venerdì 24 novembre 2017

MAMO, DALLA GLORIA ALL'INFERNO


Mamo Wolde con il suo allenatore Onni Niskanen (Wordpress)

Gli anni bui della prigionia si Wolde, l'uomo che era stato l’erede di Abebe Bikila nella maratona olimpica di Città del Messico


di Marco Tarozzi
Dentro le quattro pareti di una cella, l’unica cosa che può salvarti sono i ricordi. A quelli si è affidato per anni Mamo, per uscire dalla miseria del presente e correre fuori, in qualche modo. Correre come quando nessuno riusciva a farlo come lui. Correre con i pensieri, quando ormai non poteva più farlo con gambe e cuore.
E allora il ricordo più intenso, più forte, non poteva che essere quello. Quel 20 ottobre 1968, quella grande corsa da trionfatore alla maratona olimpica di Città del Messico. Quel giorno era stato un eroe per tutto il suo popolo, raccogliendo l’eredità di un mito. Chiuso in una cella, Mamo si è affidato per anni a quelle immagini, ormai sfocate anche nella sua memoria, per combattere gli incubi quotidiani.
Degaga Wolde, detto Mamo, era arrivato alle Olimpiadi messicane a trentasei anni, con una lunga carriera da runner alle spalle. La prima apparizione era stata a Melbourne, dodici anni prima, quando ancora praticava il mezzofondo veloce, in pista. Non aveva lasciato segni particolari, negli 800 e nei 1500, meno che mai nella staffetta 4x400. Ma era stata la prima volta in cui aveva rappresentato il suo Paese, l’Etiopia, ad una manifestazione così importante, e gli bastò per sentirsi appagato e continuare a correre, e a crederci. Mamo Wolde aveva scelto il mestiere che nella sua terra poteva assicurare un minimo di tranquillità economica per sé e per la sua famiglia. Faceva il militare, era entrato nella Guardia Imperiale di Haile Selassie già nel 1951, trasferendosi da Ada, suo luogo natale, nella capitale Addis Abeba, e qualche anno più tardi aveva partecipato a una lunga missione in Corea per conto dell’Onu. Ancora, quattro anni dopo Melbourne, mentre a Roma il suo connazionale Abebe Bikila diventava leggenda vincendo la maratona olimpica a piedi nudi, Mamo aveva appena concluso una lunga missione nel Congo, sotto la bandiera delle Nazioni Unite.
Intanto, però, non aveva smesso di allenarsi e fare quello che gli riusciva naturale. Correre. E aveva capito che per emergere c’era soltanto un modo: allungare le distanze, in allenamento e soprattutto in gara. Si presentò un altro atleta, alle Olimpiadi di Tokio. Solido, competitivo. E nella gara dei 10000 metri che sarebbe passata alla storia per l’incredibile trionfo dell’indiano d’America Billy Mills, sfiorò il podio finendo al quarto posto, alle spalle dell’inatteso vincitore americano, di Gammoudi e di Ron Clarke. Intanto, Bikila entrava nella storia conquistando il secondo oro consecutivo nella maratona olimpica, impresa mai riuscita ad alcuno nella storia delle Olimpiadi moderne.
Quello che riempiva d’orgoglio Mamo Wolde era proprio l’amicizia nata con quel campione, simbolo dello sport etiope, che aveva scelto proprio lui come compagno di allenamenti. Non esattamente un successore designato, perché i due avevano la stessa età, nati entrambi nel 1932. Anzi, Mamo era più “anziano” di Abebe, nato il 12 giugno, quasi due mesi prima dell’amico. Insieme avevano affrontato chilometri e chilometri di preparazione e anche gare che si erano trasformate in vere e proprie missioni, come quella che nell’aprile del 1965 li aveva portati a New York, a correre una mezza maratona celebrativa della seconda edizione della New York World’s Fair, nella quale avevano consegnato agli organizzatori una pergamena vergata dall’imperatore Haile Selassie in persona, che sanciva i buoni rapporti del suo paese con quell’America già al centro del mondo.
La successione venne comunque naturale, quattro anni dopo, e fu lo stesso Bikila, conscio delle sue possibilità ridotte da un problema al ginocchio, a sancirla. E la parola di un campione assoluto come Abebe non si poteva mettere in dubbio né discutere, non lo avrebbe mai fatto neppure Mamo. A Città del Messico, Wolde aveva già vinto l’argento nella finale dei 10000 metri, disputata una settimana prima della maratona. Doveva essere la gara della definitiva consacrazione di Ron Clarke che, come sempre gli sarebbe accaduto in competizioni di questo valore, affondò. Fu invece il primo oro olimpico per il Kenia, nazione indipendente da soli cinque anni, conquistata da Naftali Temu dopo una volata vincente proprio ai danni di Mamo Wolde, sei soli decimi di secondo a dividerli dopo dieci chilometri, con Gammoudi terzo e fuori dai giochi.
