martedì 26 gennaio 2016

CHIAVI IN TASCA, CUSTODE DI UN MITO




di Marco Tarozzi

Nelle sue tasche c’erano le chiavi del palazzo. Del PalaDozza, quando ancora non si chiamava così e lo definivano, semplicemente e a ragione, il “piccolo Madison”. E le tasche erano quelle del grembiule nero, che gli davano quell’aspetto austero sotto cui batteva un cuore pieno di passione, generoso, unico. Per la pallacanestro, per il suo mestiere, per quel piccolo mondo antico che l’avvocato Porelli gli aveva affidato, e che lui custodiva con cura, e coltivava, e aiutava a crescere.

Amato era molto più che “il custode del palazzo”. Se quello era il piccolo, grande regno di una città avviata a diventare BasketCity, lui ne era il re silenzioso e pieno di premure. Li aveva visti passare tutti, campioni e non. Erano i suoi ragazzi. Aveva una passione per la Virtus, ma non la confessò se non nel momento del “buen retiro” a Mongardino, perché aveva saputo farsi voler bene, si era guadagnato rispetto e amicizia, anche sull’altra sponda, tra la gente dell’Aquila. Così deve essere, tra chi vive di sport. E l’amicizia e il rispetto, quelli veri, sono tesori preziosi. Amato lo sapeva, per tutta la vita se li era tenuti stretti.

Aveva inventato la serata magica, nel regno di piazza Azzarita. Illuminandolo a giorno in quella notte incantata, mentre la metà bianconera del tifo bolognese aspettava i reduci da Milano che stavano tornando a casa tenendo stretta in pugno la Stella, dopo aver conquistato in fondo a una serie imprevedibile ed irripetibile lo scudetto numero dieci nella storia virtussina. L’Avvocato era con la squadra, naturalmente, e la responsabilità di accendere tutte le luci del palazzo se la prese lui, Amato, piccolo sovrano taciturno che seppe fare la cosa giusta al momento giusto. Illuminò la storia, e nessuno, poi, se lo sarebbe mai più dimenticato.

Da piazza Azzarita emigrò anni dopo a Casalecchio, un mondo nuovo dove fece in tempo a testimoniare gli anni felici, l’età dell’oro di una Bologna che si era messa in testa di diventare regina d’Europa, ancora più che d’Italia. Sempre tenendo a mente quei tempi eroici da cui tutto era iniziato. Mai dimenticando la guida dell’Avvocato, che quando occorreva gli chiedeva un parere, perché Amato negli anni si era guadagnato questo lusso di pochi: poter dire la sua, quasi sempre con poche parole, perché gli bastavano a definire la situazione mettendola nero su bianco.

Ha visto il grande basket e la grande musica, in piazza Azzarita. Ci passarono i Rolling Stones, gli Who, Miles Davis, Jimi Hendrix, Elton John. Ha visto i campioni di tanti sport che quella bomboniera la sceglievano per le loro esibizioni speciali. E lui, Amato, teneva in tasca le chiavi. E quando le leggende se ne andavano, spegneva le luci e chiudeva le porte. Mito tra i miti, per sempre.


 

IL BOMBER ADESSO SOGNA RIO



Marco Orsi, campione d’Europa dei 100 stile, sogna la seconda Olimpiade. E uno sport più pulito
di Marco Tarozzi

Il Bomber non dimentica. Nemmeno da campione d’Europa. E’ un ragazzo legato alle radici e alle origini, Marco Orsi. Un gigante buono nato nella Bassa, cresciuto a pane, piscina e giusti valori, trasmessi con attenzione e affetto da mamma Mara e papà Rino a lui e alle amatissime gemelle Monia e Silvia. Il suo mondo, piccolo, colorato e infinitamente grande.
Così, raccontando dell’oro conquistato prima di Natale in Israele nei 100 stile libero, agli Europei di nuoto in vasca corta, primo titolo individuale di spessore in una carriera già costellata di successi di squadra e di medaglie “pesanti”, Marco non dimentica gli inizii, e quelle stagioni di crescita così vicine al nostro mondo...

