano migliorare, e servire anche ad altri. New Balance, l’azienda che mi sostiene, sanno come la penso: li aiuto a progettare cercando il massimo della semplicità. Mi piace correre e sentirmi correre, non so se mi spiego…”

Togliere, togliere e ancora togliere. Arrivare all’essenza. Per sentirsi, probabilmente, più vicino alla terra che calpesta con venerazione e rispetto. Niente orpelli, niente pesi inutili. Nessuna concessione al superfluo. La filosofia di Anton Krupicka, prendere o lasciare.

“Credo che la corsa sia il miglior modo di esprimermi, tra i tanti che ho. O almeno, quello in cui mi sono espresso meglio finora. E’ parte di me, ed è naturale. Cosa c’è di più naturale di quel gesto? E’ semplice, primordiale. Gli animali corrono, e noi siamo animali anche se ormai ce ne siamo dimenticati. Ma per millenni abbiamo vissuto come tali, ascoltando i nostri sensi. Ecco, io cerco di tornare a quel modo di sentire, quando sto correndo. E’ l’attività più pura e genuina che conosca, non posso riempirla di altri significati, la appesantirei. Per me è una specie di ritorno alle radici, all’essenzialità. Credo di essere esattamente quello che si vede e si intuisce di me, come atleta e anche come uomo. Un tipo spontaneo. Che dà un significato alle cose che fa. Io non corro mai per vincere, corro per vivere”.

Con quella faccia un po’ così, da orso solitario e generoso, fa parte di quella ristretta cerchia di atleti che hanno cambiato faccia, e ritmo, alla specialità. Fonti di ispirazione per gli appassionati, sempre più numerosi, che scelgono un nuovo tipo di approccio al podismo. Quasi una vita da caposcuola, di quelle che ti fanno sentire addosso il peso della responsabilità.

“Non so se posso essere definito così. Di sicuro c’è attenzione, atleti come me o Kilian Jornet sono seguiti e apprezzati. Ma tanti altri, che sono venuti prima di noi, hanno contribuito a far crescere il movimento. Certamente io penso di avere un approccio originale, diciamo così, alla vita, e questo può aver colpito gli ultrarunners. Quello che so è che ho vissuto per immergermi nella natura, per correre e scalare montagne, girando l’America con poco e praticando il coach-surfing per non finire sul lastrico… E l’ho fatto per conoscere posti nuovi, per sperimentare. Mi piace interagire con l’ambiente nel quale mi muovo, ho visto luoghi unici e meravigliosi, paesaggi davanti ai quali mi sono sentito in pace col mondo. Quando li cerco, non mi penso mai in una posizione di leader, non ragiono su ciò che le mie azioni possono significare per altri. Non faccio calcoli di questo tipo, sono abituato a vivere le mie esperienze spontaneamente”.

Nella sua “prima volta” nelle Alpi non ha avuto la fortuna dalla sua. Ma lui non demorde, ha già messo in agenda l’UTMB per l’anno che verrà. E intanto ne approfitta per fare un po’ di promozione, per prendere confidenza con i “landscapes” d’Europa, per scoprire stupito che da queste parti è davvero un’icona. Questa terra non assomiglia alla sua terra, ma gli piace.

“Grandi montagne, belle da scalare. Prima di arrivare a Chamonix pensavo tra me e me: beh, ragazzo, non sarà una passeggiata. Ed è stato così, anche prima del ritiro. Però avevo addosso una grande eccitazione, aspettavo questi momenti. E tornerò, sicuro. Dal punto di vista tecnico, queste sono montagne complicate. Anche in America, del resto, abbiamo corse molto dure, seppure diverse. Penso alla “Hardrock”, che ancora non ho affrontato: credo non abbia molto da invidiare a queste vostre corse, anche se a me piace soprattutto perché è una gara… come dire… più intima, senza una partecipazione così numerosa. Alla fine, mentre ero in gara mi dicevo che sì, quella del Monte Bianco è una gara impegnativa, ma comunque resta una gara di trail e quando uno è in corsa, corre e basta. Resta il fatto che l’UTMB ha un’organizzazione pazzesca, impensabile da noi”.

Poi, basta aprire il capitolo “preparazione” per capire che abbiamo di fronte un grande talento eppure un ragazzo semplice, che non ha la malizia di mettersi a fare calcoli, né analizza troppo le performances. Uno naturale, appunto. Come piace a lui.

“La mia preparazione in vista di una gara? Non sono di quelli per cui ogni giorno dev’essere il migliore, e che vorrebbero viaggiare sempre al massimo. Cerco l’intensità del lavoro, certo, ma anche la naturalezza del gesto. E ascolto il fisico: se vedo che non è giornata, non mi impunto sulla riuscita di un lavoro. Alimentazione? Diete non ne faccio di sicuro. Bevo molto caffè, pure troppo, e mi piacciono i croissant, e bere di tanto in tanto una bella birra fresca. Dovrei ingurgitare meno zuccheri, lo so, ma che volete farci? Qualche soddisfazione bisogna togliersela…”

Eric Cantona, in uno splendido film di Ken Loach, ricordava come miglior momento della sua carriera un passaggio vincente, piuttosto che un gol. Tony Krupicka è sulla stessa frequenza: la gara più bella, per lui, non è una vittoria ma un secondo posto.

