giovedì 10 dicembre 2020

CUORE DI PABLITO

 


Ma dove ve ne andate, tutti quanti?
Non lasciatemi solo.

 


mercoledì 25 novembre 2020

COMMIATO

 


"Si sa che la gente dà buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio"

Qualunque cosa possano dire, eccepire, confutare, giudicare, quelli che non sanno contemplare il bello in silenzio, adesso riposati davvero.

A chiunque di noi servirebbero tre vite, per raccontare la tua.

Sghemba e accartocciata su sé stessa, come tutte quelle degli artisti veri.

 

giovedì 10 settembre 2020

LE SCARPE STRETTE DI ABEBE

 


E arrivò il giorno in cui un uomo degli altopiani d’Africa diventò re di maratona alle Olimpiadi. E successe proprio in Italia, in una meravigliosa notte romana, il 10 settembre 1960. Quel campione, l’etiope Abebe Bikila (cognome prima del nome, come impone ancora oggi la regola del suo Paese), ventottenne guardia del corpo personale dell’imperatore Hailé Selassié, tagliò il traguardo sotto l’arco di Costantino, lungo la via Appia, in uno scenario affascinante. Lo fece a piedi scalzi. Non una scelta tecnica, come spesso è stato tramandato. C’è di mezzo, ancora una volta, Adidas, fornitore tecnico di quell’edizione dei Giochi, che fornì le calzature al 75 per cento degli atleti in gara. Compreso Bikila, che però le trovò troppo strette: c’era il rischio che le vesciche potessero infrangere il sogno di un atleta che a Roma era approdato da riserva, e si trovò in gara per sostituire il connazionale Wakijera, campione nazionale, infortunatosi durante una partita di calcio.

Bikila non era un fanatico della corsa senza scarpe, come si disse poi. Certamente l’aveva provata. L’ultima volta proprio pochi giorni prima di partire per Roma, quando il suo allenatore, lo svedese Onni Niskanen, lo sottopose a un test di 32 chilometri, chiuso in 1:42:36, alla media di 3’10” a chilometro ad un’altitudine di duemila metri. Nessun dubbio, dunque: scarpe strette, nessun altro modello disponibile, la gara della vita corsa a piedi nudi. Motivo in più per passare alla storia.

(Marco Tarozzi - da “Scarpe e runner: che storia!” - Runner’s World, settembre 2020)

 


lunedì 7 settembre 2020

L'ULTIMA LETTERA DI LUZ

 


“Mio caro amico Jesse, dove mi trovo sembra che non vi sia null’altro se non sabbia e sangue. Io non ho paura per me, ma per mia moglie e il mio bambino, che non ha mai realmente conosciuto suo padre.

Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere, ti chiedo questo: dopo la guerra, va in Germania, ritrova mio figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa terra.
Tuo fratello, Luz”

(ultima lettera di Carl Ludwig Hermann “Luz” Long a Jesse Owens)


lunedì 29 giugno 2020

L'UOMO VERTICALE





Mario Corso e Pierino Prati sono stati tra i più grandi calciatori italiani della loro generazione, e in assoluto. E lo è stato anche Carburo.

Qualche giorno fa se ne è andato uno dei più grandi portieri degli anni Sessanta. C’è sempre stato poco da scavare nella sua vita, perché lui preferiva i silenzi alle dichiarazioni . Forse è per questo che ho avuto la sensazione che il suo addio sia scivolato via troppo in sordina. Dignità, sobrietà, professionalità. Un uomo verticale, come si dice.

 O forse è una cosa mia. Che da bambino finivo sempre in porta, ed ero orgoglioso dei miei guanti da portiere comprati al “cacciaepesca”. Stavo là dietro e sognavo di essere William Negri.