“A sei anni iniziai a Budrio, dove abitavo, ma presto arrivai al Record Nuoto Club. Mi ci portò Andrea Luppi. Allora la società era gestita dal Circolo Dozza, ricordo bene quell’ambiente e le mie prime soddisfazioni, uno stimolo a crescere e a seguire la strada del nuoto. Sono stati anni belli e importanti, prima di approdare al CN Uisp, dove mi sono messo in luce a livello nazionale, e alle Fiamme Oro”.

Con questi colori, e sotto la guida di Roberto Odaldi, il campione bolognese ha raggiunto la maturità agonistica, e colto il successo individuale più brillante di una carriera da quasi veterano, nonostante i venticinque anni d’età.

“Devo dire che è stato un Europeo in crescendo, ma non esattamente come speravo. Puntavo molto sui 50 stile, e lì alla fine sono arrivato secondo. Ma in quella gara deve andarti bene tutto, dalla partenza alla virata, è una prova molto tecnica. Invece ho sbagliato parecchie cose, in finale io e il russo Sedov siamo arrivati praticamente insieme. E’ andata bene a lui, per cinque centesimi. Ai 48 metri mi sono detto “è fatta”, invece ho fatto male i conti. Ma è stata una sconfitta utile, mi è servita per affrontare i 100 stile nel modo giusto. E lì è arrivato il titolo europeo, la mia prima medaglia d’oro individuale a questo livello. Certo, mancava il francese Manadou, il campione olimpico. Ma come si dice: hanno torto gli assenti, giusto?

Nemmeno il tempo di festeggiare il successo, e le altre quattro medaglie continentali (oro anche nella 4x50 mista e nella 4x0 stile mista, argento nei 50 stile e nella 4x50 stile) e subito il campione ha volato verso Indianapolis, per partecipare ad un meeting dal nome ad effetto, “Duel in the Pool”.  Americanate, ma con molta sostanza dietro…

“Risultati decisamente meno validi. Eravamo tutti un po’ stanchi, non abbiamo recuperato bene il fuso orario. Era previsto: è stata soprattutto una prova per vedere come il mio fisico reagisce al jet-leg. Se dovessi conquistare un posto alle Olimpiadi di Rio, sarà stata un’esperienza utilissima”.

Già: il grande sogno ha cinque cerchi. Ad oggi, Marco è più che candidato al viaggio olimpico. Anche se preferisce il profilo basso, quello di chi è abituato a raggiungere gli obiettivi un passo alla volta.

“Ho questo titolo europeo da cui partire, mi serve come stimolo, ma è chiaro che di qui ad agosto ne vedremo delle belle, e conterà essere al meglio allora.  Per dire, c’è chi ha preferito non partecipare agli Europei. Purtroppo i francesi non sono nuovi a questo tipo di scelte, mentre i russi forse si sono un po’ intimoriti per tutto quello che si è detto e fatto in tema di doping nei confronti del loro mondo sportivo. Manadou ha snobbato la gara, ma lui fa così quando non è in forma e non si sente sicuro del risultato. Ha preferito gareggiare, nelle stesse giornate, ad Amsterdam, con risultati decisamente inferiori alle sue possibilità. Noi italiani abbiamo utilizzato questo appuntamento per  vivere cinque giorni di gare ad alto livello e vedere l’effetto che faceva sulle nostre prestazioni”.

Aspetta primavera, il Bomber. Allora tutti scopriranno le carte.

“Non so a che livello siano oggi gli avversari per Rio, ad aprile o maggio molti si riveleranno davvero in vasca lunga, per tanti di loro un ambiente più naturale. Ai trials americani ne vedremo delle belle, poi usciranno allo scoperto australiani e russi, che adesso un po’ si stanno nascondendo. Alla fine, comunque, le Olimpiadi sono una gara particolare, dove non sempre vince il favorito della vigilia. L’obiettivo per me è raggiungere la finale, e una volta lì provare a giocarmela fino in fondo”.

Ci sarebbe molto da dire sui picchi di forma, sulle prestazioni altalenanti di tanti atleti di vertice. Soprattutto, sul ritorno in gara di chi è rimasto fuori dopo essere caduto in storie di doping, in barba a un codice etico che dovrebbe avere un valore assoluto e spesso viene considerato un foglio di carta, una data senza effetti retroattivi.

