martedì 22 dicembre 2015

CHICCO



Domani sera avremo l’ennesima dimostrazione di cosa significhi lasciare il segno. Restare nel cuore della gente, nonostante il tempo che scorre, e troppo spesso corre. Perché sono sedici anni che Chicco Ravaglia se ne è andato, in una notte assurda che doveva essere di festa e si trasformò in tragedia dopo quell’incontro maledetto col destino. Sedici anni, eppure Chicco è qui, nei nostri cuori e nei nostri pensieri, perché nei suoi ventitré splendidi anni di vita aveva saputo dispensare affetto, serenità, amicizia, passione, gioia, entusiasmo. E chi lo ha conosciuto, chi lo ha amato, chi lo ha semplicemente incrociato in quelle giornate di basket e di vita, si è tenuto dentro un po’ del suo sorriso.


Sedici anni dopo, il calendario ha messo insieme una partita che è ricordo e coincidenza: la sua Virtus contro Cantù, la sua ultima squadra, quella dell’ultima recita, e un luogo in cui, ancora una volta, Enrico aveva saputo conquistare l’affetto della gente. Domani sera sarà il 23 dicembre, e Chicco è volato via nella notte tra il 22 e il 23 dicembre, sedici anni fa.


Forse anche il destino, che gli fece lo scherzo più atroce, si sente in colpa e si muove per perpetrarne il ricordo, aggiungendo suggestione coi suoi incroci imprevedibili. Per scusarsi di quel Natale che Chicco non fece in tempo a festeggiare, di tutto il tempo rubato dopo, di tutto il vuoto a cui ha costretto chi gli voleva e ancora gli vuole bene.


Domani sera mamma Morena e papà Bob saranno alla Unipol Arena, vicini alla Virtus come sempre. E a loro andrà l’applauso e l’abbraccio di due tifoserie che nel suo nome, per un tempo breve che sembrerà infinito, lasceranno da parte la rivalità sportiva. I Forever Boys e gli Eagles si stringeranno intorno alla famiglia Ravaglia, come tutto il popolo bianconero, come tutta la Virtus, la casa sportiva dove era cresciuto e sbocciato. E insieme, ognuno a suo modo, urleranno il suo nome. Come un richiamo.