“Sai che che questa volta non partirò per vincere”, è il discorso che il campione uscente fa all’amico, “anche se avrei voluto giocarmi qualche chance per conquistare il terzo oro. No, io non posso farcela. Ma tu puoi, e devi. E io ti darò una mano per riuscirci, nella prima parte della gara”. La benedizione della leggenda. Così andranno le cose, in gara: Bikila che detta i ritmi ma è costretto a ritirarsi per spasmi muscolari dopo 17 chilometri, il keniano Temu, vincitore dei 10000, che resta al comando fino al trentesimo per poi sparire nelle retrovie (finirà diciannovesimo), Mamo Wolde che prende la testa dopo una prima parte di gara regolarissima, e vola verso il traguardo in solitudine. Portando ancora una volta l’Etiopia sul trono della maratona, per la terza Olimpiade consecutiva. Mamo sarà ancora sul podio quattro anni dopo, quarantenne, a Monaco. Medaglia di bronzo, alle spalle di Frank Shorter e Karel Lismont. Secondo atleta nella storia a conquistare una medaglia olimpica in maratona in due Olimpiadi di fila. Dopo il suo grande maestro, Abebe Bikila.
Tra le quattro pareti di una cella, il colore dei ricordi aiuta a sopravvivere. Mamo Wolde, lì dentro, è un uomo con un grande passato ed un presente misero. A capovolgergli la vita sono state la storia e la cronaca drammatica del suo paese. Nel 1974, appena due anni dopo il bronzo di Monaco, in Etiopia la rivoluzione filo-comunista porta alla deposizione di Haile Selassie, e alla conquista del potere da parte del colonnello Mengistu Haile Mariam, che sa quanto lo sport possa essere utile alla propria causa. Mamo Wolde è un personaggio amato e venerato in patria, ed è un militare. Gli viene offerto un posto da dirigente di un kebele, uno dei distretti in cui è stata riorganizzata Addis Abeba. L’offerta economica è alettante, e d’altra parte in quel momento storico chi non è dalla tua parte diventa automaticamente un nemico. Mamo accetta, e senza saperlo inizia la caduta che caratterizzerà la seconda parte della sua vita, quella vissuta lontano dai riflettori della gloria sportiva.
L’epopea del Dergue di Mengistu dura appena quattordici anni, quelli in cui il suo governo rivoluzionario trova appoggi dal mondo filosovietico. Ma, appunto, il mondo fuori sta cambiando: la “perestroika” di Gorbaciov lascia Mengistu solo, e l’Etiopia di fronte all’ennesimo cambiamento politico. Come sempre, è tempo di chiudere conti in sospeso, e far venire molti nodi al pettine. Anche Mamo Wolde finisce invischiato in una brutta storia risalente al 1975, l’uccisione di un ragazzo di appena sedici anni in un night della capitale. “Giustiziato” barbaramente da un ufficiale che ha voluto che anche Mamo fosse presente all’esecuzione di un “ribelle” al regime di Menghistu. Di più: Mamo è costretto a sua volta a sparare sul corpo ormai esanime del ragazzo, e lo fa mancando volutamente il bersaglio. Più di un testimone di quell’orrore conferma che le cose sono andate in quel modo, ma non basta. L’ex campione viene arrestato nel 1993, passa nove lunghi anni in galera aspettando un processo che alla fine, nonostante in tanti lo scagionino, lo condannerà a sei anni di reclusione. Già scontati, per cui nel 2002 i cancelli del carcere si spalancano, e Mamo rivede la luce.
Ma è troppo tardi. Da quell’incubo esce un uomo di quasi settant’anni, piegato dalla vita. Magro, debilitato, afflitto da una bronchite cronica e da problemi di fegato, quasi sordo. La comunità dei runners si era mobilitata per lui, durante la sua prigionia. Billy Mills, che aveva corso e vinto quel 10000 olimpico in cui Wolde aveva sfiorato il podio, gli aveva fatto recapitare una bandiera olimpica firmata da campioni americani come Frank Shorter, Ralph Boston, Willie Davenport, Rafer Johnson, per fargli sapere che non era stato dimenticato. E Kenny Moore, a cui Mamo aveva soffiato il terzo posto nella maratona di Monaco, diventato una firma illustre di “Sports Illustrated”, va a trovarlo nel penitenziario in cui è rinchiuso, per raccogliere il suo straziante e soffocato grido di dolore. “Là fuori, la gente si ricorda di te”, gli dice. “Tutto torna indietro”, gli risponde il vecchio e logorato campione, “ricordami ai miei fratelli olimpici. Queste sono parole del Signore. Ma io oggi ho solo un desiderio: uscire di qui, costruire finalmente una casa di pietra, dopo aver vissuto tutta la mia vita in una casa di fango, e viverci insieme alla mia famiglia”. Otto minuti in tutto, per rivedere un vecchio amico. “Ma è bello sapere che fuori la gente ricorda…”
Mamo Wolde vivrà confortato dall’affetto dei suoi cari, da uomo libero, appena quattro mesi. Uscito di prigione all’inizio del 2002, morirà a causa di un tumore al fegato il 26 maggio dello stesso anno. “Datemi qualche mese per riprendermi, e tornerò a sfidarvi”, aveva assicurato ai vecchi amici, Kenny Moore compreso. Soltanto un sogno, perché il tempo non fa sconti. Mai.
RUNNER'S WORLD - "THE STORYTELLER" - novembre 2017