“Io cerco sempre di non fare processi senza prove. E’ vero, ci sono atleti che arrivano al meglio solo agli appuntamenti che contano e durante l’anno spesso non si fanno vedere, ma è anche questione di programmi, di metodi di avvicinamento alle gare. Io, per esempio, ho bisogno di gareggiare molto, per altri non è così. Poi, certo, ci sono casi che ti fanno pensare. Ma io evito di farlo, mi concentro sulle mie cose. Però sono felice se vengono intensificati i controlli, credo sia ora.  Vedo tornare in corsia atleti che hanno scontato mesi, in certi casi anni di squalifica. E questo non è giusto. Credo che quelli che hanno scelto scorciatoie dovrebbero essere radiati dal mondo dello sport, non solo dalle piscine. Non dovrebbero esistere più, sportivamente parlando. E’ una questione etica: io mi sentirei male a guardare in faccia avversari e compagni, e soprattutto i miei genitori, se sapessi di non essere pulito. Con che forza potrei esultare? Cerco di arrivare il più lontano possibile con le mie forze. Se poi questo mi fa arrivare a una medaglia d’argento piuttosto che a un oro, va bene lo stesso. Perché me la sono guadagnata senza tagliare il percorso…”

Stare ai vertici significa pagare un prezzo. In fatto di stress, di lontananza dalle persone e dalle cose più amate. Marco ha spalle forti, anche in questo la sua genuinità lo aiuta.

“E’ dura stare sempre in giro, tra gare e raduni, ma è la mia scelta di vita. Per fortuna ho una famiglia che mi ha sempre sostenuto, e la sento vicina anche quando non c’è materialmente. Anche questo mi dà forza. Quanto allo stress, è logico che a certi livelli ci sia. Ho imparato a gestirlo anche con l’aiuto di uno psicologo dello sport, bravissimo. Si chiama Mirko Mazzoli, è faentino. I social ci aiutano a mantenere i rapporti quando sono in giro per il mondo. Ho capito che ne avevo bisogno prima di arrivare alla finale olimpica della staffetta a Londra, nel 2012. Era la prima gara davvero importante, ho scelto di farmi aiutare e ho fatto bene. Oggi affronto qualunque momento importante con una grandissima tranquillità interiore”.

Il cammino verso Rio è iniziato. Sarebbe la seconda Olimpiade dopo il debutto a soli ventun’anni, un sogno realizzato ma anche una delusione per certi rapporti mai decollati, a livello di team.

“Qualcosa non funzionò allora, ma dagli errori abbiamo imparato tanto, e si è visto dalla solidità del gruppo anche agli Europei in Israele. Sarà una Nazionale più forte, ne sono certo. Io dopo l’esperienza londinese ho scelto di affidarmi a Roberto Odaldi, un tecnico con cui oggi c’è un feeling perfetto. Lo seguirei in capo al mondo, ma oggi sogno che insieme si possa arrivare… in Brasile. Poi, non so cosa possa succedere dall’altra parte dell’Atlantico, se ci arriveremo. A Londra Manadou arrivò da oustider e poi vinse. Non arrivo a pensare che possa capitare la stessa cosa a me, ma certo mi piacerebbe conquistare almeno una finale. Sarebbe fantastico: la storia di un ragazzino nato a Castel San Pietro, che ha iniziato a nuotare a Budrio quasi per gioco e si ritrova di nuovo alle Olimpiadi. Si, essere dentro una finale, tra i migliori in quella occasione, sarebbe una favola che diventa realtà. Un grande sogno realizzato. E farò di tutto per riuscirci”.

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CHI E’ MARCO ORSI

MARCO ORSI è nato a Castel San Pietro l’11 dicembre 1990. Cresciuto a Budrio, ha iniziato a nuotare ancora bambino passando dal Record Nuoto Club e approdando al Circolo Nuoto Uisp, per il quale è ancora tesserato gareggiando anche per le Fiamme Oro. E’ allenato da Roberto Odaldi. Tra i suoi grandi successi i tre titoli europei 2015 in vasca corta (100 stile libero, 4x50 mista stile libero, 4x50 misti), oltre ai quattro precedenti nella 4x50 mista (2011 e 2013), e nella 4x50 stile libero (2010 e 2011). Agli Europei ha ottenuto l’argento nel 2012 e il bronzo nel 2014 nella 4x100 stile. Argento ai Mondiali in vasca corta nel 2012 (4x100 stile) e nel 2014 (50 stile individuale). Ha partecipato alle Olimpiadi di Londra, finendo settimo con la staffetta 4x100 stile azzurra. Vincitore di 15 titoli italiani individuali e 16 nelle staffette, detiene i record nazionali dei 50 stile (21.64) e dei 100 stile in vasca corta (46.04).
 