 Del resto, cosa contano cinque righe in più o in meno? Conta il cammino, per ognuno di noi. E il conto in pari con la coscienza, quando si può.

domenica 21 giugno 2020

VERSO BOLOGNA-JUVE - LA PRIMA VOLTA ALLO STERLINO





Il 6 novembre 1921, la prima sfida in campionato. Con un rigore negato dall’arbitro che fece infuriare i tifosi rossoblù

di Marco Tarozzi

Vi siete mai chiesti perché il Bologna, fondato alla birreria Ronzani il 3 ottobre 1909, e la Juventus, nata dodici anni prima, il primo giorno di novembre del 1897, dalle chiacchiere di un gruppo di ragazzi del liceo classico D’Azeglio spese su una panchina di corso Umberto a Torino, si siano incontrate per la prima volta alla fine del 1921? Presto detto: perché il “girone unico” non era ancora nella testa di chi il calcio lo doveva organizzare (sarebbe arrivato solo a partire dalla stagione 1929-30) e le due squadre iniziavano sempre la stagione in gironi eliminatori diversi, e per anni non arrivarono mai a giocarsi insieme i momenti topici del torneo.
I bianconeri avevano vinto lo scudetto nel 1905, prima che a Bologna i primi fanatici del pallone trovassero sfogo ai Prati di Caprara, poi erano spesso rimasti invischiati in stagioni non esaltanti, perché i grandi protagonisti erano altri.

VITE PARALLELE – I rossoblù affrontavano solitamente il girone veneto emiliano, i bianconeri quello piemontese e in una occasione (1913-14) erano finiti in quello lombardo. Nel 1914-15, solo la Juve approdò alle semifinali nazionali. Poi, la guerra portò al Paese problemi più gravi da affrontare.
Nel 1919-20, campionato della rinascita, entrambe le squadre passarono il girone di qualificazione del Torneo Maggiore, quello delle squadre del Nord, ma nelle semifinali nazionali andò avanti soltanto la Juve nel proprio girone. I bianconeri arrivarono alle finali nazionali con Inter e Genoa, finirono alle spalle dei nerazzurri che poi andarono a vincere la sfida per lo scudetto contro la vincitrice del Torneo Centro-Meridionale, il Livorno.
Nella stagione successiva le parti si invertirono: fu il Bologna a continuare la sua corsa, superando il girone eliminatorio emiliano, mentre la Juve si arenava in quello piemontese. I rossoblù sarebbero arrivati alla finale di Lega Nord, battuti dalla Pro Vercelli in una interminabile battaglia “ad oltranza” aperta da una rete di Cesare Alberti, finita 2-1 per i piemontesi dopo 128 infiniti minuti. Poi, la Pro Vercelli avrebbe vinto il suo sesto scudetto nella finalissima col Pisa. Era il 17 luglio 1921, si giocava a Livorno: il Bologna avrebbe dovuto aspettare poco meno di quattro mesi per incontrare, finalmente, quelli della Juve.

Il Bologna 1921-1922




LA PRIMA SFIDA – Campo dello Sterlino, intitolato alla memoria del grande Emilio Badini. E’ il 6 novembre 1921, sesta giornata del campionato dello “scisma”, quello che ha visto nascere la CCI, Confederazione Calcistica Italiana, su un progetto di Vittorio Pozzo e per volere dei grandi club, preoccupati dall’inclusione di troppe società minori nel campionato. Questa volta, Bologna e Juventus sono finite nello stesso girone, e finalmente possono affrontarsi. E’ il Bologna che Hermann Felsner, arrivato in città l’anno prima, sta pazientemente costruendo, e che arriverà ai vertici in un pugno di anni, mentre la Juventus sta marciando spedita verso uno dei momenti cruciali della sua storia: due anni dopo, nel 1923, diventerà proprietà della famiglia Agnelli, e conquisterà in fretta i vertici del calcio.
La tribuna-gioiello dello Sterlino strabocca di tifosi, c’è il pubblico delle grandi occasioni. La partita è un faccia a faccia senza timori reverenziali, almeno fino al 24’, quando Gaetano Gallo, ala arrivata un anno prima dal Carignano, approfitta di una incomprensione tra i terzini rossoblù Sacchi e Rossi e di una uscita un po’ avventata del numero uno Gianese, portando in vantaggio la Juve. Da lì in poi è un arrembaggio dei padroni di casa, che nel primo tempo non porta a nulla, ma al settimo della ripresa rimette la partita in equilibrio grazie alla rete di Cesare Alberti, bomber appena diciassettenne, talento assoluto che avrà un futuro travagliato e una vita breve e tragica ad attenderlo.