mercoledì 10 maggio 2017

CLARENCE DEMAR, CUORE DI MARATONETA




Marco Tarozzi

Quando gli spiegarono che il suo non era un cuore adatto alla corsa, Clarence DeMar pensò che la vita è davvero strana, pronta a toglierti quello che ti ha appena dato. Ma come, proprio a lui che a ventidue anni aveva appena mostrato il proprio talento, debuttando alla Boston Marathon con un secondo posto alle spalle del canadese Fred Cameron? Proprio a lui che aveva iniziato a correre ancora bambino, a sette anni appena, per andare e tornare da scuola? Sì, proprio a lui. Destino maledetto.

Era il 1910, e quel medico era stato chiaro: soffio al cuore, percepito dopo un controllo di routine. Il consiglio? Fermarsi, per non prendere rischi inutili. Solo che per Clarence la corsa era molto più che uno svago. Era passione, vita. E un anno dopo, con tutti quei dubbi nella testa, decise di ripresentarsi al via di quella maratona di cui si era innamorato, e sulla linea di partenza i medici della corsa, che conoscevano la situazione, gli ricordarono che in caso di affaticamento avrebbe dovuto ritirarsi immediatamente, e quasi certamente rinunciare a qualunque altro sforzo in futuro.

La risposta fu limpida. Clarence DeMar fu il vincitore dell’edizione 1911 della Boston Marathon, per di più col record della gara, 2:21:39. E fu soltanto l’inizio. In diciannove anni, l’avrebbe vinta sette volte in tutto. Un record che nessuno, dopo, avrebbe più neppure sfiorato. E quella corsa, la “sua” corsa, l’avrebbe chiusa da “finisher” in tutto trentanove volte. L’ultima nel 1953, a sessantacinque anni.