IL NUOVO INFORMATORE, gen/feb 2016

 

 

domenica 24 gennaio 2016

SESSANTACINQUE ANNI. OGGI



Pre, oggi, avrebbe sessantacinque anni.
Questa è una foto scattata il 19 aprile 1968, al Silke Field di Springfield, Oregon.
Steve Prefontaine aveva compiuto da poco diciassette anni.
Non c’erano ancora i baffi, ma lo sguardo sicuro che punta dritto l’obiettivo, quello sì.
Era un ragazzo della Marshfield High School pronto a prendere il volo.
Era un ragazzo di Coos Bay che amava “il lavoro ben fatto”, proprio come la gente di quella costa dell’Oregon dove lo sguardo si perde sull’oceano, e alle spalle hai i boschi che ti avvolgono.
Gente così. Pescatori, boscaioli. Tenaci, pratici, vite senza scorciatoie.
Lui correva. Ci metteva impegno, creatività, passione. Era avanti, era davanti a tutti.
Lui aveva il Dono e non voleva disperderlo.

E’ da qui, dai tempi di questa foto, che spiccò il suo volo.
Che fu breve, ma così intenso che la scia è ancora lì, si vede anche adesso.
Ti chiedi dove sarebbe potuto arrivare. Ma non ha senso.
Quella è stata la sua corsa.
E si è fatta leggenda.


sabato 9 gennaio 2016

OTTANTA VOLTE DAN: L'ALFABETO DI PETERSON



di Marco Tarozzi

Buon compleanno, Dan. Ed è un compleanno davvero speciale, quello di Daniel Lowell Peterson, per amici e gente di basket semplicemente Dan, americano d’Italia che festeggia oggi le ottanta primavere, e domani andrà a trasformarle in vivacità e passione su una delle due panchine dell’All Star Club Beko, affiancando Max Menetti. Il giovane coach e l’altro, quello ancora giovane dentro, che ha esercitato il mestiere che più amava in modo speciale, divulgando il verbo e facendo proseliti come pochi altri hanno saputo fare.

La Virtus si unisce al coro dei festeggiamenti, perché gli anni bolognesi di Dan sono stati per tanti versi importanti, e lui lo ha sempre ricordato. Sono stati il suo approdo, la sua conoscenza dell’Italia, di una terra che è diventata la sua terra. Sono stati, anche, la rinascita di una Virtus che da vent’anni faticava a tornare tra le grandi, progettata da quella coppia d’assi, da quelle due P così fondamentali nella storia bianconera, Porelli e Peterson.

Oggi che tutti raccontano il piccolo grande uomo dell’Illinois, che tutto di lui è stato e sarà raccontato, noi proviamo a festeggiarlo mettendo in fila in un grande alfabeto il suo passaggio nel basket italiano. Ne escono storie, uomini che hanno condiviso con lui una parte della strada, e le firme di quelli che lo hanno raccontato in questi quarantatré anni.

Buon compleanno, coach.


A come AVVERSARI
Il più agguerrito se lo ritroverà di fronte domani a Trento, in una edizione dell’All Star Game Beko che riaccenderà il canale dei ricordi. Valerio Bianchini, il Vate, è stato, parola di Peterson, l’avversario più ostico. Per come gli opponeva le sue squadre in campo, ma anche per quello che costruiva intorno. “Valerio ha sempre avuto una grande capacità: se una partita era importante, lui la faceva diventare epocale. Con le parole, la faceva diventare un evento, la partita del secolo”.

B come BASKET
Scelta non molto originale, d’accordo. Ma di questo ha vissuto Dan, da sempre e per sempre. Di questo vive ancora, con uno spirito che anche i giovani dovrebbero invidiargli. Dal basket ha avuto tanto, al basket tanto ha dato, da tecnico ma anche da commentatore, insegnante, in una parola divulgatore.