PRIME POLEMICHE – Tutto bene? Per gli annali del calcio, sì. La prima sfida finisce in parità, 1-1. Non restano scritte nero su bianco le turbolenze, gli animi agitati dei tifosi del Bologna. Nel corso del primo tempo, infatti, l’arbitro Mombelli di Casale Monferrato (cittadina ricca di gloria calcistica, a un centinaio di chilometri da Torino, a voler pensar male) non vede un fallo di mano di un difensore ospite in area. Il giorno dopo, quasi tutti i giornali scriveranno che era rigore, poche voci contrarie diranno che l’azione era dubbia. Di fatto, sugli spalti si rumoreggia, c’è anche un tentativo di invasione di campo sedato dai dirigenti rossoblù, e le testimonianze dell’epoca, ormai sbiadite, raccontano di un arrivederci frettoloso nel dopopartita da parte del direttore di gara.

Il campo dello Sterlino dedicato ad Angelo Badini




E’ NATA UNA “CLASSICA” – Insomma, partenza con scintille già dal debutto. Nella partita di ritorno, giocata al campo di corso Sebastopoli a Torino il 30 aprile 1922, stesso risultato: 1-1 con padroni di casa in vantaggio grazie a Cesare Sereno e Geppe Della Valle a rimettere tutto in equilibrio dopo un’ora di gioco.
Da lì in avanti, la sfida tra Bologna e Juventus sarebbe diventata un appuntamento di vertice: dalla stagione 1924-25, in diciassette stagioni le due società avrebbero portato a casa dodici scudetti. Proprio del 1925 è il primo timbro tricolore della storia rossoblù, seguito l’anno dopo da quello bianconero. Ancora Bologna nel 1928-29, poi la serie dei cinque titoli consecutivi juventini, fino alla stagione 1934-35, seguita da un’altra doppietta rossoblù. E a Bologna sarebbero finiti ancora gli scudetti del ’39 e del ’41, prima della seconda guerra mondiale. Intanto, la squadra aveva traslocato, portando le sue storie di gloria e vittoria in un teatro monumentale, il Littoriale. Senza più dimenticare quella prima volta allo Sterlino, il campo in discesa di fronte a Villa Hercolani, appena sotto la collina.

Più Stadio, 17 giugno 2020

domenica 7 giugno 2020

IL DOTTORE CHE FACEVA PAURA ALLE GRANDI




Fulvio Bernardini, prima grande giocatore e poi allenatore coraggioso e intelligente. Con lui il Bologna tornò a conquistare lo scudetto


di Marco Tarozzi


Per uno strano gioco del destino, le strade di due dei più grandi allenatori della storia del Bologna (il terzo, naturalmente, è Hermann Felsner) si incrociano molto prima che entrambi entrino nella storia rossoblù. Nel 1926, Arpad Weisz è il giovanissimo allenatore dell’Inter, Fulvio Bernardini uno dei suoi migliori giocatori. Arrivato dalla Lazio, dove aveva esordito come portiere, il romano, classe 1905, è un centromediano di grande talento, con una visione di gioco impareggiabile. Weisz, per valorizzarne la vena realizzativa, lo fa giocare centrattacco, ma intanto grazie alle insistenze del giocatore va a visionare un ragazzetto che gravita nelle giovanili nerazzurre, Giuseppe Meazza, rendendosi conto che Bernardini ha davvero la vista lunga, ed arretrandolo a mezzala sinistra per far posto proprio al ragazzino che diventerà una leggenda nerazzurra.