DI CORSA CONTRO IL DESTINO

Clarence era nato a Madeira, Ohio, da una famiglia che aveva attraversato l’oceano. Origini francotedesche. Aveva otto anni quando il padre gli morì davanti agli occhi, e presto fu costretto a improvvisarsi venditore ambulante nei paesi vicini, per dare una mano a mamma che in qualche modo sfamava lui e cinque fratelli più piccoli. Far visita ai clienti gli servì per coltivare ancora quella passione per la corsa. Da una casa all’altra, da un paese all’altro. Tutti i giorni, per tutto l’anno.

A dieci anni si spostò ad Est con la famiglia, e venne ammesso alla Farm & Trades School, scuola per ragazzi indigenti sulla Thompson Island, di fronte al porto di Boston. Lavorava duro e trovava sempre e comunque il modo di ritagliarsi uno spazio per la corsa. Si trovò separato dalla famiglia, imparò a fare della solitudine una forma di forza interiore. Aveva fegato e tenacia, non accettava il destino senza combattere.

Aveva iniziato a gareggiare nel cross ai tempi del college, ma preferì interrompere il suo sogno quando trovò un lavoro da apprendista in una tipografia. Imparava un mestiere, aiutava la famiglia e per dar sfogo alla passione gli bastava allenarsi alla vecchia maniera: avanti e indietro dal posto di lavoro. Era tutto lì il suo programma di allenamento, giorno dopo giorno.

Intanto studiava di notte, frequentava scuole serali. Ottenne la laurea di primo grado alla Harvard University, frequentò con successo un corso post-laurea alla Boston University. Nel frattempo, Boston aveva imparato a conoscerlo. Con quelle due fiammate nella maratona più antica del mondo: secondo nel 1910, al debutto, primo a tempo di record nel 1911.

Dopo quel successo, Clarence era divento uno dei maratoneti più forti degli Stati Uniti. E infatti andò a rappresentarli a Stoccolma, nel 1912. Un viaggio-premio, per uno che non aveva frequentato scuole di corsa. Un self-made-man che gareggiava nel più puro spirito dilettantistico. Finì con un dodicesimo posto nella maratona olimpica, e poi con quel suo spirito libero che non accettava compromessi parlò senza timori dei metodi dittatoriali con cui lo staff della Nazionale di atletica controllava e decideva il metodo di allenamento dei suoi uomini, affermando che avevano danneggiato la squadra. Non si preoccupò delle conseguenze, anche perché subito dopo le Olimpiadi troncò di netto la sua carriera atletica e sparì da tutti i radar, e dai taccuini degli esperti.

La sua tenacia, in quel momento, lo convinse a mettere davanti a tutto lo studio. Nel 1915 mentre lavorava in una tipografia a Boston, riuscì a laurearsi in discipline umanistiche ad Harvard.

La storia del DeMar maratoneta avrebbe anche potuto chiudersi così: una vittoria a Boston, una partecipazione alle Olimpiadi. Nemmeno poco, a pensarci.

IL RITORNO DEL CAMPIONE

Invece, ecco tornare fuori tutta la passione. Sul finire della prima guerra mondiale, e per di più in Europa. Quando Clarence arrivò a St. Armand, in Francia, non si sparava più. Era il 1919, di lì a poco fu trasferito a Coblenza, in Germania. E finalmente potè riprendere a dedicarsi alla corsa. Gareggiò ai trials per i Giochi Interalleati, tra le forze che avevano vinto la guerra. Finì quarto nei 10mila metri, si qualificò per la squadra americana senza partecipare all’atto finale della manifestazione. Ma la fiamma era riaccesa.

Rientrò in patria, riprese ad allenarsi con regolarità, ma per il grande ritorno attese ancora qualche anno.

Era il 1922 quando si ripresentò sulle strade della gara più amata. La Boston Marathon. Erano passati undici anni da quella prima vittoria, in mezzo c’era stata una guerra. Ma Clarence era carico a mille, affamato di corsa e di gloria. Vinse in 2:18:10, nuovo primato della gara. “Mister DeMar-athon” era tornato davvero a casa, e nessuno avrebbe più potuto fermarlo.

