venerdì 23 maggio 2014

TONY CORRE LIBERO



di Marco Tarozzi

Anton Krupicka sorseggia con calma un espresso nel lounge bar di un albergo ai piedi dell’Appennino bolognese. Il suo sguardo è intenso ma rilassato, trasmette tranquillità. Ogni tanto butta un occhio verso la collina, che incombe senza minacciare. Non è casa, ma è comunque il suo mondo. Quello che punta dritto verso l’alto, che dimentica le strade facili e si infila nel verde della natura. Il mondo, quando tende alla semplicità, è davvero un bel posto in cui vivere.
Il tour europeo del campione statunitense di ultratrail ha subìto un brusco stop proprio dove lui avrebbe voluto non fermarsi mai: durante la sua prima partecipazione all’UTMB, la grande corsa del Monte Bianco per cui aveva attraversato l’oceano. Un problema tendineo al cavo popliteo, che già lo aveva infastidito nel corso della preparazione negli States e che ancora lo costringe a un periodo di recupero e riposo per lui insolito, lo ha costretto ad abbandonare la corsa mentre lottava per la vittoria, nei pressi del Gran Col Ferret. Brutta botta per il morale, ma Tony non è tipo da mollare facilmente. Volta pagina, si gode questo viaggio europeo e quasi si meraviglia dell’affetto con cui lo hanno accolto in Italia, e del fatto che tanta gente conosca la sua storia e il suo modo di interpretare la corsa. Quando gli ricordiamo che da queste parti lo chiamano Tarzan, il sorriso si trasforma in risata. Allegra, contagiosa.

“E’ divertente, no? Voglio dire, io non sono il tipo che si mette a correre nella giungla. Vado in montagna, nei boschi, lungo sentieri impervi, ma la giungla mi manca. Okay, credo sia a causa di come mi presento in corsa. Senza troppi orpelli, spesso a torso nudo. Va bene, ci sta, se vi piace chiamatemi pure così, ma la mia è una storia diversa”.

Una storia iniziata in Nebraska, la terra natale, e quasi subito votata ai ritmi della corsa offroad.

“Facevo le scuole elementari, avevo quasi undici anni e ricordo una gara sul miglio che mi aveva attirato. Mancavano un po’ di giorni all’appuntamento e decisi che il modo migliore per arrivarci preparato fosse correre esattamente quella distanza, un miglio, ogni giorno. E lo feci. Ci ho messo poco a incrementare le distanze, e subito ho sentito un miglioramento nella mia vita. Dal punto di vista fisico e da quello mentale. Non ho più smesso di correre”.

A modo suo. Uscendo dalle strade più battute, cercando boschi, sentieri, quel mondo che ci affascina e in cui quasi non sappiamo più immergerci.

“Io ho avuto fortuna, le contingenze mi hanno aiutato. In Nebraska abitavo in una zona non certo affollatissima, a due passi dal bosco. Soprattutto, per raggiungere una strada asfaltata dovevo correre molte miglia. Mi sono abituato da subito a correre come faccio ancora oggi, immerso nella natura, e ho iniziato ad amare quelle sensazioni. A sedici anni ho corso la mia prima maratona, d’istinto. Senza una preparazione specifica. Ho sentito che affrontare distanze più lunghe era nelle mie corde, e ho seguito quella strada”.

Il trasferimento per motivi di studio in Colorado, a diciotto anni, ha reso ancora più limpidamente estrema quella scelta.

“Oggi faccio base a Boulder, a quasi 1700 metri di altezza sul livello del mare, e ho trovato la dimensione giusta per vivere. Abito a cinque minuti dal centro della città, ma dietro casa ho già la natura che incombe, meravigliosa. A pochi metri passa un torrente di acqua ghiacciata e cristallina, una cura perfetta per le infiammazioni post-gara… Poi vegetazione fitta e strade che vanno all’insù, proprio come piace a me”.