C come CILE
Dopo quattro anni da capoallenatore alla Università del Delaware, la prima esperienza all’estero con la Nazionale cilena. Una pallacanestro tutta da costruire. Parole datate 1973, poco dopo l’approdo a Bologna: “Mi arrivò un'offerta per andare là con il Corpo dei Pacifisti. Poche lire e pagate dagli Stati Uniti. Dal Cile nemmeno un escudo... Ho ricominciato da zero. Qualche risultato? Ai giochi Sudamericani di quest'anno abbiamo ottenuto il miglior piazzamento degli ultimi vent'anni… Insomma mi sono trovato benissimo, ho raccolto buoni successi, potrei tornare in Cile in qualunque momento e mi accoglierebbero a braccia aperte. Anzi, l'estate prossima, situazione politica permettendo, ci tornerò due mesi, a fare un po' di preparazione fisica a quella gente...”.
Già, la situazione politica. Peterson arriva a Bologna poco prima del golpe che metterà fine tragicamente alla guida di Salvador Allende. E questo fatto, all’epoca, fa sì che circolino voci su una sua… collaborazione diretta con la Cia. “Mi fa ancora ridere, quella storia. C’erano giornalisti che non si capacitavano che uno statunitense fosse andato in Cile soltanto per allenare…”. Nel 2008, finalmente, si è tolto lo sfizio: per un minuto lo ha fatto davvero, il truce agente della Cia, in un episodio della serie sull’ispettore Coliandro.

D come DRISCOLL
Nella sua Virtus, uno degli uomini che hanno lasciato il segno. Probabilmente il più significativo, se il coach lo ha inserito nel suo quintetto ideale insieme a quattro “milanesi”, Mike D’Antoni, Roberto Premier, Bob McAdoo e Dino Meneghin, e a un sesto uomo, Gallinari, che ha giocato in entrambe le “squadre della vita” di Peterson, prima all’Olimpia e poi alla Virtus. Con Driscoll scattò un feeling speciale, se è vero che Edward Cuthbert, detto Terry, fu il faro della Virtus di Dan per tre stagioni, e con lui vinse lo scudetto, aggiungendone poi due a sua volta da tecnico, proprio sedendosi sulla panchina bianconera quando Peterson prese la strada di Milano.

E come EVANSTON
Il posto delle fragole. La città natale, a cui Dan è sempre rimasto legato. “Sono nato a Evanston, Illinois, il 9 gennaio 1936”, raccontava in una delle prime interviste appena arrivato a Bologna, a Gianfranco Civolani. “Evanston confina con Chicago. Ma occhio alla differenza: Chicago è la citta più brutta del mondo, Evanston la più bella”.
 
 

F come FULTZ
A Linate, il nuovo coach della Virtus arriva dopo un viaggio estenuante dal Cile. “Prendo il volo della Varig che fa Santiago-Rio-Dakar-Parigi, per cambiare e arrivare a Linate. Essendo, come tanti uomini, un bambino dentro, quando siamo atterrati a Dakar, sono sceso per un minuto, ho messo i piedi sulla terra e ho detto: "Africa!". Ad attenderlo per la sua prima avventura italiana ci sono Dino Costa, Achille Canna e John Fultz, cliente dell’avvocato newyorkese Kaner, che ha fatto conoscere Peterson a Porelli. Partono da questa conoscenza comune, i due americani che faranno rinascere la V nera. “Kociss” il trascinatore, Dan che subito cambia metodi e regole. Eppure quel coach sconosciuto, pian piano, riesce a cambiare l’idolo delle folle, trasformandolo da primattore in vincente, da cannoniere a cui arrivano tutti i palloni roventi a uomo-squadra. La Coppa Italia del ’74, che riconsegna alla Virtus un posto in Europa, è un capolavoro di entrambi.
Proprio al termine di quella finale, Dan parlò chiaro a John “Gli dissi: John, certamente hai sentito voci che prenderemo Tom McMillen come straniero il prossimo anno. E’ vero, siamo in trattative. Ti dico solo questo: se viene lui, lo rpendo. Ma se lui dice no, voglio che tu rimanga. Hai fatto un progresso straordinario quest’anno, ora sei un campione… Poi, è venuto Tom McMillen. Ma non ho mai smesso di ringraziare John per ciò che ha fatto per la Virtus e per il sottoscritto”.