lunedì 21 dicembre 2015

LA SFIDA DI VALENTINA








di Marco Tarozzi


Questione di carattere. Perché c’è sempre una prima volta, e quella di Valentina Alberti con il pugilato è stata da dentro o fuori. Girare i tacchi e andarsene o farsi coinvolgere per sempre. Non è un ricordo sbiadito, basta andare indietro di appena cinque anni.
“Era il 2010, non facevo sport da un po’ e avevo preso qualche chilo. Ero arrivata a pesarne ottanta. In Bolognina, il mio quartiere, c’è la palestra Tranvieri che è un pezzo di storia dello sport cittadino. Sapevo che lì dentro si tirava di boxe, una disciplina che in qualche modo mi affascinava. Beh, per farla breve: entro e in questo ambiente non certo enorme e quindici ragazzi si voltano a fissarmi. Ho detto: bene, vado avanti. Chissà: ci fossero state una decina di ragazze pronte ad accogliermi con un sorriso, magari avrei salutato e sarei tornata a casa”.
E’ fatta così, Valentina. Ama le sfide. Altrimenti non si spiegherebbe la scelta di salire su un ring a sedici anni, una decisione talmente sua che per qualche tempo non ne ha messo al corrente nemmeno la famiglia.
“Mamma mi vedeva tornare con la borsa e pensava andassi a fare ginnastica. Prima di tutto l’ho detto a lei, quando sono stata certa di aver trovato la mia strada. Poi a papà, la cui idea di pugilato erano i film di Rocky, quelli dove ci si picchia “senza futuro” per quindici riprese, e dunque era spaventatissimo. Un po’ alla volta gli ho fatto capire che le cose stavano molto diversamente”.
Resta il fatto che passare da uno sport di squadra a una disciplina in cui sei davvero solo con i tuoi pensieri e le tue strategie, in mezzo al quadrato, è un bel cambio di visuale.
“Ho giocato a basket per dieci anni, prima in Fortitudo poi a Castel San Pietro. Bello, ma nel pugilato ho imparato a fare squadra molto più che tra i canestri. Sono fatta così. Non mi sento mai sola, in palestra. Lì quelli che hai intorno sono sempre dalla tua parte, e  tu ti batti anche per loro. Ogni vittoria è una vittoria di tutti”.
Soprattutto di quelli che hanno visto Valentina arrivare in palestra, e poi l’hanno aiutata a crescere e a diventare una delle migliori in Italia. Là, dentro alla mitica “Tranvieri”, qualcuno ha avuto la vista lunga.
“Devo dire grazie al maestro Sergio Rosa, che è un’istituzione per la boxe bolognese. E poi a Sergio Di Tullio, che mi ha allenata e un giorno, dopo il mio primo combattimento, mi ha detto “devi continuare, tu farai strada”. Aveva ragione”.
Poi Valentina ci ha messo del suo. Perché questo sport non fa regali, non offre scorciatoie. Devi allenarti, per arrivare. E sodo.
“Ho avuto fortuna. Oggi faccio parte dell’Esercito, e questo mi dà sicurezze in più per il futuro. Perché non è facile, con questi ritmi, andare avanti come uno vorrebbe fuori dal ring. La scuola, ad esempio: mi ero iscritta a Scienze Internazionali e diplomatiche, a Forlì, ma ora sono al Centro Nazionale Federale di Assisi quasi tutto il tempo, torno a Bologna due giorni al mese. E qui faccio anche tre sedute al giorno. Non è facile tenere tutto in equilibrio. Ma questa è la mia scelta, e il pugilato è uno sport che non ti regala niente, non prevede scorciatoie. se vuoi ottenere qualcosa, devi sacrificarti”.
Anche mentalmente. Perché la boxe è tattica, studio dell’avversario, concentrazione, capacità di interpretare il match e di trovarne la soluzione.
“E’ uno sport di situazione. C’è un momento in cui capisci come può finire, in cui devi essere capace di prendere in mano la situazione. Trovare il ritmo giusto, il colpo che lascia il segno anche su chi deve giudicarti a bordoring… Se non cogli l’attimo, è finita”.
Ancora otto, nove anni, assicura. C’è tempo per pensare anche alle Olimpiadi. Un sogno che neppure accarezzava, quel giorno in cui si affacciò alla Tranvieri. Cresciuto nel tempo, e oggi diventato forse qualcosa di più. Perché questa ragazza  ha la faccia decisa di chi vuole ancora progredire. E migliorare, a questo punto, significa assicurarsi un posto ai vertici.
“Sì, credo che se continuo a lavorare così un’Olimpiade potrebbe essere alla mia portata, in futuro. Teniamo conto che non sto parlando di Rio, dove la mia categoria, i superleggeri, non è prevista. Bisogna puntare a Tokio 2020, e a quel punto avrò ventisei anni, sarò nel pieno della maturità atletica. Devo, voglio provarci. Poi, se davvero Roma portasse a casa l’edizione del 2024, beh, allora dovrei combattere di sicuro fino a trent’anni…”
Va avanti così, Valentina Alberti. Un po’ di nostalgia per la sua città, che è stata una culla della “noble art”, così appassionata da costruire un palasport intorno alle imprese di Checco Cavicchi che trascinava le folle. Per la sua famiglia, che adesso ha capito che il pugilato non è la faccia sanguinante di Rocky Balboa. Pochi esempi da seguire, “perché a questa disciplina non sono arrivata vedendo incontri in tv, così mi ispiro semplicemente alle mie compagne di Nazionale, che hanno fatto la storia della boxe femminile in Italia”. E la voglia di non mollare, di non arretrare mai di un passo. La “cazzimma”, come si dice. Roba per pochi.
“Bisogna crederci, in questo sport. Se mi chiedi di descriverlo, mi basta usare tre parole. Testa, gambe, cuore. Con le prime due cresci tecnicamente, ma senza il cuore non diventerai mai vincente”.
("Ambiente", ottobre 2015)

martedì 3 novembre 2015

LE STORIE DEL TOURIST TROPHY, TRA RISCHIO E UMANITA’