Pensieri di un runner molto particolare. Uno abituato a convivere con sé stesso, e la cosa deve piacergli parecchio. Uno che sa riflettere sulla corsa e sulla vita. D’altra parte, quello in filosofia è stato il secondo “academic degree” che Tony si è messo in tasca, dopo quello in fisica. “Un po’ Aristotele e un po’ Galileo”, spiega scherzando. E poi è arrivato anche il diploma in geologia, che per uno così legato alla terra e alla natura ha un suo significato. Gli serviranno, assicura. Adesso, a trent’anni, pensa a correre da professionista. Potrebbe sembrare un controsenso: il cultore della vita semplice e naturale che campeggia sui manifesti di aziende di materiale tecnico all’avanguardia. Tony ha una spiegazione, ed è convincente.

“Questa domanda me l’hanno fatta in molti, c’è stata anche qualche polemica nel mio Paese. Io faccio il professionista, oggi come oggi. Il che non significa che corra perché mi pagano, lo farei comunque. Ma dico che la gente compra le scarpe, e che io stesso quando corro devo usarle. Mi occorrono. Non vedo come una cosa tanto grave il fatto che io abbia uno sponsor, e che magari provi a dare il mio contributo perché quei prodotti possano migliorare, e servire anche ad altri. New Balance, l’azienda che mi sostiene, sanno come la penso: li aiuto a progettare cercando il massimo della semplicità. Mi piace correre e sentirmi correre, non so se mi spiego…”

Togliere, togliere e ancora togliere. Arrivare all’essenza. Per sentirsi, probabilmente, più vicino alla terra che calpesta con venerazione e rispetto. Niente orpelli, niente pesi inutili. Nessuna concessione al superfluo. La filosofia di Anton Krupicka, prendere o lasciare.

“Credo che la corsa sia il miglior modo di esprimermi, tra i tanti che ho. O almeno, quello in cui mi sono espresso meglio finora. E’ parte di me, ed è naturale. Cosa c’è di più naturale di quel gesto? E’ semplice, primordiale. Gli animali corrono, e noi siamo animali anche se ormai ce ne siamo dimenticati. Ma per millenni abbiamo vissuto come tali, ascoltando i nostri sensi. Ecco, io cerco di tornare a quel modo di sentire, quando sto correndo. E’ l’attività più pura e genuina che conosca, non posso riempirla di altri significati, la appesantirei. Per me è una specie di ritorno alle radici, all’essenzialità. Credo di essere esattamente quello che si vede e si intuisce di me, come atleta e anche come uomo. Un tipo spontaneo. Che dà un significato alle cose che fa. Io non corro mai per vincere, corro per vivere”.

Con quella faccia un po’ così, da orso solitario e generoso, fa parte di quella ristretta cerchia di atleti che hanno cambiato faccia, e ritmo, alla specialità. Fonti di ispirazione per gli appassionati, sempre più numerosi, che scelgono un nuovo tipo di approccio al podismo. Quasi una vita da caposcuola, di quelle che ti fanno sentire addosso il peso della responsabilità.

“Non so se posso essere definito così. Di sicuro c’è attenzione, atleti come me o Kilian Jornet sono seguiti e apprezzati. Ma tanti altri, che sono venuti prima di noi, hanno contribuito a far crescere il movimento. Certamente io penso di avere un approccio originale, diciamo così, alla vita, e questo può aver colpito gli ultrarunners. Quello che so è che ho vissuto per immergermi nella natura, per correre e scalare montagne, girando l’America con poco e praticando il coach-surfing per non finire sul lastrico… E l’ho fatto per conoscere posti nuovi, per sperimentare. Mi piace interagire con l’ambiente nel quale mi muovo, ho visto luoghi unici e meravigliosi, paesaggi davanti ai quali mi sono sentito in pace col mondo. Quando li cerco, non mi penso mai in una posizione di leader, non ragiono su ciò che le mie azioni possono significare per altri. Non faccio calcoli di questo tipo, sono abituato a vivere le mie esperienze spontaneamente”.