“Western States 100, nel 2010. Ce la siamo giocata con Kilian Jornet e Goeff Rose, è stata una gara vera. Quando Goeff sta come stava quel giorno, non ce n’è per nessuno. E infatti l’ha vinta lui, e io dietro, ma entrambi abbiamo fatto meglio del vecchio record. E dopo quindici ore e cento miglia di gara, ci hanno diviso appena sei minuti. Indimenticabile. Però, se mi chiedi chi è il migliore di tutti, non ho dubbi: quando sta bene, o semplicemente quando decide che deve vincere, Kilian è di un altro pianeta. Io sono qui, a questa altezza, lui è lassù. Gli italiani? Conosco Marco De Gasperi, un talento, e naturalmente l’intramontabile Marco Olmo”.

Il gioco, prima dei saluti, è analizzare il buon corridore in percentuali. Farlo lavorare di gambe, di testa e di cuore, e poi chiedergli che cosa conta di più.

“Dipende. La mente ha bisogno del corpo, e viceversa. Ma più allunghi la distanza, più la testa diventa fondamentale. Dopo le sessanta miglia di gara, è quella che decide dove arriverai”.

Il sole si alza sull’Appennino. Tony vorrebbe essere in mezzo a quei sentieri, che si vedono anche da qui. Non può, non potrà per qualche tempo. La corsa gli manca maledettamente, perché è uno stile di vita, un’abitudine che non pesa. Per questo il professionismo non è pressione, né peso.

“Io ora sono qui, ma domani potrei non essere più un professionista, finire lontano dalle ribalte. Ma so già che sarei comunque un tipo che corre, perché non so resistere al richiamo di un sentiero sterrato in montagna, di una strada mai battuta prima. L’ultratrail è il mio mondo, lo preferisco alle grandi gare d’avventura dove per correre ti servono soldi, sponsor, mezzi. Sarà sempre la mia scelta, anche quando non avrò più il sostegno economico che ho oggi. Continuerò a correre e a vivere come piace a me. Libero”.

 Runner's World, ottobre 2013

 

"LODO", DI CORSA DA ATENE A SPARTA


 
di Marco Tarozzi

Il 27 settembre del 2004, Lodovico Lodi prese la solenne decisione. Stop al fumo, basta con le sigarette. Per sempre. Nove anni esatti dopo, il 27 settembre del 2013, “Lodo”, come lo chiamano gli amici a Bologna, ha realizzato il sogno della sua vita da corsa, diventando un “finisher” alla Spartathlon. Uno dei dodici italiani che ce l’hanno fatta quest’anno, il primo bolognese in assoluto. Tra queste due date, che magicamente coincidono, ci sono quaranta maratone, trentadue gare di ultratrail, dieci “100 chilometri” (comprese quattro edizioni del Passatore), due 24 ore. E una bella storia da raccontare.

Lodovico era uno di quelli da “paglia e balotta”, come dicono da queste parti. Sigaretta per rilassarsi e voglia di stare in compagnia con gli amici. Possibilmente al Madigan’s, il pub appena dentro porta Lame che era, ed è ancora “una specie di seconda casa, per me…”. E aveva altre passioni, ovviamente. Suonava la chitarra piuttosto bene in un gruppo heavy metal, amava la fotografia. Passione, quest’ultima, trasmessa da papà Gabriele, insieme a cui oggi porta avanti un avviatissimo studio fotografico in centro. E poi c’era la moto, da cavalcare in libertà, in stile Easy Rider. C’era tutto questo, nella vita di Lodo, e moto altro ancora. Ma non c’era la corsa.

“Poi è successo quello che capita a molti: senza fumare, ho messo su qualche chilo di troppo. Ho scoperto di avere il colesterolo alto, valori un po’ sballati, e ho cominciato a muovermi per rimettere in sesto la macchina. Tre chilometri, poi cinque, dieci. Sono arrivato a correre la prima maratona nel 2009, appena quattro anni fa. Mi sono sentito meglio, soprattutto mentalmente. Allora mi è venuta la curiosità di esplorare i miei limiti, capire dove avrei potuto arrivare con un po’ di determinazione. Non sono riuscito a fermarmi. La corsa è una passione che non ti abbandona più, lo sappiamo. Solo che io ho continuato ad allungare i chilometri nelle uscite, e più allungavo più mi piaceva…”