Aveva trentaquattro anni, Clarence. “Ormai”, verrebbe da dire. Non fosse che per lui la leggenda stava appena iniziando. Insieme ai suoi anni più fecondi da runner. Tornò a Boston nel 1923 e vinse ancora. Nel 1924 sulle strade che portano tradizionalmente da Hopkinton a Copley Square andarono in scena gli US Trials, e ancora una volta DeMar non lasciò scampo agli avversari. Nessuno aveva mai trionfato in quella classica tre volte di seguito. Così il Boston Globe raccontò, il giorno dopo la sua vittoria: “Non riusciva a contenersi nella sua azione, e all’altezza di Beacon Street non aveva più nessuno accanto, o nelle vicinanze, se non un cane uscito di corsa da un cortile che lo accompagnava nella sua corsa vincente… Non poteva essere battuto e la domanda a quel punto era in quanto tempo avrebbe terminato. Ha chiuso in mezzo a un tifo selvaggio, nel sensazionale tempo di 2 ore, 29 minuti, 40 secondi e un quinto… DeMar si è assicurato un posto importante ai Giochi Olimpici di Parigi”.

Il campione tornò in Europa. A Parigi lo aspettava la sua seconda Olimpiade. Questa volta, a trentasei anni, era nel pieno della forma. Valeva il podio e andò a prenderselo in una giornata talmente calda da costringere gli organizzatori a rinviare la partenza, e parecchi atleti ad abbandonare la gara. Ebbe la meglio Albin Stenroos, finlandese, in 2:41:22, tempo che la dice lunga sulle condizioni climatiche affrontate dai concorrenti. L’italiano Romeo Bertini fu secondo in 2:47:19. DeMar andò a prendersi il bronzo in 2:48:14, a meno di un minuto dall’azzurro. Nell’Olimpiade di Paavo Nurmi, di Harold Abrahams ed Eric Liddell, anche lui riuscì a trovare una medaglia e un momento di gloria.

A Boston tornava (e a lungo sarebbe tornato) a raccogliere l’abbraccio della sua gente, senza più spezzare il filo che lo legava alla grande corsa. Nel 1925, anno post olimpico, fu secondo alle spalle di Charles Mellor. Poi, nei due anni seguenti, infilò una serie di vittorie a Baltimora, Philadelphia, Port Chester, ancora Baltimora e finalmente, nell’aprile del 1927, di nuovo Boston. Quinta vittoria, e la sesta sarebbe arrivata l’anno successivo, ancora una volta a regalargli un posto alle Olimpiadi. Ad Anversa, sua terza partecipazione ai Giochi, finì ventisettesimo pagando una giornata di vento gelido e pioggia. E forse anche l’età, che ormai si avvicinava ai quaranta.

IL RE VETERANO

Qualcuno pensò che DeMar avesse infilato il viale del tramonto. Qualcuno che non aveva fatto i conti con la sua tempra d’acciaio. Certo, i tempi erano cambiati: Clarence si era sposato, era diventato professore di tipografia e storia industriale alla Keene Normal School, si occupava dell’educazione dei boy scouts di Camp Zakelo, sul Long Lake, in Maine. Ma non aveva smesso di tenersi in condizione a modo suo. Ogni settimana raggiungeva Keene, nel New Hampshire, correndo, camminando e facendo l’autostop: ed era un viaggio da novanta miglia ogni volta…
Insomma, era ancora “Mr. DeMar-athon” quello che si presentò al via della Boston Marathon nel 1930. E alla bella età di quarantun’anni poteva ancora concedersi il lusso di vincerla. In 2:34:48, e per la settima volta. Nessuno aveva mai scritto il suo nome nell’albo d’oro a quell’età. Nessuno ci sarebbe mai riuscito dopo. Il modo migliore per consegnarsi alla storia.

E le famose disfunzioni? DeMar morì nel 1958, settantenne, per un cancro allo stomaco. Cinque anni prima aveva concluso la sua ultima Boston Marathon. Negli anni della gloria aveva aderito alle ricerche harvardiane sugli effetti dell’allenamento e contribuì alla comprensione della fenomenologia del cuore d’atleta. Il suo era più grosso della norma, ma se nel 1911 gli consigliavano di fermarsi perché questo sembrava deleterio, già negli anni Venti la differenza tra il cuore di un atleta e quello di un sedentario era chiara. Il cuore di Clarence era qualcosa di più: batteva nel petto di un Campione.