Nella sua “prima volta” nelle Alpi non ha avuto la fortuna dalla sua. Ma lui non demorde, ha già messo in agenda l’UTMB per l’anno che verrà. E intanto ne approfitta per fare un po’ di promozione, per prendere confidenza con i “landscapes” d’Europa, per scoprire stupito che da queste parti è davvero un’icona. Questa terra non assomiglia alla sua terra, ma gli piace.

“Grandi montagne, belle da scalare. Prima di arrivare a Chamonix pensavo tra me e me: beh, ragazzo, non sarà una passeggiata. Ed è stato così, anche prima del ritiro. Però avevo addosso una grande eccitazione, aspettavo questi momenti. E tornerò, sicuro. Dal punto di vista tecnico, queste sono montagne complicate. Anche in America, del resto, abbiamo corse molto dure, seppure diverse. Penso alla “Hardrock”, che ancora non ho affrontato: credo non abbia molto da invidiare a queste vostre corse, anche se a me piace soprattutto perché è una gara… come dire… più intima, senza una partecipazione così numerosa. Alla fine, mentre ero in gara mi dicevo che sì, quella del Monte Bianco è una gara impegnativa, ma comunque resta una gara di trail e quando uno è in corsa, corre e basta. Resta il fatto che l’UTMB ha un’organizzazione pazzesca, impensabile da noi”.

Poi, basta aprire il capitolo “preparazione” per capire che abbiamo di fronte un grande talento eppure un ragazzo semplice, che non ha la malizia di mettersi a fare calcoli, né analizza troppo le performances. Uno naturale, appunto. Come piace a lui.

“La mia preparazione in vista di una gara? Non sono di quelli per cui ogni giorno dev’essere il migliore, e che vorrebbero viaggiare sempre al massimo. Cerco l’intensità del lavoro, certo, ma anche la naturalezza del gesto. E ascolto il fisico: se vedo che non è giornata, non mi impunto sulla riuscita di un lavoro. Alimentazione? Diete non ne faccio di sicuro. Bevo molto caffè, pure troppo, e mi piacciono i croissant, e bere di tanto in tanto una bella birra fresca. Dovrei ingurgitare meno zuccheri, lo so, ma che volete farci? Qualche soddisfazione bisogna togliersela…”

Eric Cantona, in uno splendido film di Ken Loach, ricordava come miglior momento della sua carriera un passaggio vincente, piuttosto che un gol. Tony Krupicka è sulla stessa frequenza: la gara più bella, per lui, non è una vittoria ma un secondo posto.

“Western States 100, nel 2010. Ce la siamo giocata con Kilian Jornet e Goeff Rose, è stata una gara vera. Quando Goeff sta come stava quel giorno, non ce n’è per nessuno. E infatti l’ha vinta lui, e io dietro, ma entrambi abbiamo fatto meglio del vecchio record. E dopo quindici ore e cento miglia di gara, ci hanno diviso appena sei minuti. Indimenticabile. Però, se mi chiedi chi è il migliore di tutti, non ho dubbi: quando sta bene, o semplicemente quando decide che deve vincere, Kilian è di un altro pianeta. Io sono qui, a questa altezza, lui è lassù. Gli italiani? Conosco Marco De Gasperi, un talento, e naturalmente l’intramontabile Marco Olmo”.

Il gioco, prima dei saluti, è analizzare il buon corridore in percentuali. Farlo lavorare di gambe, di testa e di cuore, e poi chiedergli che cosa conta di più.

“Dipende. La mente ha bisogno del corpo, e viceversa. Ma più allunghi la distanza, più la testa diventa fondamentale. Dopo le sessanta miglia di gara, è quella che decide dove arriverai”.

Il sole si alza sull’Appennino. Tony vorrebbe essere in mezzo a quei sentieri, che si vedono anche da qui. Non può, non potrà per qualche tempo. La corsa gli manca maledettamente, perché è uno stile di vita, un’abitudine che non pesa. Per questo il professionismo non è pressione, né peso.