Se pensate a un fanatico del running estremo, siete fuori strada. “Lodo” è un uomo tranquillo che facendo sport ha trovato un equilibrio interiore ammirevole. Le sue avventure sono sfide personali che non necessariamente diventano lotte col cronometro. Alla Spartathlon, per dire, ha chiuso al 128mo posto, in 35 ore, 36 minuti e 38 secondi. Una ventina di minuti sotto il limite massimo. Una scelta. “Perché io su quelle strade ci tornerò, e questa volta avevo solo due obiettivi in testa: capire questa corsa e arrivare in fondo. Fatte le debite proporzioni, anche il grandissimo Ivan Cudin (terzo anche quest’anno nonostante una caduta sul Partenio, ndr) ha iniziato studiando il percorso, con un settimo posto, prima di vincerla due volte in fila, nel 2010 e nel 2011. Io non sono Ivan, si capisce. Sono una persona normale che ha un fisico allenato, tutto qui. Non sarò mai là davanti, a giocarmi una vittoria. Ma ho allenato abbastanza la mente per vincere la mia personalissima gara: questa volta volevo tagliare il traguardo e toccare, subito dopo, il piede di Leonida, un gesto di rispetto che significa anche sfiorare il mito con la mano”.

Quella leggenda Lodovico l’aveva in testa da tempo. Ma alla Spartathlon non si arriva per caso, e non si corre per scherzo. A un certo punto, ha capito che questo sarebbe stato l’anno buono.

“E’ la corsa che mi affascina più di tutte, in Europa. Ed è dura, ovviamente: 245,3 chilometri con circa tremila metri di dislivello e la salita al Monte Partenio, dopo 155. A suo modo crudele: lungo il percorso ci sono settantacinque check-points, se arrivi in ritardo anche soltanto in uno sei fuori. Ti tolgono il pettorale. A un italiano è successo dopo 220 chilometri di gara. E’ come se ti urlassero in faccia “This is Sparta!”, hai presente la scena del film “300”? Ma è come correre immersi nella leggenda. Si dice che in cima al Partenio Filippide abbia incontrato il dio Pan, che gli affidò il suo messaggio contro il disamore degli ateniesi. La sua leggendaria ira ha dato vita al termine “panico”, e io quel panico l’ho provato, salendo di notte lungo i sentieri del monte. Sì, ho avuto anche paura: di cadere, di dovermi ritirare, di sentirmi solo. E all’alba ne sono uscito rafforzato”.

Storia di lunghe corse e di profonda umanità. Come quella che ha legato, per tanti chilometri di gara, Lodovico e altri due italiani. Un viaggio insieme che si è trasformato in una bella amicizia. “Loro sono Giuseppe Cialdini e Loris De Palma. L’ultima parte della gara, la più difficile anche dal punto di vista emotivo, l’abbiamo vissuta insieme. Dividendo tutto, a cominciare dal nostro grande sogno. Ci siamo fatti coraggio, ci siamo aiutati a vicenda, e ancora mi emoziona ripensare a quei momenti. Per questo, appena superato il traguardo, abbiamo intrecciato le nostre mani e la statua di Leonida abbiamo avuto toccarla insieme. E’ stata una conquista corale, tre volontà forti per un unico obiettivo”.

Ma Spartathlon è altro. Una preparazione che per “Lodo” è quasi allegria, perché nonostante l’impegno e la fatica lui non riesce a vedere la corsa senza divertimento. “Non sono uno che fa dell’allenamento un assillo. Ma in questo periodo ho comunque affrontato in media una ultratrail e una maratona al mese. Non so se continuerò così, è un impegno importante, fisico e anche economico. Però mi è servito. Ricordo che ad agosto non c’erano gare dalle mie parti, e allora quando i miei genitori andavano al mare li seguivo, e sulla via del ritorno mi facevo scaricare a Forlì e mi facevo settanta chilometri a piedi fino a Bologna, sulla via Emilia. Una domenica ho trovato a farmi compagnia la staffetta podistica che andava in città per commemorare il 2 agosto. E’ stata una scoperta piacevolissima: ho trovato ristori, assistenza, forze dell’ordine a regolare il traffico e una compagnia che cambiava di continuo, perché loro si passavano il testimone e io ero l’unico fattore che non cambiava mai. Un bel modo di fare nuove amicizie”.

Lodovico è un “finisher”, ha corso da Atene a Sparta senza fermarsi né dormire per un giorno e mezzo. Ma non si sente un eroe per questo.

“Gli eroi sono altri, anche fuori dalla corsa. Io sono un uomo normale che si mette alla prova. E se mi danno del pazzo dico che è vero, noi ultramaratoneti siamo una bella banda di matti. Ma è pazzo anche chi se ne sta sei ore su un divano a guardare la televisione, chi non fa un passo senza usare la macchina, chi non cura sé stesso col movimento. Ci siamo dimenticati da dove veniamo. Eravamo cacciatori e corridori, il corpo umano è quello di allora, ma si è “cementato”. Io provo soltanto a liberarmi dalle scorie, ed è un gioco di gambe, cuore e soprattutto cervello. Non voglio insegnare niente a nessuno, ma la corsa mi fa stare bene e nell’ultratrail ho scoperto il mio mondo. Fatto di gente semplice, di rapporti veri, di lacrime di rabbia e di gioia. Non ne uscirei per nulla al mondo”.

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