G come GIGI
Porelli, certo. Vedi alla voce. Ma anche l’altro Gigi, Serafini, il ragazzone di Casinalbo che con i compagni vide arrivare a palazzo questo piccolo uomo che davvero sembrava piombato sulla terra dopo un atterraggio di fortuna. E, parola di Gianfranco Civolani, sorrise soddisfatto quando gli dissero che era un convinto assertore del doppio allenamento. Poi, però, gli spiegarono che non si trattava di due volte a settimana, ma di due al giorno. E Gigi pensò che forse quel coach non sarbbe durato a lungo, a Bologna. Ma ci mise poco, a ricredersi. Certo, lo faceva faticare il doppio. “Però è bravo davvero”, assicurava confidenzialmente agli amici. E non solo a loro.

H come HALL OF FAME
In quella della Fip, la “Italia Basket Hall of Fame”, Daniel Lowell Peterson è entrato ufficialmente nel novembre del 2012. La Federazione ha messo nero su bianco tutta l’importanza che questo piccolo grande uomo d’America ha avuto per la pallacanestro del nostro Paese.

I come ITALIA
Perché gira e rigira, da quasi quarantatré anni questa è diventata la casa di Dan. Arrivò che di anni ne aveva trentasette, e ci è rimasto per la vita. Lui ci sta divinamente, mantenendo delle origini quella parlata “allargata” e confidenziale, e certe passioni, come gli onions ring sulla tavola. “Insieme al mio Paese, questo è il migliore in cui vivere. L’Italia ha tre fondamentali qualità: storia, cultura e una natura fantastica. Oltre alla buona tavola, naturalmente”.

L come LAURA
Questa volta l’ha fatta un po’ arrabbiare, la sua Laura, accettando di andare a festeggiare i suoi primi ottant’anni sulla panchina del Cavit All Star Team, all’All Star Game di Trento. Ma ha già trovato il modo di farsi perdonare. Risposandola. «Lo faremo il 7 dicembre del 2017, perché dobbiamo mettere un po’ di cose a posto. La prima volta fu nel ’97, il 7 dicembre a Miami, a casa di Bob McAdoo». Trent’anni di amore, quasi venti di matrimonio e… il secondo in vista. Bel programma, mister Peterson.

M come MC MILLEN
Un altro di quelli che rendono piacevole il mestiere di allenatore. Peterson riuscì a portarlo alla Virtus nella  stagione 1974-75. L’opera di convincimento la fece il suo assistente John McMillen, che di Tom era cugino. Il campione studiava a Oxford e andava e veniva ogni fine settimana, vero pendolare dei canestri. Si sono rivisti qualche mese fa, a una rimpatriata con quella Virtus, naturalmente da Cesari, il posto del cuore. “Mi ha detto” ha confessato il coach in una lunga intervista ad Alessandro Gallo, “ che se quell’anno non si fosse stancato per i continui viaggi tra Bologna e Oxford avrebbe fatto meglio di quei 31 punti e 17 rimbalzi a partita. Quando l’ha spiegato davanti a Serafini, Bonamico, Albonico e Tommasini, tutti suoi ex compagni, sono impazziti…
 

N come NBA
L’America in salotto, la prima, quella che resta nella memoria di ognuno di noi, ce l’ha portata lui. Con quella capacità mediatica unica, che gli permise di passare dalla panchina, abbandonata a soli 51 anni (“Un grave errore”, ricorda oggi) agli studi televisivi, per iniziare un’opera di proselitismo che ha fatto bene al movimento. Le primissime telecronache di quel mondo ancora magico e lontano erano lunghe e affascinanti spiegazioni, prima ancora che pura cronaca. Con la chiusa finale, quando il campo aveva ormai decretato i vincitori di una sfida: “mamma, butta la pasta!”. Fine delle trasmissioni.