“Io ora sono qui, ma domani potrei non essere più un professionista, finire lontano dalle ribalte. Ma so già che sarei comunque un tipo che corre, perché non so resistere al richiamo di un sentiero sterrato in montagna, di una strada mai battuta prima. L’ultratrail è il mio mondo, lo preferisco alle grandi gare d’avventura dove per correre ti servono soldi, sponsor, mezzi. Sarà sempre la mia scelta, anche quando non avrò più il sostegno economico che ho oggi. Continuerò a correre e a vivere come piace a me. Libero”.

 Runner's World, ottobre 2013

 

"LODO", DI CORSA DA ATENE A SPARTA


 
di Marco Tarozzi

Il 27 settembre del 2004, Lodovico Lodi prese la solenne decisione. Stop al fumo, basta con le sigarette. Per sempre. Nove anni esatti dopo, il 27 settembre del 2013, “Lodo”, come lo chiamano gli amici a Bologna, ha realizzato il sogno della sua vita da corsa, diventando un “finisher” alla Spartathlon. Uno dei dodici italiani che ce l’hanno fatta quest’anno, il primo bolognese in assoluto. Tra queste due date, che magicamente coincidono, ci sono quaranta maratone, trentadue gare di ultratrail, dieci “100 chilometri” (comprese quattro edizioni del Passatore), due 24 ore. E una bella storia da raccontare.

Lodovico era uno di quelli da “paglia e balotta”, come dicono da queste parti. Sigaretta per rilassarsi e voglia di stare in compagnia con gli amici. Possibilmente al Madigan’s, il pub appena dentro porta Lame che era, ed è ancora “una specie di seconda casa, per me…”. E aveva altre passioni, ovviamente. Suonava la chitarra piuttosto bene in un gruppo heavy metal, amava la fotografia. Passione, quest’ultima, trasmessa da papà Gabriele, insieme a cui oggi porta avanti un avviatissimo studio fotografico in centro. E poi c’era la moto, da cavalcare in libertà, in stile Easy Rider. C’era tutto questo, nella vita di Lodo, e moto altro ancora. Ma non c’era la corsa.

“Poi è successo quello che capita a molti: senza fumare, ho messo su qualche chilo di troppo. Ho scoperto di avere il colesterolo alto, valori un po’ sballati, e ho cominciato a muovermi per rimettere in sesto la macchina. Tre chilometri, poi cinque, dieci. Sono arrivato a correre la prima maratona nel 2009, appena quattro anni fa. Mi sono sentito meglio, soprattutto mentalmente. Allora mi è venuta la curiosità di esplorare i miei limiti, capire dove avrei potuto arrivare con un po’ di determinazione. Non sono riuscito a fermarmi. La corsa è una passione che non ti abbandona più, lo sappiamo. Solo che io ho continuato ad allungare i chilometri nelle uscite, e più allungavo più mi piaceva…”

Se pensate a un fanatico del running estremo, siete fuori strada. “Lodo” è un uomo tranquillo che facendo sport ha trovato un equilibrio interiore ammirevole. Le sue avventure sono sfide personali che non necessariamente diventano lotte col cronometro. Alla Spartathlon, per dire, ha chiuso al 128mo posto, in 35 ore, 36 minuti e 38 secondi. Una ventina di minuti sotto il limite massimo. Una scelta. “Perché io su quelle strade ci tornerò, e questa volta avevo solo due obiettivi in testa: capire questa corsa e arrivare in fondo. Fatte le debite proporzioni, anche il grandissimo Ivan Cudin (terzo anche quest’anno nonostante una caduta sul Partenio, ndr) ha iniziato studiando il percorso, con un settimo posto, prima di vincerla due volte in fila, nel 2010 e nel 2011. Io non sono Ivan, si capisce. Sono una persona normale che ha un fisico allenato, tutto qui. Non sarò mai là davanti, a giocarmi una vittoria. Ma ho allenato abbastanza la mente per vincere la mia personalissima gara: questa volta volevo tagliare il traguardo e toccare, subito dopo, il piede di Leonida, un gesto di rispetto che significa anche sfiorare il mito con la mano”.

Quella leggenda Lodovico l’aveva in testa da tempo. Ma alla Spartathlon non si arriva per caso, e non si corre per scherzo. A un certo punto, ha capito che questo sarebbe stato l’anno buono.

