lunedì 11 aprile 2016

I RAGAZZI IRRESISTIBILI, QUARANT'ANNI DOPO



di Marco Tarozzi

“Noi vogliamo la Virtus tricolor”, cantarono i tifosi sugli spalti. Era una parola dimenticata da due decenni, “tricolore”. ma dopo il successo a Varese tronava più che mai attuale. C’era solo una sfida, quella con Udine, a separare i giganti della V nera dal trionfo. Non fu una formalità, all’inizio, ma col passare dei minuti le tensioni si sciolsero e accadde quello che doveva accadere. Quello per cui si era lavorato, lucidamente, per un’intera stagione.

Quarant’anni dopo. Era il 7 aprile 1976, quando la Virtus vinceva al palasport di piazza Azzarita la partita di poule-scudetto contro la Snaidero. Un netto 94-68 che assicurò alla truppa bianconera un vantaggio di 4 punti sulla Mobilgirgi Varese, battuta anch’essa nel turno precedente, a domicilio. Così, a una giornata dalla fine (mancava soltanto la sfida casalinga con Cantù, che sarebbe andata in scena l’11 aprile), la V nera si assicurò la matematica certezza di essere tornata sul trono della pallacanestro italiana.

La storia, che quasi sempre manda avanti i numeri a raccontare sé stessa, dice che quel 7 aprile lo scudetto diventò certezza. Ma non c’è dubbio che il momento più importante di quel girone finale fosse arrivato tre giorni prima, con la vittoria nell’inespugnabile Masnago contro la Mobilgirgi di Sandro Gamba, che aveva appena conquistato il titolo di campione d’Europa a Ginevra . Risultato finale, 82-75 per Terry Driscoll e soci, in quella partita destinata a entrare nella storia bianconera.

La Mobilgirgi aveva dominato la stagione regolare, forte della conferma di Morse, convinto dalla società a tornare dopo che nell’estate aveva già in pratica deciso di restarsene definitivamente negli States, e le certezze che un gruppo di italiani come Meneghin, Ossola, Iellini, Gualco, Bisson, Zanatta assicuravano. Ma nella poule-scudetto la cavalcata bianconera fu inarrestabile: tredici successi consecutivi, e il dodicesimo della serie fu quello pesantissimo di Varese, contro i freschi campioni d’Europa, che aprì la strada al trionfo.

Quattro giorni dopo il successo contro la Snaidero, la Virtus interruppe la serie, perdendo in casa l’ultima partita di poule-scudetto contro Cantù. Con la testa altrove, probabilmente: perché quella partita, ormai, non serviva ad altro che a far festa per uno scudetto ritrovato, vent’anni dopo il sesto, arrivato quando ancora si giocava in Sala Borsa. Questo era il settimo, ma anche il primo conquistato nel piccolo grande Madison di piazza Azzarita. La pallacanestro ritrovava la strada di Bologna, una delle sue piazze storiche. Destinata a scrivere altre grandi racconti di campioni ed emozioni.

L’impresa della V nera riuscì con Dan Peterson al timone. Il piccolo gigante di Evanston, che aveva stupito tutti al suo arrivo con quel “look” improbabile, la cadenza country, la chitarra pronta a suonare ballate folk che richiamavano Bob Dylan e Pete Seeger, trovò la perfetta quadratura del cerchio alla sua terza stagione bianconera: prima erano arrivate la Coppa Italia del ’74, massima espressione dell’epopea di “Kociss” John Fultz, la stagione ’75 del gioiello oxfordiano Tom McMillen, arrivato da pendolare dei canestri grazie ai buoni uffici del cugino John, assistente del coach bianconero. Ora, finalmente, era arrivato il momento dell’equilibrio, quello degno di una corsa tricolore. L’avevano portato Terry Driscoll, il bostoniano che aveva calcato i parquet della Nba a Detroit, Baltimora e Milwaukee, e in cabina di regìa Charlie Caglieris, approdato alla V nera dopo una stagione sull’altra sponda di quella che sarebbe diventata la Città dei Canestri, in casa Fortitudo. Era nata l’alchimia giusta, quella che ogni coach insegue e ricerca, in un gruppo che poteva contare sull’esperienza di Gigi Serafini e Gianni Bertolotti, il capitano, sulla carica di gioventù di Marco Bonamico, sulla tenacia di Massimo Antonelli, Aldo Tommasini, Piero Valenti, Mario Martini, sulla fedele applicazione quotidiana di Massimo Sacco.

Andò in crescendo dopo una partenza faticosa, quella squadra, chiudendo al terzo posto la stagione regolare. Fu perfetta nella poule finale che assegnava il tricolore, come detto con 13 successi consecutivi, culminati nella vera e propria impresa di Varese. Una stagione ad alta quota anche in Europa, dove la squadra di Peterson (coadiuvato dal vice John McMillen, tesserato anche come secondo straniero di Coppa) si fermò alle semifinali di Korac.

Era stato atteso, quello scudetto. Vent’anni esatti. Fu il coronamento della ricostruzione voluta da Gigi Porelli, che aveva affidato la presidenza a Fiero Gandolfi, scomparso nel maggio 2015, e siglato uno storico contratto di sponsorizzazione con Sinudyne, l’azienda di Ozzano Emilia di Bruno Berti e Antonio Longhi che sarebbe rimasta sulle maglie della Virtus per dieci lunghe stagioni, conquistando tre scudetti. Curiosamente, quell’anno sia Varese che Bologna avevano cambiato sponsor. La prima, lasciando l’abbinamento storico con Ignis e sposando Mobilgirgi, salì sul trono d’Europa ma dovette lasciare il tricolore nelle mani della seconda. Anche per Synudine, che portava i sogni televisivi, ancora in bianco e nero, nelle case degli italiani. E che in quell’aprile del 1976 sognò insieme alla Virtus e agli uomini che fecero l’impresa.

La squadra campione: Bertolotti (capitano), Antonelli, Bonamico, Caglieris, Driscoll, Martini, Sacco, Serafini, Tommasini, Valenti, Baraldi, Frabboni, Generali. Allenatore: Dan Peterson. Vice: John Mc Millen (anche straniero di Korac).

Realizzatori: Bertolotti 826 punti; Driscoll 662, Serafini 484, Antonelli 458, Caglieris 358, Bonamico 177, Valenti 57, Martini 56, Tommasini 43, Sacco 37.

Nella foto, la Sinudyne campione d’Italia 1975-1976.
In piedi da sinistra Marco Facchini (fisioterapista), Gianni Bertolotti, Aldo Tommasini, Gigi Serafini, Mario Martini, Terry Driscoll, Marco Bonamico, John McMillen (viceallenatore), Dan Peterson (allenatore). Accosciati da sinistra Giorgio Moro (preparatore atletico), Carlo Caglieris, Piero Valenti, Pietro Generali, Massimo Antonelli, Massimo Sacco, Stefano Frabboni.
 
(RenoNews, 10 aprile 2016)