RUNNER'S WORLD - "THE STORYTELLER" - marzo 2017


domenica 5 febbraio 2017

LA BALLATA DI JOHNNY


Adesso che Ezio se ne è andato, restando per sempre nei nostri cuori, è tornata alla mente, tra mille ricordi e fotografie in bianco e nero, anche la storia di Johnny. L’uomo che entrò in campo al suo posto nell’ultimo momento di massima gloria del Bologna. All’Olimpico, il giorno dello spareggio-scudetto contro l’Inter. Il 7 giugno 1964.
Bruno Capra, detto Johnny, sapeva che quel giorno sarebbe entrato in campo, indossando il numero di Ezio. Glielo aveva detto tre giorni prima Fulvio Bernardini, spiegandogli anche i motivi di quella sua scelta furba, da “Dottore”, da scienziato del pallone. Era una mossa tattica, un lampadina accesa improvvisamente, un colpo di genio pensato per mettere a soqquadro le certezze dell’altro mago, Helenio Herrera, ancora carico a mille per la vittoria della Coppa dei Campioni di pochi giorni prima. Proprio lui, contro il Real Madrid, aveva tracciato la via.
L’avrebbe ricordato, nella cronaca della partita, anche Gianni Brera: “Il Bologna, per contro, ha finalmente impostato la partita per vincere. Nessuna concessione alle fole estetiche già tanto deplorate (e scontate) l'anno scorso. Praticamente l'Inter ha insegnato la lezione vincendo al Prater e il Bologna l'ha applicata con energica, direi spietata, determinazione. L'Inter ha largamente dominato il centrocampo ed ha scontato in attacco la nullaggine e lo scadimento psicofisico delle sue punte”.
Ad aspettarle, quelle punte spuntate, quel giorno all’Olimpico c’era anche Johnny. L’arma segreta di quello spareggio, la genialata del Dottor Pedata. Ma prima di ricordarvela, proviamo a ricordare come ci era arrivato, Bruno Capra, nel Bologna. E perché mai tutti si ostinavano a chiamarlo Johnny.
Classe ’37, proprio come Ezio Pascutti. Un’infanzia passata a Pittsburgh, Pensylvania, dove papà che faceva il ferroviere era andato per cercare (e trovare) lavoro partendo da Bolzano, casa sua. Fu lì che i bambini iniziarono a chiamarlo con quel soprannome: Johnny… Johnny… E lui ci si affezionò e pochi anni dopo se lo portò dietro in Italia, dove raramente trovava qualcuno che ancora lo chiamasse Bruno.
Giocava nel Bolzano, in Serie C, e aveva qualcosa in più, tanto da farsi notare da uno che di calcio ne capiva parecchio. Il presidente della Spal, Bruno Mazza, lo “prenotò” offrendo sette milioni alla società d’origine, ma lui non passò le visite mediche per un problema alle tonsille che gli scombinò i valori degli esami, e finì per quattro milioni al Bologna. Era il 1956. Un’operazione alle tonsille e via, iniziava una vita da professionista. Anni dopo, in mezzo anche quel memorabile spareggio all’Olimpico, Mazza ammise che quell’affare mancato non l’aveva proprio digerito: “Potevo comprarti con sette milioni e rivenderti a trenta”.. Tant’è, in quel Bologna che alla fine degli anni Cinquanta, e poi con l’avvento di Bernardini, iniziò a costruire l’ossatura di una squadra irripetibile, ci finì anche Johnny. Il figlio del ferroviere, quello che veniva da Bolzano. Anzi, da Pittsburgh.