“Vive chi rischia”, spiega il nuovo libro dello scrittore Mario Donnini
Intorno alle moto, un mondo di persone vere e di legami profondi

di Marco Tarozzi

C’è molta filosofia, e tutt’altro che spicciola, nel libro “Tourist Trophy, vive chi rischia”, ultima puntata di una saga che ormai conta quattro pubblicazioni e soprattutto vent’anni di frequentazione continua che Mario Donnini, giornalista e scrittore che lavora a Bologna nella redazione di AutoSprint senza dimenticare le sue radici umbre, ha dedicato, sta dedicando e dedicherà al circuito stradale più affascinante e più pericoloso che la storia del motociclismo mondiale conosca. Un circuito ultracentenario che nasce improvviso nei giorni delle gare, e per il resto dell’anno è fatto di comunissime strade, stradine, piccoli centri abitati di una piccola isola che ha un’anima irlandese e un carattere tutto suo, fatto di gente bonariamente gelosa della sua unicità. Isolani, appunto: diversi, e mai uguali l’uno all’altro.

Tutto si è detto, del Tourist Trophy. Del pericolo che incombe su quei sessanta chilometri di percorso tra muretti, pali della luce, boschi, marciapiedi vigliacchi, curve cieche, dossi improvvisi. Dai tempi in cui ci correva Giacomo Agostini, che su quelle strade vinse dieci volte salvo poi ispirare la campagna che portò il TT fuori dal calendario del campionato mondiale. Fu nel 1972, quando l’amico Gilberto Parlotti, lanciatissimo verso il titolo iridato della 125 venne a morirci, che Ago finì la sua corsa e disse basta. “Il TT, se voleva sopravvivere, doveva cambiare, diventare un evento a sé stante, una sfida alla quale si è liberi di partecipare o meno. E così andò”. Parola del più grande di tutti i tempi, semplicemente.

Così è andata. Il Mountain ha accusato il colpo, ha rischiato di scomparire, è rinato nel nuovo millennio con la forza delle persone che lo animano, uomini veri prima ancora che centauri. E ha continuato a pagare il suo tributo al destino, cosa che chi ben pensa ancora fatica ad accettare. Ma la chiave è questa: chi va, esercita il suo diritto ad essere libero. A sentirsi vivo. Come Robin Daykin, che nel 2011 a settantaquattro anni ha scelto di diventare il “debuttante” più anziano nella storia della corsa, portando con sé nell’avventura la moglie Annette. Uno schiaffo in faccia al cancro alla prostata che se lo sarebbe portato via qualche anno più tardi, un’impresa dai contorni di favola. Perché quell’anno Robin si qualificò per la gara, corse e fu meravigliosamente ultimo, con tutto il popolo del Mountain a fare il tifo per lui.

Sono queste le storie che Donnini predilige, e racconta nella sua meravigliosa saga sul TT. Raccontate la sera al pub da gente che ama i motori e la natura, la compagnia del prossimo e una buona pinta di birra. Piloti, commissari di percorso (i leggendari “marshall”), addetti ai lavori, proprietari di pub, cameriere. Tutti uniti, testimoni di una storia infinita che improvvisamente è diventata “trendy”, è tornata di moda, cosa che non cambia di una virgola l’atteggiamento dell’autore, che ha iniziato a collezionarle molto prima che il vento cambiasse.

“A stupirmi”, spiega Donnini, “è la produzione infinita e cangiante di storie, di vicende umane che si mescolano e trascendono quelle sportive, rendendo affascinante il trionfo del campione quanto l’anonima prestazione della comparsa, in un luogo e in un cimento che incoronano ognuno eroe e ciascuno personaggio”.