O come OLIMPIA
E poi arrivò Milano. Inutile essere gelosi, un legame anche più lungo di quello con Bologna, e certamente più ricco di successi anche internazionali. Se la Virtus è stata l’inizio della grande avventura, L’Olimpia è stata la consacrazione. “Milano è come New York: bisogna rispettare la chiamata della grande città”, spiegò il coach a Gigi Speroni, sul Radiocorriere Tv, un giorno di trentacinque anni fa, “ …perché poi, magari, non arriva più. Poi avevo voglia di prendere in mano una squadra nuova… Forse non riesco a spiegare bene il perché di questo… Vede: sono uno che non cambia mai giocatori e dopo cinque anni a Bologna li avevo ancora quasi tutti con me. Ogni tanto mi veniva la domanda: cosa posso dire ancora loro? Questi hanno già sentito tutto… Alla fine, parlavo sempre meno con la squadra…”

P come PORELLI
Storia di un rapporto che, visto nei primi giorni, non avrebbe dovuto nemmeno decollare. L’americano apparentemente così stravagante e curioso e l’Avvocato tutto d’un pezzo, poche parole e idee sempre precise. Che tra l’altro, all’inizio, aveva tra le mani Rollie Massimino, che invece andò a lavorare all’Università di Villanova. Dunque, un americano era arrivato. Ma sconosciuto. Fecero in fretta a capirsi. Dan dando una regolata a capelli e abbigliamento, ma srotolando la sua conoscenza di basket, Porelli spiegandogli la Virtus, Bologna, l’Italia e un po’ la vita da questa parte del mondo. Come ha ricordato, splendidamente, Oscar Eleni:
“Dan Peterson non è stato subito il figlio della città e di Torquemada: però il suo modo di aggredire, invadere, distruggere luoghi comuni, evitando patronati, chiassate, cene in osteria, affascinava la gente. Arrivò e vinse una Coppa Italia, poi si mise a studiare il fenomeno Virtus cercando di non isolarlo dalla terra dove nasceva. Gianluigi Porelli gli ha fatto lezioni privatissime, una burrasca al giorno, ma quel dare e prendere, quel riverniciare dopo aver demolito, l'ansia di scoprirsi e scoprire, cambiò presto il rapporto. Peterson si affidò al Pigmalione italiano per cambiare pelle e il costruttore si rese conto che le fantasie dell'uomo che arrivava da Evanston erano gli squilli di tromba di un mondo nuovo, nuovissimo, meglio affidarsi all'esploratore per andare a cercare altri territori e se il basket, in Italia, è cambiato davvero lo deve anche a questi due personaggi o forse lo deve soprattutto a loro”.

R come RITIRO
A cinquantun’anni, all’apice del successo come coach, Peterson disse basta. Diverso e unico anche in questo. Anche se oggi rivede quella decisione e forse è l’unica da catalogare alla voce “rimpianti”. “Sbagliai. Il fatto è che essere costretto a dimostrare, a vincere a tutti i costi mi aveva logorato. Stavo male, e avevo per fortuna altre attività a cui dedicarmi. Ma quando sono stato richiamato sulla panchina di Milano, nel 2011, ho provato una delle gioie più grandi della mia vita. Abbiamo fatto quello che potevamo, con quel gruppo, ma ho davvero voluto bene a quei ragazzi”.

S come SUCCESSI
A Bologna, in una Virtus che non vinceva più dagli anni Cinquanta, subito la Coppa Italia del 1974, e a seguire lo scudetto numero sette, nel 1976. Lasciando, due anni dopo, una società e una squadra ben consce di essere tornate tra le protagoniste del campionato. Il resto a Milano: altri quattro scudetti, due Coppe Italia, una Korac, una Coppa dei Campioni. Due volte eletto allenatore dell’anno in Italia, una volta in Europa. Parlano i numeri, ogni commento a margine è superfluo.

T come TESTIMONIAL
“Qui a Chattanooga, Tennessee, quando il sole ti spacca in quattro…”. Già, non c’era altro da fare che buttare giù the ghiacciato. E’ passato alla storia, il Peterson degli spot pubblicitari. Un altro modo di portare un messaggio “baskettaro” anche in casa di chi non sapeva neppure cosa fosse una palla a spicchi. Quel tipo che diceva che quel the, per lui, era il numero uno, ha sdoganato la sua passione anche così.

