venerdì 12 dicembre 2014

FULTZ, "VARESE LA MIA PRIMA ITALIA, BOLOGNA L'AMORE PER SEMPRE"



Gli anni di Kociss: “Quando Nikolic venne a prendermi in America
E Porelli mi disse: “Esci con me, così so dove sei di sera”

di Marco Tarozzi


La sua prima volta in Italia lo portò dritto a Varese. E fu subito grande basket, per John Fultz, in quella Ignis che aveva appena vinto il campionato italiano, la Coppa Italia e soprattutto la sua prima Coppa dei Campioni. Era l’estate del 1970. Lui usciva da anni felici alla Rhode Island University, dalle tre grandi sfide, veri e propri derby d’oltreoceano, con UMass di Julius Erving, da una preseason giocata con la canotta dei Lakers insieme a Jim Mc Millian e Jim Cleamons, dalle sfide con Calvin Murphy sfociate in una profonda amicizia. Era un’America da leggenda, ma John ne uscì per venire in Italia.

“Da Rhode Island ero uscito come quinto realizzatore all-time della franchigia, con una fama di buon rimbalzista e una media di oltre venti punti a partita, ma all’università avevo giocato soprattutto nel ruolo di centro, nonostante l’altezza, e l’idea che potessi sfondare nella Nba come ala piccola era lontana dalla mente di chi doveva farmi un contratto. Alla fine di quella rassegna estiva mi convocò Fred Shaus, general manager dei Lakers, insieme a coach Mullaney. Mi offrirono un contratto minimo, non garantito. Avrei dovuto essere felice di giocare in una squadra così blasonata, ma la cosa non mi andò giù. In quello stato d’animo, andai a giocare il North South All Star Game di New York, una vetrina per i migliori prospetti usciti dall’università. Quella sera giocai in squadra con Mel Davis, Calvin Murphy, Claude English, segnai 34 punti e fui eletto “mvp” dell’incontro. Dopo la gara, negli spogliatoi trovai ad attendermi un certo Asa Nikolic”.

Che all’epoca era il coach della mitica Ignis Varese, e le propose di trasferirsi in Italia.

“Mentii dicendo che non sapevo che in Italia si giocasse a basket. In realtà sapevo che gente come Bradley e Chubin, che erano stati miei idoli, avevano giocato a Milano. Ed in effetti quella di Milano fu la mia prima pista d’atterraggio. Finii poco lontano. Ma in un ruolo insolito, quello di straniero di coppa. Si trattava di veder giocare i compagni in campionato e farmi trovare pronto per le partite europee. Non semplice, per uno come me. Ma trovai una squadra fortissima. Con Manuel Raga legai subito, eravamo anche compagni di stanza. E poi c’erano Dino Meneghin, che subito iniziò a chiamarmi “Gianni”, “Capitan Uncino” Flaborea, Ossola, Rusconi, Bulgheroni. Fu una bella annata, arrivammo ancora una volta alla finale di Coppa Campioni e la perdemmo contro l’Armata Rossa di Belov. I miei compagni pagarono con la stanchezza la partita che avevano appena disputato con la Simmenthal, un vero e proprio “spareggio” di campionato. Finì 67-53 per loro, ne misi 22 con 11 rimbalzi, ma non bastò”.

Da lì in avanti, la sua storia italiana si chiama Virtus.

“Il primo incontro fu con Achille Canna, al Jolly Hotel. Fu lui a portarmi dritto dall’avvocato Porelli. Ci mettemmo un attimo a trovare l’accordo. Io volevo giocare con continuità, lui mi propose un ottimo contratto e non ci pensai due volte. Porelli era unico. Mi ricordo che ci fu un periodo, quando gli dissero che facevo un po’ tardi la notte, che per “controllarmi” meglio mi portava fuori lui stesso. “Così ti tengo d’occhio”, mi diceva. Insomma, di lì a poco nacque qualcosa che andava oltre il rapporto di lavoro. Nacque il mio amore per Bologna”.



Molti sono ancora convinti che la rinascita della pallacanestro in città, e le origini di Basket City, siano passate dalle mani e dai punti di due campioni d’oltreoceano: lei e il “Barone”, Gary Schull.