Così, in mezzo a questa “small town people”, a questa gente di villaggio amichevole ed ospitale, sfilano le vite di Guy Martin, magnifico perdente che senza nemmeno un successo alle spalle è diventato l’icona del Mountain, di Bruce Anstey che arrivò convinto che correre il TT fosse l’ultima gioia della vita e ancora si sta divertendo come a una festa di amici. Quella di Gary “Driver” Johnson, che non è mai stato a Londra perché “io corro in moto sull’isola di Man e non me ne fotte un cazzo di andare a Londra”. Quella di David Cretney, che in una terra così speciale da infilare tre gambe nella propria bandiera non poteva che diventare Minister of Fun, Ministro del Divertimento, e non per scherzo.

Alla fine, una tradizione lunga più di un secolo, le moto, l’odore di olio e carburante e il rumore dei motori diventano un pretesto per raccontare un mondo. Un piccolo mondo che diventa colorato, vivo, umanissimo quando le moto sbarcano sull’isola. E che ti resta appiccicato addosso, al punto da farti provare rispetto per qualunque scelta, anche le più buie e dolorose, perché sono un segnale di libertà. Che ci piaccia o no, che lo si capisca o no, il succo è semplicemente questo: vive chi rischia.

TOURIST TROPHY, VIVE CHI RISCHIA – Mario Donnini – Giorgio Nada Editori -240 pagine, 25 euro


martedì 15 settembre 2015

ADDIO A "POLDINO" TARTARINI, CHE ATTRAVERSO' IL MONDO IN DUCATI




Se ne è andato, all’età di ottantatrè anni, Leopoldo Tartarini. Un genio, un pioniere, uno che guardava sempre avanti. Poldino, per tutti quelli che come lui hanno addosso una passione unica per le moto, è stato uno dei migliori piloti italiani negli anni Cinquanta, quando le gare di lunga durata su strada come il Motogiro d’Italia esercitavano un fascino inimmaginabile sugli appassionati, quindi si era inventato un’avventura da “guinness dei primati”, viaggiando per un anno intorno al mondo insieme all’amico Giorgio Monetti, con un paio di Ducati 175, infine aveva dirottato la sua creatività nell’Italjet, l’azienda motociclistica fondata nel 1960 a Castel San Pietro, da cui sono usciti circa centocinquanta modelli, gran parte dei quali ispirati dal suo estro.

Poldino, nato nel 1932, aveva respirato motociclismo fin da ragazzo, osservando e poi contribuendo al lavoro di papà Egisto, meccanico, rivenditore e discreto pilota. Lui aveva iniziato con le serie minori, ma aveva il manico e ben presto era finito a libro paga delle principali scuderie italiane. Le gare di durata erano il suo pane: dopo il successo alla Milano-Taranto del 1952, con un telaio di sua progettazione, arrivarono quelli del 1953 e 1954 al Motogiro, in sella alla Benelli ufficiale. Diventato prima guida della Ducati nel 1955, al Motogiro dello stesso anno fu costretto a interrompere una carriera brillante a causa di un brutto incidente, mentre guidava la classifica di categoria in sella alla sua Marianna 100. Degenza lunga, e soprattutto la certezza di non poter più dare alla casa di Borgo Panigale l’apporto che avrebbe voluto.

Leopoldo Tartarini non era certo il tipo da vivacchiare sfruttando i vantaggi di un ottimo contratto (circa un milione e mezzo all’anno, dell’epoca). Non poteva stare con le mani in mano, e si inventò un’idea di marketing rivoluzionaria. Coinvolse l’amico Giorgio Monetti in quello che inizialmente avrebbe dovuto essere un viaggio da Bologna alla Turchia, per reclamizzare il marchio Ducati ad Oriente, e si trasformò invece in un’odissea lunga un anno intero, dal 25 settembre 1957 al 5 settembre 1958, attraverso cinque continenti e trentacinque nazioni. 60mila chilometri previsti, che poi diventarono sul percorso quasi 100mila, sulle strade di quasi sessant’anni fa, con due motori 175 che si rivelarono resistentissimi. Attraversando climi agli antipodi, guerre civili e un paio di rivoluzioni. Europa, Asia, Australia, Nuova Zelanda, il Sud America con la leggendaria Cordillera delle Ande, l’Africa da Dakar a Gibilterra. E una volta tornati in Italia, un ultimo sforzo viaggiando per la penisola, a ricevere l’applauso e l’ammirazione dei concessionari Ducati e della gente.