CAPITANO GIALLOROSSO – Una storia che la dice lunga sulla capacità di Bernardini di scoprire e valorizzare i giovani, così come i giocatori “dai piedi buoni”, frase coniata da lui in una delle sue tante vite, quella di giornalista di vaglia. Una dote che gli tornerà buona anche quando siederà in panchina.
Intanto, il nostro gioca due stagioni importanti a Milano, si guadagna anche una maglia da titolare alle Olimpiadi di Amsterdam, da cui tornerà con una medaglia di bronzo, e già dal ’25 sotto la guida di Rangone, è stato il primo giocatore del girone centro-sud a conquistarsi un posto in Nazionale.
Dopo l’Inter, il ritorno a Roma, sulla sponda giallorossa, appena costituita dall’unione delle forze di tre società (Alba Roma, Roman e Fortitudo). Ci resterà per undici stagioni, diventandone trascinatore e simbolo, leggenda del campo Testaccio dai cui spalti diventa familiare il coro “Er gran Fulvio Bernardini che dà scola all’argentini”, chiaro e ironico riferimento agli oriundi della Juventus dei cinque scudetti. E addirittura capitano dal ’34, raccogliendo il testimone da “Tillio” Ferraris.




LE CORNA AL DUCE – Tecnicamente perfetto, ma anche sanguigno in campo e fuori. Memorabile l’incidente diplomatico causato da “Fuffo”, come ormai lo ha ribattezzato la tifoseria giallorossa, che superando una berlina blu che procede lenta nel traffico fa il gesto delle corna, trovandosi il giorno dopo la polizia in casa perché quella macchina stava portando il Duce all’incontro con l’ambasciatore francese. Patente ritirata e questione risolta da Monzeglio, compagno di squadra due volte campione del mondo e maestro di tennis dei figli di Mussolini, con una partita “guidata” a Villa Torlonia. Bernardini, tennista provetto e anche classificato, guarda caso perde la sfida con il Duce e può tornare a guidare.

NAZIONALE PERDUTA – Il carattere tosto lo mostra anche a Vittorio Pozzo, che gradualmente lo mette ai margini della Nazionale. Pare che alla volontà del Ct di utilizzarlo sulla sinistra della mediana, il campione abbia risposto con toni accesi. Di fatto, Pozzo la spiega così: Troppo bravo, metterebbe a disagio gli altri e si romperebbe la coesione del gruppo”. Il gruppo è quello juventino di cui sopra, quindi per Bernardini porte chiuse e niente convocazione per la Coppa Rimet del ’34.
La Roma lo svincola nel 1939, e con la guerra alle porte lui cambia mestiere. A Milano, tra 68 presenze e 25 reti in due stagioni, aveva trovato il tempo di laurearsi alla Bocconi in Scienze economiche. Sceglie di fare il giornalista, e lo fa bene debuttando sul settimanale satirico “Il Travaso” e continuando sulle colonne dei quotidiani “La Tribuna” e “Corriere dello Sport”.
Poi raccoglie l’invito della sezione calcio del Dopolavoro della MATER (
Motori Alimentatori Trasformatori Elettrici Roma), “perché voglio chiudere da dilettante il ciclo che iniziai solo per diletto”. In effetti, lì inizia la sua carriera di allenatore, e quel ciclo non si chiuderà mai più.

SCHIAFFO ALLE GRANDI – Dalla Mater alla Roma, alla Reggina, al Vicenza e finalmente alla Fiorentina, dove compie un capolavoro. Una ricostruzione che in tre stagioni porta la squadra allo scudetto, consolidando la struttura italiana (Costagliola, Magnini, Cervato, Chiappella, Segato, Gratton) e pescando due sudamericani perfetti per un attacco da sogno, Julinho e Montuori. Il “Dottore” non si considera un tattico, ma inventa Maurilio Prini finta ala sinistra, col piacere di stupire che ritroveremo nello spareggio del 1964. Di fatto, lo scudetto della Fiorentina è il primo schiaffo di Bernardini allo strapotere di Juve, Inter e Milan. Il secondo lo assesterà proprio con il Bologna.