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“Ma Renna? Come la prenderà, Renna?...” Questo fu il primo pensiero di Johnny, quando Bernardini gli annunciò la sua scelta. Per dire di un gruppo fatto di uomini veri, uniti nella consapevolezza di aver costruito qualcosa di unico, decisi a giocarsi tutto in quel giorno afoso dell’estate romana, dopo le calunnie e i sospetti dei giorni dell’inchiesta-doping, un castello di carte montato contro il Bologna, principe ragazzino che voleva farsi re a dispetto del protocollo, delle regole non scritte, della potenza anche economica dei Signori di Milano. Basta farsi chiamare provinciale, nobile decaduta o chissà che altro. Il Bologna era quel gruppo: forte, solido, compatto. Faceva terribilmente sul serio.
Johnny prese quella maglia col numero 11, guardò Ezio che era lì, a Roma, in quel giorno irripetibile in cui il destino lo aveva chiamato fuori, rivide il volto sorridente e negli ultimi tempi sofferente di Renato Dall’Ara, che lo aveva portato a Bologna e non era lì a godersi l’attimo tanto atteso, portato via da un’annata che era stata un peso sul suo cuore già affaticato. Pensò ancora alla faccia triste di Mimmo Renna, ma soprattutto all’idea meravigliosa che si era messo in testa Fulvio Bernardini. E allora andò in campo, a fare il libero aggiunto con addosso la maglia dell’ala sinistra.
C’era Franco Janich a presidiare la sua solita zona di campo, e c’era lui, Johnny, spostato appena a sinistra, a contenere le folate degli avversari. Che poi quel giorno, sorpresi dalla mossa e certamente anche più stanchi, furono attacchi flebili, nulla che una difesa come quella rossoblù non potesse contenere.
Così Johnny diventò uno di loro. Uno degli “eroi dello scudetto”. Quelli che ancora oggi sono nella storia, perché quello era un Bologna da sogno e perché dopo, di scudetti, non ne sarebbero più arrivati.
Ma lui restò quello che era stato in campo. Uno che lavorava in silenzio. Taciturno, quasi allergico alle luci della ribalta. Undici presenze in quell’anno speciale, tre nella stagione successiva, 145 in tutto in dieci anni di Bologna. Poi il trasferimento a Foggia, e l’addio al calcio giocato nel 1969.
Da allora, Johnny si è messo ai margini. Come chi ha sempre considerato il calcio una parentesi della vita, uscendo da tempi in cui non era facile costruirci sopra il benessere per sé e per chissà quante generazioni a seguire. Ha lavorato in un altro mondo, ha conosciuto gente nuova e diversa, senza mai farsi grande di quella sua appartenenza, né del ricordo di quel giorno all’Olimpico. Meno che mai nei giorni colorati delle celebrazioni, delle feste a cui per carattere non si è mai sentito a suo agio.
Ma c’era stato, Johnny Capra, al capezzale dell’onorevole Giacomino, quando il più ragazzino di quel Bologna tricolore stava per andarsene per sempre. E c’era anche pochi giorni fa, quando nella cattedrale di San Pietro siamo andati a salutare ancora una volta Ezio, facendo finta che non fosse l’ultima.
Perché Johnny era, è e sarà sempre parte di quel sogno.
Un eroe che non voleva essere eroe.
Un numero 11 che quasi si sentiva a disagio, quel 7 giugno 1964, pensando ad Ezio e a Mimmo.
Eppure, fu proprio lui a scombinare le carte.
SHORT STORIES - Racconti di sport e di vitaPrima puntata
Radio Bologna Uno, 27 gennaio 2017