Tre anni dopo Tartarini, che gestiva col padre una concessionaria Ducati, decise di mettersi in proprio fondando l’Italemmezeta, che a partire dal 1967 sarebbe diventata l’Italjet, dal nome del suo primo ciclomotore di grande successo. Anticipando modelli e tempi, “Poldino” regalò alla sua azienda un lungo periodo di successi, spaziando dai ciclomotori alle maximoto. In tempi di globalizzazione, la creatura ha vissuto anni più recenti di sofferenza e il figlio di Leopoldo, Massimo, si è preso l’impegno di tenerla viva (“ultima piccola tra le grandi, ultima grande tra le piccole”, la definiva Poldino), mentre lui, l’imprenditore dalle idee geniali e dallo spirito d’avventura, si dedicava al suo studio di progettazione di prototipi, Tartajet. Ogni tanto, insieme all’amico Monetti, rinverdiva i fasti della grande impresa, soprattutto dopo che nel 2006 il giornalista e scrittore Giuliano Musi l’aveva riesumata e raccontata in un bel libro, “Il giro del mondo di Tartarini e Monetti su Ducati 175”, edito da Minerva Edizioni.

Se ne è andato un pezzo di storia del motociclismo italiano. Ma prima di andarsene ha lasciato un segno indelebile sul mondo che ha amato e vissuto.

RenoNews, 11 settembre 2015
 
 

giovedì 13 agosto 2015

LO CHIAMAVAN DONDOLO




 
Quattro stelle sono già salite in cielo. Consegnate alla leggenda, come quella stagione memorabile che regalò al Bologna il suo settimo e ultimo scudetto.
Harald Nielsen si ritroverà, lassù, con Giacomino Bulgarelli, il ragazzo che mai tradì la sua terra, a Helmut Haller, così diverso e così pieno di talento, di cui riuscì a diventare davvero amico soltanto dopo gli anni giocati, e proprio grazie a quel ricordo intenso che li univa. E a Carlo Furlanis, che se ne è andato due estati fa. Questi sono i pezzi pregiati che oggi ci mancano, ma che ci restano perché insieme agli altri ragazzi in rossoblù realizzarono un sogno mai più rivissuto. Sono lì, accanto a Fulvio Bernardini, il Dottore, che li guidò, e a Renato Dall’Ara che non potè neppure godersi quella gioia, e la cui scomparsa segnò l’inizio della fine di un ciclo.

Era stato lui, il presidentissimo, a volere con tutte le forze il “giovane Aroldo”. Così come aveva rincorso e conquistato il talento di Haller. Una storia da ricordare.

In Danimarca, Dall’Ara aveva consiglieri d’eccezione in Jensen e Pilmark, mai dimentichi dei loro anni in rossoblù. Furono loro a segnalargli un centravanti di nome Harald Nielsen. Giocatore molto ben messo fisicamente, con una tecnica calcistica decisamente migliorabile, ma dotato di una predisposizione unica per il gol. Se occorre uno che sappia trovare la via della rete, gli assicurarono, quello è l’uomo giusto.

Dall’Ara non perse tempo e acquistò subito il cartellino prima che la fama del giocatore raggiungesse i grandi club fuori dalla Danimarca.

Così quando Nielsen, centravanti della Nazionale danese che alle Olimpiadi di Roma conquistò la medaglia d’argento, si rivelò sulla platea internazionale, i giochi erano ormai fatti.
Nielsen era già un idolo in Danimarca, un campione affermato: aveva debuttato in Nazionale a diciotto anni, era stato più volte capocannoniere in B e in A. Ed era anche un sex symbol, tanto da aver recitato parti importanti in pellicole in cui ruoli basilari erano affidati alla sua futura moglie. Proveniva da una famiglia benestante, con interessi commerciali a livello non solo nazionale, e vantava una cultura universitaria. Era un ottimo promotore di sé stesso.