U come UOMINI
Trattare i giocatori da uomini. Responsabilizzarli. Caricarli emotivamente. E’ stato il credo di Dan Peterson, in anni in cui certe teorie e certi metodi di allenamento erano all’avanguardia, quasi una rivoluzione.
Lo scopriamo nelle parole di Ettore Zuccheri, che fu suo assistente per tre stagioni.
Dan è stato un grande conduttore di uomini, con lui si arrivava ad interpretare la figura del guerriero in campo. Ti faceva sentire importante e trovava mille modi per trasmetterlo. Un esempio? L’ultimo allenamento della settimana teneva una piccola riunione nello spogliatoio. Disegnava cartelli che io stesso appendevo sulle pareti e, quando i ragazzi finivano l’allenamento, teneva il discorso preparatorio per la gara, proprio nello spogliatoio. Non accennava mai ai cartelli affissi, sembravano lì per caso, ma i ragazzi li vedevano, eccome!!! Infuocava gli animi, non ci credete? Così piccolo, ma grande! Diventava alto più di due metri quando parlava, indicando la via del successo”.

V come VIRTUS
“Porelli non perde tempo, è organizzato, ha idee chiare. Mi spiega la storia della Virtus. Mi schiaffa in mano un libro sulla Virtus e 5-6 numeri di Giganti del Basket, mi parla del contratto, tre anni, rinnovabile ogni anno, se siamo d'accordo. Tre cose mi convincono che questo è un altro mondo rispetto alla realtà nel Cile: Bologna è una città di una bellezza straordinaria; vedo il Palazzo dello Sport, che è un vero gioiello; e vedo la squadra fare un allenamento. Vedere gente così alta e così talentuosa mi impressiona. Mi piace, in particolare, Vittorio Ferracini, un combattente, difensore, rimbalzista. Decido di firmare”.
E’ l’inizio della storia bianconera. Raccontato in prima persona in “Quando ero alto due metri”.  Qualcosa che resta nel cuore, anche in quello di un uomo che Bologna l’ha lasciata ormai da trentotto anni. Lo ha ricordato anche ieri, Peterson, affidando parole dolci ad Alessandro Gallo sul Resto del Carlino:
Bologna mi ha trasformato. Ero un dilettante: sono diventato un professionista. Grazie all’avvocato Porelli. Ogni giorno con lui era come un anno all’Università”.

W come WRESTLING
Cose come la telecronaca del debutto di Undertaker, datata 1990, entrano nella leggenda. O certi commenti carichi di ironia, ma anche di passione per una disciplina che Dan ha seguito e amato davvero. “Ehi Sensational Sherri, sei settimane da Weight Watchers e poi potrai indossare quel vestito". Semplicemente unico. E destinato a passare alla storia del genere. Come nel basket, anche qui l’eterno ragazzo di Evanston ha fatto epoca.

Z come ZAMPA DI ELEFANTE
D’accordo, all’epoca i pantaloni andavano così, ma era tutto l’insieme che colpiva. E poi quelli di Dan erano “a quadrettoni”. Almeno quando sbarcò in Italia e prese la strada di Bologna. Lo ricorda bene, in quei giorni, Gianfranco Civolani. Andiamo avanti e vediamo chi è il Carneade. Terrificante, un omarino che si presenta acchittato come Timberjack. Terrificanti i capelli lunghissimi a paggio, terrificanti le bragacce a quadracci, terrificanti le camicie e le scarpe e i concetti, ma sì, quella rivoluzione annunciata sulla pelle dei lasagnoni che magari avrebbero presto fatto la forca al Little Dan… E lasciatelo un po' lavorare, voi brutta gente, tuona il Dux. Daniele viene portato per mano da Porelli il quale gli insegna a vivere, e siccome l'omarino è di intelligenza sveglia e ha una straordinaria capacità di assimilazione, subito il risultato è stupefacente. Diventiamo tutti quanti amiconì e in sostanza lui allena la squadra e la stampa e i tifosi e quella larga fetta di Bologna che spasima per la Virtus. Ma da tempo immemore la Virtus non batte più un chiodo e insomma si gradirebbe un altro tricolore, una volta o l'altra. Il resto è storia, dicevo. Nell'anno di grazia settantatré Little Dan approda su queste zolle, ci mette un attimo per prendere le misure e poi regala al popolo l'agognato scudetto, per la cronaca e per la storia il settimo”.
 
 

www.virtus.it , 9 gennaio 2016