venerdì 6 marzo 2020

VADO, PRENDO L'AMERICA E TORNO



di Marco Tarozzi

Ancora una volta, Bologna viaggia ad alta quota nella storia e nella cronaca del baseball italiano. Ancora una volta la Fortitudo gioca per l’albo d’oro e per il titolo. Allora, vale la pena ricordare le origini di questa passione, e i campioni veri che l’hanno alimentata.
Ricordate Nando Mericoni, il personaggio caratterizzato meravigliosamente da Alberto Sordi, con la sua ossessione per l’America, e quella volontà ferrea crollata davanti a un piatto di pasta preparata dalla mamma? Beh, a Bologna, a metà degli anni Sessanta, c’era un ragazzo che con mazza e guantone se la cavava talmente bene da scomodarli lui, gli americani.
Non aveva ancora diciannove anni, Alberto Rinaldi, e giocava già da quattro, quando arrivò la chiamata dei Cincinnati Reds, che gli apriva le porte del sacro mondo del baseball. Ed erano altri tempi, in cui l’America non era esattamente a portata di mano, ed era più facile sognarla.

LA GRINTA DI “TORO” - Andiamo con ordine. Il viaggio comincia su un campo di periferia, con un salto indietro nel tempo. Fine anni Cinquanta, per capirci. Alberto abita fuori porta Lame, alla Pescarola, praticamente campagna. Di fronte a casa sua, la caserma delle Fiamme Oro, che hanno la squadra di baseball e reclutano per il servizio di leva i migliori atleti d'Italia. A sei anni quel ragazzino è già diventato la loro mascotte. Lo chiamano “Torino”, e crescendo con l’età diventerà naturalmente “Toro”. Gli basta attraversare il cortile ed è in campo. Gioca coi grandi, mai con i ragazzi della sua età. Fa il tappabuchi di tutte le squadre, in tutti i ruoli. Interno, seconda base, terza base, i posti in cui la palla corre velocissima. Impara a non avere paura, in cortile gioca con i sassi. Impara da tutti, e da solo. A sedici anni approda in Serie A, quasi senza accorgersene. Appena poco tempo dopo, in Nazionale.

Ma nel destino di Toro Rinaldi c'è qualcosa di più grande. Un'avventura da pioniere, nella terra dei maestri. Dici baseball, dici America. Un talent-scout lo nota in Germania, a Ramstein, durante un raduno. Lo porta negli States in tempi in cui l'America è andare in Piazzola a cercare guantoni usati, niente di più. Non ci sono riviste specializzate, o videocassette per capire il gioco e i suoi campioni. Fare quel viaggio è un po’ come andare sulla luna. Ma Toro ci mette la spregiudicatezza e l’entusiasmo dei diciott’anni. Forse anche un po’ d'incoscienza.


LA SCOPERTA DELL’AMERICA - Accompagnato da Giulio Glorioso, lanciatore in Italia già mito a quell'epoca, Alberto arriva a Tampa, per lo springtraining dei Cincinnati Reds. Subito allenamento duro, tre ore al mattino e altrettante nel pomeriggio. Un altro mondo: gioco più veloce, prendi e vai, bisogna abituarsi in fretta. La nostalgia di casa? Non c’è nemmeno il tempo, per pensare a casa. Qualche lettera ogni tanto e passa la paura. Se mai c’è stata.
Toro Rinaldi ci passa un’intera stagione, negli Usa. E  quando torna in Italia è un altro. Un campione completo. Negli States gli hanno insegnato a battere, nella prima stagione dopo il ritorno vince la classifica dei fuori campo nel campionato italiano. Tre anni a Parma, ma nel destino c'è Bologna, la sua Bologna. E la Fortitudo, dove ci sono tutti gli amici. Arriva nel 1969, vince subito lo scudetto.
“Dove c'erano tutti i miei amici. Non dico che vincemmo per merito mio, ma certamente qualcosa cambiò nella mentalità. Fin lì, la squadra si era sempre piazzata a metà classifica. Si vinceva, si perdeva, e il mondo non cambiava. A me non stava bene. Per me vincere era la normalità, perdere mi faceva soffrire. Lo so che ci sono altre priorità, che la vita è un'altra cosa. E infatti fuori dal diamante sono una persona che si diverte, che sdrammatizza. Ma in campo ero così, c'è poco da fare”.
Questione di mentalità. E se riesci a trasmetterla a un gruppo, il gioco è fatto. Quattro scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa Italia. La bacheca si riempie, la Fortitudo diventa una seconda casa per Toro. Ci giocherà fino al 1981, continuerà da vice allenatore di Vic Luciani fino al 1985, tornerà da capoallenatore negli anni Novanta. E nel 2002 rinuncerà ad allenare Rimini perché l’idea di arrivare ai playoff e trovarsi di fronte alla sua Fortitudo lo fa dannatamente soffrire. Anche perché, il 14 luglio del 2000, la Fortitudo ha consegnato Toro Rinaldi alla storia. Ritirando per sempre la casacca con il numero 20. Il suo numero.

UN AMICO SPECIALE - Quel 14 luglio, la sera della festa, sugli spalti a festeggiare Toro, in mezzo alla Bologna innamorata del baseball, c’è un amico speciale. Si chiama Giacomo Bulgarelli. Si sono conosciuti quando l’onorevole Giacomino era la stella del Bologna, e Toro della fantastica Montenegro. Sono amici da allora, le famiglie si frequentano, vacanze e serate vissute insieme, parlando di sport e di vita. Perché poi, prima di giocare a pallone, anche Giacomo aveva corso sul diamante. Prima base, a Casalecchio.
Da quando Giacomo se ne è andato, Alberto ha un sogno ricorrente. Ce lo ha raccontato così: lui cammina solitario sotto i portici di via Galliera, e a un certo punto da una specie di rimessa si affaccia l’amico che non c’è più. “Non ti preoccupare, Toro”, gli dice. “Io sono qui e sto bene, dì a tutti che non siano tristi per me. Me la passo…”. Nei primi mesi dell’assenza, il sogno arrivava regolare, quasi ogni notte. Ora forse succede un po’ più di rado. Ma l’amicizia, quella vera, che va anche oltre l’assenza, non si cancella mai. Si erano capiti subito, Toro e Giacomo. Perché avevano la stessa passione per le cose che facevano, e un talento da coltivare. Niente potrà cancellarli, quei momenti vissuti insieme. Nemmeno il destino, che ha spento una leggenda lasciandone un’altra a ricordare. Da sola. Come ai tempi di quel cortile alla Pescarola.

Più Stadio, dicembre 2019