Con lui Dall’Ara impostò la trattativa su un piano prettamente commerciale. Capì al volo che Nielsen cullava il sogno di  affermarsi come calciatore a livello europeo e che l’aspetto economico non era la discriminante assoluta. Puntò sulla ribalta che il Bologna poteva assicurargli. Nielsen aveva le idee chiare, e non tirò la corda. In seguito, si sarebbe rivelato uno degli ossi più duri nelle famose trattative del presidente con i suoi giocatori.
Per i bolognesi, dopo i nickname provvisori (“al danàis”, Haroldo), Nielsen diventò presto “Dondolo”, per quel modo di caracollare nell’aria avversaria e di  lavorare palloni molto  tagliati.

Haller, il regista, una specie di brasiliano di Germania. Nielsen, opportunista, gran segugio del gol. Troppo diversi per legare tra loro, fuori dal campo. Lo stesso Helmut avrebbe ricordato così quel rapporto delicato. “Io e Harald avevamo caratteri diversi. Questo l'hanno capito tutti, direi. Ma in campo ci rispettavamo e ci capivamo al volo, questo è certo… Giocavamo un football formidabile, tecnicamente eccezionale. Ma non ricominciate con quella storia. Io Nielsen non l'ho mai odiato”.

Certo, Helmut parlava parecchio, era un tedesco dall’animo latino, e a volte si lasciava scappare con la stampa qualche commento che il compagno non gradiva. L’altro, si sa, leggeva libri in ritiro invece di giocare a carte. All’epoca, i calciatori che si estraniavano nelle letture erano roba “pericolosa”. Chi sta in disparte non fa gruppo, era il concetto di fondo. “Dondolo” ci ragionava sopra, serafico. “Dite che non parlo tanto? Quante volte ho detto no a un’intervista, a una chiacchierata? Certo, ho le mie abitudini e non ho un carattere latino, ma chi pensa che sia un solitario ha sbagliato di grosso”.

La situazione si sarebbe poi acutizzata dopo lo scudetto, e non a caso dopo la morte di Dall’Ara, che teneva unito quel gruppo e sapeva far convivere personalità diverse. Quel Bologna fu il suo ultimo capolavoro, Haller e Nielsen erano pietre preziose per renderlo unico.

A suo modo, caracollando fino a diventare appunto “Dondolo”, talvolta estraniandosi per lunghi tratti di partita, Nielsen seppe entrare nel cuore dei bolognesi. A suon di gol. Dopo gli otto della prima stagione rossoblù, 1961-62, in sole sedici partite, costretto da una lunga quarantena per lasciare spazio a Vinicio, arrivarono due annate da capocannoniere del torneo: 19 reti nel 1962-63, 21 in quel ’63-64 che riportò lo scudetto a Bologna. Con l’aggiunta di quella che chiuse definitivamente il discorso nello spareggio contro l’Inter, all’Olimpico di Roma. 2-0 a sei minuti dalla fine, firmato da “Dondolo”. Bologna campione d’Italia. Per Dall’Ara, per la gloria. Nella storia.

Dopo, appunto, il giocattolo si ruppe. E anche la schiena di Nielsen iniziò a cigolare, mentre con l’addio di Bernardini e l’arrivo di Carniglia, dopo la breve parentesi di Scopigno, la sua posizione in squadra diventò scomoda. Seguì un breve tramonto con le maglie di Inter, Napoli e Sampdoria, e un ritiro precoce, a ventotto anni, che gli avrebbe aperto la strada lontano dai campi di calcio, da imprenditore intelligente e di successo. Con’era prevedibile.

Ma “Dondolo” non avrebbe mai più scordato quelle sei stagioni rossoblù. Lo scudetto, gli 82 gol in 152 presenze in campionato, i 19 segnati sulle strade d’Europa che allora il Bologna percorreva. Non aveva mai dimenticato la storia, perché lui, Harald Nielsen, era un pezzo di quella storia.
 
(RenoNews, 12 agosto 2015)