I DIVERBI COL PRES – Alla corte di Dall’Ara arriva dopo l’esperienza alla Lazio, con cui conquista la Coppa Italia del ’58. A parte quella fiammata, la squadra biancoceleste è modesta, una “Lazietta” commenta Gianni Brera, che ribattezza Bernardini, suo ex collega, “Dottor Pedata”.
Il presidente non è proprio innamorato del tecnico, gli avrebbe preferito Viani o Rocco, ma ha l’intuizione di affidarsi a lui per rinverdire i fasti degli anni Trenta.
Le scaramucce tra i due diventano proverbiali. “Quell’uomo lì, quasi quasi lo odio! Mai che venga a far visita, mai che mi racconti chi farà giocare domenica, mai che mi metta in squadra Vinicio e Nielsen. E poi il suo calcio poetico del cavolo…io voglio il catenaccio metropolitano, altroché i suoi fioretti di San Francesco!”, sbotta Dall’Ara. E il “Dottore” replica.  “Se vuole un tattico, si prenda Rocco… Se vuole un servo che vada a giocare a briscola nel suo ufficio, si prenda una delle sue segretarie! E poi Vinicio e Nielsen insieme non li faccio giocare, perché non mi va.. punto e basta!”.

Amen. E’ un falso amore odio, che nasconde stima reciproca. Nasce il Bologna che “così si gioca solo in Paradiso”,e  quando nella stagione 1963-64 arriva Negri ad abbassare la saracinesca dietro a una difesa tosta composta da Janich, Furlanis, Tumburus e Pavinato, ecco servita la ricetta per lo scudetto.

SOGNO REALIZZATO - L’arretramento di Bulgarelli a copertura di Haller e Fogli rinforza una mediana “dai piedi buoni”, come piace a Fuffo. Perani e Pascutti alimentano la fame di gol di Nielsen, che sarà capocannoniere del torneo. Non basta neppure la congiura del doping a mettere fuori causa il Bologna. E il giorno dello spareggio, Bernardini si conferma tattico finissimo, con l’invenzione di Capra falsa ala sinistra, a contenere Corso. Dall’Ara non potrà vedere il suo sogno realizzato, e Bernardini piangerà lacrime venute dal profondo del cuore per lui. E con una vena di malinconia consegnerà alla storia del calcio italiano il suo secondo sberleffo rivolto alle grandi potenze del campionato. Il più bello, per chi vive da queste parti.

Più Stadio, 6 giugno 2020




mercoledì 3 giugno 2020

L'ULTIMA BATTAGLIA DEL PRESIDENTE





Il 3 giugno, a quattro giorni dallo spareggio, Renato Dall’Ara è in Lega a Milano per discutere di premi partita col collega Moratti. E lì il suo cuore cessa di battere



di Marco Tarozzi





Sono giorni concitati, convulsi. Perché un finale di campionato così non si era mai visto, né mai più si vedrà. Il 16 maggio è arrivata la decisione finale ed inappellabile della Caf riguardo alla vicenda-doping, che ormai è palesemente derubricata alla voce “solenni montature”. Il Bologna, innocente come i suoi cinque incriminati, riottiene i tre punti che gli erano stati tolti con un’ingiusta penalizzazione e si ritrova in cima alla classifica, a pari merito con l'Inter. E nella stessa situazione le due prime della classe si trovano dopo il fischio finale delle partite dell’ultima giornata, il 31 maggio: un rigore di Haller dà ai rossoblù la vittoria sulla Lazio, mentre un’Inter affaticata dalla sfida vittoriosa di Coppa Campioni col Real Madrid batte l’Atalanta, 2-1. La classifica dice che Bologna e Inter sono prime a quota 54. Occorre lo spareggio, novità assoluta nella storia della Serie A. E bisogna pensare a tutto, anche ai dettagli, in pochi giorni.