martedì 24 gennaio 2017

ANNIVERSARIO



Ricordare la vita, non la morte. Oggi sarebbero sessantasei. Difficile anche solo immaginarli. Buon anniversario, comunque, ragazzo di Coos Bay.

giovedì 19 gennaio 2017

CIAO EZIO, HAI ONORATO QUESTA CITTA'


di Marco Tarozzi

Gira e rigira, si finisce sempre lì. Davanti a quell'immagine in bianco e nero. Dentro c'è la rapidità, la scaltrezza, il guizzo impossibile. Tutto quello che era Ezio Pascutti in campo. E c'è lo sguardo di Tarcisio Burgnich, un po' stupito per quella maglia rossoblù che gli scivola via da sotto, un po' allarmato perché in quell'attimo esatto sa già come andrà a finire. Si finisce sempre lì, incantati davanti alla foto di Maurizio Parenti, lo scatto felice di un Bologna-Inter del '66. Ezio, quando si trattava di ricordarla, vale a dire quasi sempre, era orgoglioso e allo stesso tempo minimizzava.
“E pensare che io ne ho fatti di migliori. E soprattutto ne ho fatti centotrenta, senza tirare lo straccio di un rigore. Se posso dire la mia, per me il più bello è stato il centesimo. Lo segnai contro il Genoa, contro Da Pozzo, una meraviglia. Cross a rientrare dal fondo di Maraschi, io mi tuffai al limite dell'area e infilai il pallone all'incrocio dei pali. Perfetto. Solo che quella volta lì non c'era nessuno a fermare l’attimo. Così, tutti se lo sono dimenticato”.

C’è tanto di lui in quell’immagine di Parenti, che la famiglia ha voluto offrire anche prima dell’ultimo viaggio a quelli che sono andati a salutare Ezio Pascutti alla cattedrale di San Pietro. Ci sono i motivi della sua immortalità. E ci sono la sua vita, le sue origini, amici e avversari che hanno lasciato il segno. Infanzia dura, di quelle che temprano. Due fratelli più grandi che la vita allontana da lui. Enea, il maggiore, emigra in Canada quando Ezio ha undici anni. Tornerà in tempo per vederlo calciatore professionista, ma un male vigliacco lo porterà via a nemmeno quarant'anni. Paride invece lo porta via la guerra, o meglio lo riporta a casa che è l'ombra di sé stesso, dopo la prigionia in Germania. Ezio cresce forgiando quel carattere, quella rabbia che riverserà in campo buttandosi tra le gambe dei difensori, senza paura. Il coraggio di chi sa di avere avuto la grande occasione, ma teme che in qualunque momento il sogno possa spezzarsi. Segue fin da bambino, calciando palloni in oratorio, i consigli di Enea. “Impara a calciare di sinistro, ragazzino, che in Italia dopo Carapellese non è più nata un'ala sinistra degna di questo nome”.



“Devo tutto a Gipo Viani” raccontava Ezio. “Fu lui a volermi al Bologna. Prima avevo giocato a Pozzuolo, e nel Torviscosa. Mi feci notare perché ero veloce e segnavo a raffica. Qui arrivai nel '54. Non mi sono più mosso”.
Né durante la carriera, né dopo. In campo, una vita spesa per i colori rossoblù. E anche qualcos'altro. Le ginocchia, soprattutto: ai tempi, Pascutti diventò un fedelissimo del professor Gui. Cinque operazioni e quella gamba che lo ha poi fatto dannare nella vita dopo il calcio, anche nel rito quotidiano della passeggiata nel suo territorio, rimasto sempre lo stesso. Via Riva Reno, l'indirizzo di sempre, e il centro attraversato tra Marconi, Lame, San Felice. Incroci di sguardi, saluti spontanei. “Ogni tanto passa uno e mi fa “ciao Ezio”. Io rispondo ciao, che altro dovrei fare?”.

Salutava chiunque, Ezio, e salutava Bologna. La sua città. Che gli ha dato, e a cui lui ha dato tanto. Che a volte è entrata in tackle sulla sua esistenza. Che qualche anno fa si ricordò di questo friulano diventato più bolognese di tanti che qui sono nati, premiandolo con la Turrita d'Oro, uno dei premi più prestigiosi assegnati dal Comune. Quel giorno, Ezio si commosse fino alle lacrime.
I giorni felici dello scudetto, quelli amari dell’esclusione dalla Nazionale per un gesto di esasperazione che venne amplificato al massimo volume, e divenne quasi un caso diplomatico. Una bandiera: 294 partite, 130 gol per il suo Bologna. E mai un rigore.

Per tutto questo, per il suo sorriso che passava anche attraverso le tempeste della vita, siamo andati a salutare Ezio Pascutti in cattedrale. Promettendogli che non lo dimenticheremo mai.