“E’ la corsa che mi affascina più di tutte, in Europa. Ed è dura, ovviamente: 245,3 chilometri con circa tremila metri di dislivello e la salita al Monte Partenio, dopo 155. A suo modo crudele: lungo il percorso ci sono settantacinque check-points, se arrivi in ritardo anche soltanto in uno sei fuori. Ti tolgono il pettorale. A un italiano è successo dopo 220 chilometri di gara. E’ come se ti urlassero in faccia “This is Sparta!”, hai presente la scena del film “300”? Ma è come correre immersi nella leggenda. Si dice che in cima al Partenio Filippide abbia incontrato il dio Pan, che gli affidò il suo messaggio contro il disamore degli ateniesi. La sua leggendaria ira ha dato vita al termine “panico”, e io quel panico l’ho provato, salendo di notte lungo i sentieri del monte. Sì, ho avuto anche paura: di cadere, di dovermi ritirare, di sentirmi solo. E all’alba ne sono uscito rafforzato”.

Storia di lunghe corse e di profonda umanità. Come quella che ha legato, per tanti chilometri di gara, Lodovico e altri due italiani. Un viaggio insieme che si è trasformato in una bella amicizia. “Loro sono Giuseppe Cialdini e Loris De Palma. L’ultima parte della gara, la più difficile anche dal punto di vista emotivo, l’abbiamo vissuta insieme. Dividendo tutto, a cominciare dal nostro grande sogno. Ci siamo fatti coraggio, ci siamo aiutati a vicenda, e ancora mi emoziona ripensare a quei momenti. Per questo, appena superato il traguardo, abbiamo intrecciato le nostre mani e la statua di Leonida abbiamo avuto toccarla insieme. E’ stata una conquista corale, tre volontà forti per un unico obiettivo”.

Ma Spartathlon è altro. Una preparazione che per “Lodo” è quasi allegria, perché nonostante l’impegno e la fatica lui non riesce a vedere la corsa senza divertimento. “Non sono uno che fa dell’allenamento un assillo. Ma in questo periodo ho comunque affrontato in media una ultratrail e una maratona al mese. Non so se continuerò così, è un impegno importante, fisico e anche economico. Però mi è servito. Ricordo che ad agosto non c’erano gare dalle mie parti, e allora quando i miei genitori andavano al mare li seguivo, e sulla via del ritorno mi facevo scaricare a Forlì e mi facevo settanta chilometri a piedi fino a Bologna, sulla via Emilia. Una domenica ho trovato a farmi compagnia la staffetta podistica che andava in città per commemorare il 2 agosto. E’ stata una scoperta piacevolissima: ho trovato ristori, assistenza, forze dell’ordine a regolare il traffico e una compagnia che cambiava di continuo, perché loro si passavano il testimone e io ero l’unico fattore che non cambiava mai. Un bel modo di fare nuove amicizie”.

Lodovico è un “finisher”, ha corso da Atene a Sparta senza fermarsi né dormire per un giorno e mezzo. Ma non si sente un eroe per questo.

“Gli eroi sono altri, anche fuori dalla corsa. Io sono un uomo normale che si mette alla prova. E se mi danno del pazzo dico che è vero, noi ultramaratoneti siamo una bella banda di matti. Ma è pazzo anche chi se ne sta sei ore su un divano a guardare la televisione, chi non fa un passo senza usare la macchina, chi non cura sé stesso col movimento. Ci siamo dimenticati da dove veniamo. Eravamo cacciatori e corridori, il corpo umano è quello di allora, ma si è “cementato”. Io provo soltanto a liberarmi dalle scorie, ed è un gioco di gambe, cuore e soprattutto cervello. Non voglio insegnare niente a nessuno, ma la corsa mi fa stare bene e nell’ultratrail ho scoperto il mio mondo. Fatto di gente semplice, di rapporti veri, di lacrime di rabbia e di gioia. Non ne uscirei per nulla al mondo”.

Runner's World