“In qualche modo è la verità. Quando arrivai a Bologna, nel 1971, la Virtus aveva perso un po’ del suo smalto. A palazzo c’era una media di duemila persone. Poi arrivarono quei derby, quelle sfide tra me e Gary che esaltavano i tifosi. E già alla fine della prima stagione si faceva il tutto esaurito. Gary era speciale, un altro che come me amava il basket passionalmente. In campo, non ce n’era per nessuno. Ci siamo divertiti, sono stati anni magici, certamente i migliori della mia carriera di giocatore, In Virtus trovai quell’America che non avevo potuto raggiungere a casa mia, anche se fu soprattutto colpa mia”.

In particolare quando i Lakers le offrirono la seconda opportunità, richiamandola negli States per un provino. Che fallì per motivi extracestistici…

“Fu proprio dopo la prima stagione a Bologna. In campo feci molto bene, ma la sciocchezza la commisi fuori. Comportamenti non ortodossi, diciamo così. Mi controllavano, si accorsero di tutto e mi fecero capire che non era il caso. Tornai in Virtus. Ma fu una specie di liberazione. A distanza di tanti anni, posso dire che forse inconsciamente non vedevo l’ora di mollare tutto e tornare a Bologna”.

Qui lei era un idolo, dentro e fuori dal campo.

“La mia casa era un porto di mare. Se qualcuno aveva bisogno, io c’ero. Iniziai a credere nei valori di pace e condivisione, facevo esperienze alternative. Ancora oggi mi considero un uomo non violento e propositivo, e non rinnego quei tempi, anche se so bene che avrei potuto vivere diversamente il mio percorso di atleta, sfruttare meglio il talento che mi era stato donato. Ci ho scritto un libro, su questa esperienza, ho raccontato tutto con sincerità perché penso che nascondere gli errori non sia il modo giusto per educare. I ragazzi sentono quando menti, con loro bisogna essere chiari, sinceri fino in fondo”.

Tre anni in bianconero e il primo trofeo da alzare al cielo dopo anni di astinenza.

“Vincemmo la Coppa Italia nel ’73-74, battendo in finale la Snaidero. Fu la mia stagione migliore alla Virtus, e mi convinsi che sarei rimasto a Bologna ancora a lungo. Ormai la consideravo la mia città. E la squadra era in crescita. Avevo iniziato con ragazzi che si chiamavano Bertolotti, Ferracini, Serafini, Antonelli, e io stesso avevo ventitré anni quando ero sbarcato in Italia. Sono certo che avremmo raggiunto insieme altri traguardi importanti. Ma un giorno coach Dan Peterson, a cui devo tanto per la mia crescita di giocatore e con cui c’è sempre stato un rapporto chiaro e diretto, mi spiegò bene la situazione. Disse che avrebbe voluto assolutamente confermarmi, ma anche che si era aperta questa incredibile possibilità di arrivare a Tom McMillen. Se non arriva, mi disse con sincerità, resti tu al cento per cento. Ma Tom arrivò, e la mia esperienza a Bologna si chiuse lì”.

Si è mai chiesto perché tanti tifosi, qui a Bologna, non hanno mai più dimenticato “Kociss”?

“Perché credo di aver fatto qualcosa di buono, e di averli fatti divertire e sognare, a modo mio.  Giocando un basket brillante. Qui sono rimasti tanti legami e amicizie, e sono i valori più importanti, per come la vedo io”.

Ha visto la nuova Virtus in azione? Le piace?

“La seguo, certo, e ho visto diverse cose in video. E’ una squadra giovane, con una gran voglia di fare bene. Credo possa crescere tantissimo. E coach Valli ha potuto forgiarla dall’inizio, questo non è un particolare secondario. Mettere la propria impronta su quello che si fa, per un tecnico, è determinante. Mi piace da impazzire Simone Fontecchio. Sono certo che diventerà un grande, perché fare quello che ha fatto a Pistoia e soprattutto contro Avellino, dove usciva da una partita complicata, ad appena diciannove anni è segno di grande temperamento e sicurezza”.

Gianmarco Pozzecco allenatore, sull’altra sponda. Che effetto le fa?

“Non lo scopro io, ha già dimostrato, soprattutto in Sicilia, di poter fare quel mestiere. Lui è genuino, immediato, e credo che ai giocatori possa trasmettere passioni ed emozioni, che servono tanto a consolidare un gruppo e a raggiungere gli obiettivi. Poi mi è simpatico, è istrionico e spettacolare, e la pallacanestro per me ha bisogno anche di questo per farsi amare da sempre più persone”.



(www.virtus.it)
(foto tratte da “Mi chiamavano Kociss”, John Fultz, Minerva Edizioni)