lunedì 19 dicembre 2016

TOMBA: "IL GIORNO CHE FERMAI ANCHE SANREMO"




di Marco Tarozzi


Improvvisamente, scoprimmo di essere un popolo di innamorati dello sci. Magari senza conoscerne bene le regole, come Miguel Bosè e Milly Carlucci sul palco dell’Ariston, durante quell’edizione del Festival di Sanremo interrotta in diretta per mostrare a venti milioni di italiani, inchiodati davanti alla tv, quel ragazzo di pianura che la spiegava alla gente di montagna. In questi giorni votati ad Olimpia, ci è tornato in mente lui. Unico, irripetibile Alberto Tomba. E passi che quelle erano Olimpiadi invernali e queste sono estive, ma il concetto resta identico. “C’era un ragazzo”: aveva ventidue anni e veniva da uno scherzo di collinetta appena fuori San Lazzaro, Castel de’ Britti. Non aveva paura di niente e si mise al collo due medaglie d’oro indimenticabili.

Dunque, partiamo da quel Sanremo interrotto. Ne sapevano poco, i conduttori.
“Già. E ora, dissero, ci colleghiamo col Canada per il supergigante. Era slalom speciale, ma poco importa. Non è che ci fosse una cultura dello sci, allora. Nei bar si attaccavano alle televisioni capendone il giusto, ma c’era un italiano che vinceva ed era diverso dal solito, tanto gli bastava. Iniziarono anche a scommetterci su. Io mi sentivo un po’ solo contro tutti, in senso positivo, a vivere e raccontare questa storia. C’era il mondo intero a guardarmi. Mi piaceva”.

Calgary 1988, tanto per inquadrare il momento. 25 febbraio, il giorno della prima vittoria in gigante.
“Sono sincero, fu tutto molto più facile di quanto immaginassi. Ci arrivai con poco stress, ne avevo molto di più quattro anni dopo ad Albertville. Certo, avevo già alle spalle sette vittorie in Coppa del Mondo, aspettativa ce n’era, ma era comunque un debutto alle Olimpiadi e non avevo fatto un Mondiale, non dovevo dimostrare nulla a nessuno. Ricordo la quiete della vigilia, noi dello sci alpino eravamo lontani dal villaggio olimpico, dai media, anche se già avevo al seguito una tv privata che raccontava le mie gare. Vedevo le altre gare in tv, c’era molta tranquillità”.


La situazione ideale.

“Sì, io spero che anche a Rio i nostri ragazzi posano viverla così. Penso soprattutto ai bolognesi come Marco Orsi, Jessica Rossi, Sara Sgarzi e tutti gli altri. Tutto il contorno è bellissimo: le interviste, gli applausi, le feste a Casa Italia. Ma siamo noi atleti ad attaccarci il numero, e in quei momenti abbiamo bisogno di serenità. Non è facile. C’è tanta pressione, ci sono le aspettative di chi fa politica sportiva, degli addetti ai lavori, a confondere le idee. Sono cose naturali, ma quello che serve in quei momenti è sentirsi in pace. Io a Calgary ero già felice di esserci, figurarsi cosa ha voluto dire tornare a casa con due medaglie d’oro”.


Quando si dice che una vittoria cambia la vita.



“E’ così, in tutti i sensi. Ho avuto un rapporto di amore-odio con la mia vita sportiva. Vincere da giovane è fantastico, ma non sempre sei attrezzato per il dopo. Ti fidi delle persone, vai dietro ai consigli di qualcuno, tu sei stato un fenomeno nella tua disciplina ma fuori c’è il mondo, c’è anche chi vuole approfittare dei tuoi successi. Gestirsi a vent’anni è complicato. Dopo Calgary ho passato un anno tra una festa in mio onore e l’altra, un premio e l’altro. Papà mi diceva di non andare da tutte le parti, ma mica è semplice. Scherzavo con tutti, avevo questo comportamento guascone ma in realtà ero timido e introverso. C’è stato anche chi ha insistito per mostrare un Tomba diverso, da mettere a confronto con gli atleti della montagna. Spesso ne è uscita una persona che non ero io”.
Sembra di sentire anche una vena di nostalgia, mista a qualche rimpiant

“La dimostrazione di tutta quella pressione che sentivo addosso è che ho smesso presto. Ringrazio Dio per quello che mi ha dato, sono orgoglioso di quello che ho fatto, ma chissà, avrei potuto arrivare alle Olimpiadi di Torino, magari dedicandomi solo allo slalom, figurarsi che mi sento in forma anche oggi… Però a un certo punto quella pressione era diventata troppa”.


Se la ricorda, Bologna che urlava il suo nome allo stadio Dall’Ara dopo Calgary?



“Bei tempi, certo. C’era tanta gente entusiasta, in fondo era anche un altro mondo. Oggi mi sembra tutto cambiato, a cominciare dalla vita intorno. Violenza, casini, la natura che si ribella all’uomo. Oggi io ho a volte paura a volare dall’altra parte dell’oceano, se posso evito, non mi piace. Ho già fatto tanto, e poi mi sembra tutto meno genuino”.
Ha ricordato i bolognesi che gareggeranno a Rio. Se la sente di dar loro qualche consiglio?


“I giovani non hanno bisogno di pensare troppo, chi è al debutto vive un po’ a sensazione. Per un trentenne è diverso, nel mio caso da vecchi ci si affida alla tattica: conta la ricognizione di gara, conta fare attenzione ai passaggi chiave, a come “fregare” l’avversario, quando magari è stanco. Serve molta preparazione e anche qualcosa in più: l’occhio, la scaltrezza, l’esperienza. Ma in assoluto i ragazzi devono pensare al lavoro fatto, e se hanno la coscienza a posto possono andare tranquilli: puoi uscire sconfitto una, due, tre volte ma se hai lavorato bene prima o poi arriva anche il successo. Devono crederci, e tenere la testa sgombra”.

Parola di mito. Seguire le istruzioni.





NUOVO INFORMATORE - lug/ago 2016