domenica 30 maggio 2010

L'importanza di chiamarsi Gus


Augusto Binelli, il 30 giugno si avvicina. Pensa già a quando salirà la scaletta del PalaDozza per l’ultima volta?
«Ultimamente mi succede sempre più spesso. Non so dire quello che proverò. Certo, sarà una serata molto emozionante. Ma anche malinconica, come succede quando arriva il momento degli addii. Sarà il mio atto finale da giocatore, potete capirmi».
Nessuno dei suoi ex compagni vuole mancare alla partita d’addio di Gus. Lei ha molti amici, significa che ha lasciato il segno.
«Ci ho provato. Le risposte che ho avuto da gennaio, quando l’idea di quest’ultima recita si è fatta concreta, mi hanno davvero commosso. Senza contare gli amici che stanno lavorando per mettere in piedi la serata. Devo dire grazie a tanta gente».
Sa una cosa? Noi un Binelli che appende la canotta al chiodo non riusciamo a immaginarlo.
«Ma infatti non smetterò mai definitivamente. Continuerò a saltare in mezzo a un parquet con gli amici, questo è certo. Ora, poi, ho questa bella occasione con gli Over 45 di Alberto Bucci. Un anno fa, a Praga, abbiamo vinto il Mondiale. Ma è stato bello soprattutto ritrovarsi dopo una vita tra i canestri. Ho riallacciato rapporti anche con vecchi compagni delle juniores».
Vede? Senza palestra non sa stare.
«Lo so bene. E quando non ci vado direttamente devo accompagnare i miei figli. Le palestre di Bologna ormai le conosco tutte a memoria. E aggiungo che vorrei continuare a respirare quell’ambiente. Non più da giocatore, dopo il 30 giugno».
Da allenatore.
«Sì. Dopo il corso da tecnico di minibasket ho lavorato a Castel Maggiore, poi con i bimbi di otto anni a Budrio. Con buone risposte. A luglio seguirò il corso nazionale di Bormio. E poi vedremo se sono tagliato, se ho la stoffa».
Per insegnare la pallacanestro ai giovani?
«È un’idea che mi piace moltissimo. Come mi piacerebbe trovare una società di categoria per iniziare un percorso, magari da secondo. L’entusiasmo è tanto, e senza il basket mi sentirei perso».
Lei lo ha vissuto da protagonista per quasi trent’anni. Ha visto passare generazioni, lo ha visto cambiare. In che modo?
«In quanto a spettacolo, è stato un miglioramento. Oggi in campo vedi gesti atletici che vent’anni fa erano inimmaginabili. Al contrario, secondo me la tecnica ha fatto passi indietro. Certi lunghi alla McHale, per capirci, non li vedi più. Oggi si pensa molto di più allo show, e forse anni e anni in cui i nostri ragazzi si sono abbeverati al basket Nba hanno influito. Anche se oggi neppure in America i talenti spuntano come funghi...»
Lei laggiù avrebbe potuto giocarci, e in ben altri tempi.
«La storia degli Hawks, certo. Mi fregò il regolamento. Se andavi là e dopo un anno ti rimandavano indietro, dovevi rientrare in Europa con uno status da “straniero”. Io ero seconda scelta, mi offrivano un contratto annuale. Dissi: se mi fate un triennale, firmo subito. Non rilanciarono e tornai a casa. Ma se il regolamento fosse quello di oggi, sarei rimasto là senza pensarci due volte».
Walter Magnifico ricorda ancora quell’incontro con Mike Fratello in una stanza d’albergo: c’era già pronta una canotta col numero 11 per lei. Per lui niente, e ci restò un po’ male...
«Ce l’ho ancora, quella maglia. È rimasta lì, come certi sogni...»
Un rammarico?
«No, questo no. Una scelta mia. Ho voltato pagina un attimo dopo».
Del resto, con la Virtus di soddisfazioni se ne è tolte.
«Direi proprio di sì. Come potrei lamentarmi?»
La più intensa?
«Barcellona, la Coppa dei Campioni del ‘98. La prima della storia bianconera. Alzarla da capitano è stato il momento più bello della mia carriera. Ma ne ho tante, di emozioni che riaffiorano».
Qualche esempio.
«Il primo scudetto, quello della stella nell’84, anche se vissuto da panchinaro. E il primo vero, da titolare, nove anni dopo».
Avversari scomodi, in questa vita sotto i tabelloni?
«D’istinto dico Joe Barry Carroll, Roosevelt Bouie, spigolosissimo. E Sabonis, che con la Nazionale ho trovato sulla mia strada fin dai tempi in cui ero cadetto».
Compagni con cui ha legato?
«Direi soprattutto Coldebella, Frosini, Wennington, Sasha Danilovic. Ma io non ho mai avuto problemi, con nessuno».
Non dica che la Virtus è sempre stata un’isola felice.
«Se qualcosa non funzionava, si discuteva e ci si chiariva fuori dal campo. Dentro, tutti a remare nella stessa direzione».
Nemmeno tra i tecnici ha preferenze?
«Ho imparato da tutti. Da Messina come da Bucci, da Gamba in Nazionale, dallo stesso Bob Hill, che restò un anno a Bologna ma mi aiutò tantissimo. Senza dimenticare Bob McKillop, coach alla Lutheran High School di Brookville, o Michelini nelle giovanili bianconere».
Pensi a qualcuno che l’ha aiutata a diventare Gus.
«Se guardo indietro, parecchio, dico Fiorani, un mio allenatore a Carrara. Finita la terza media volevo andare subito a lavorare. Lui mi convinse a continuare con lo studio e con il basket. Un anno dopo mi comprò la Virtus».
Che idea, se la V nera ritirasse la canotta di Binelli...
«Non tocca certo a me dirlo».
Ultima recita al PalaDozza. Giusto che succeda lì, non è vero?
«È il posto dove tutto è iniziato, qui a Bologna. Dove sono diventato un giocatore della Virtus, dove mi sono fatto conoscere. Sì, è lì che devo dire basta».

L'Informazione di Bologna, 28 maggio

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