DIVERSI E UGUALI – Focus sui presidenti, adesso. Dall’Ara e Moratti sono così diversi e così uguali. Entrambi hanno costruito le loro fortune partendo dal basso, per necessità o per scelta. Renato Dall’Ara, per dire, da un piccolo maglificio poi diventato fabbrica, più precisamente laboratorio di confezioni “lana purissima” su cui ha costruito le fortune personali. Angelo Moratti, figlio di borghesia benestante, padre farmacista, si è allontanato ancora ragazzo dalla famiglia, dopo la morte della madre e la difficile convivenza con la matrigna; a partire da quando aveva sedici anni ha fatto molti mestieri, poi da rappresentante di combustibili è diventato produttore, da oltre trent’anni precorre i tempi e cavalca l’onda di scenari in evoluzione, ha fondato da appena due anni il colosso Saras, in Sardegna, ed è ormai considerato il “grande petroliere d’Italia”.



IL PADRONE SONO IO – Hanno un modo molto simile di trattare l’argomento calcio, e di gestire le loro società. Presidenti-padroni, che si muovono in prima persona senza necessità di avere intorno troppi consiglieri. Filiera che più corta non si può. Non si contano i “ci penso io” di Dall’Ara, e significano esattamente questo, che il problema va risolto in prima persona. Quanto a Moratti, vale per tutto una sua dichiarazione: “Tutta l’Inter è personalmente mia”. Ecco, ad una manciata di giorni dallo spareggio del 7 giugno, tocca a loro dirimere anche le ultime questioni.
Dall’Ara non si fa certo intimorire dal carisma del petroliere. Va giù deciso, a margine di un’intervista concessa in quei giorni a Luciano Parisini: “Senta, sa cosa ci dico io a quello lì: mi faccia il pieno e mi lavi i vetri…”



TRISTI AVVISAGLIE“Vado nel suo ufficio a Milano e gliene dico quattro. E ci vado da solo!”. Dall’Ara non sta bene e lo sa. Ha il cuore malandato, gli consigliano di non affrontare le fatiche di un viaggio, seppur breve. E’ reduce da una lunga convalescenza, due mesi a letto e una villeggiatura a Napoli, dopo che l’esplosione del “caso doping” gli aveva dato il colpo più forte e brutto di tutti. E’ tornato al Comunale dopo una lunga assenza proprio per assistere alla partita dell’ultima giornata contro la Lazio, ma ha dovuto prendere anzitempo la strada di casa. Troppe emozioni, soprattutto nel momento in cui ha circolato la notizia, poi evidentemente risultata falsa, del pari tra Inter e Atalanta e del conseguente scudetto già cucito sulle maglie rossoblù. A posteriori, un osservatore attento come Vittorio Pozzo scriverà che gli sono state fatali proprio le emozioni di quella sera.
Proprio per questo il consiglio è quello di non prendere la strada per Milano. Ma lui non sente ragione, deve salvaguardare il suo Bologna, i suoi ragazzi, il suo sogno che, dopo anni di vacche magre, ha saputo ricostruire con pazienza e intelligenza.

FACCIA A FACCIA - Non serve, andare nell’ufficio di Moratti. La convocazione arriva dal presidente della Lega Nazionale, Giorgio Perlasca, e Dall’Ara mercoledì 3 giugno sale in auto a Milano insieme alla moglie Nella e al medico di fiducia, il dottor Pinetti. C’è da stabilire l’entità del premio partita da erogare ai giocatori impegnati nello spareggio dell’Olimpico, e il presidente rossoblù vuole che le cifre siano eque e ben distribuite. Perlasca ci vede anche l’occasione per allentare la tensione in vista della sfida, ed attenuare le frizioni tra le due società, alimentate anche da una stagione piena di colpi di scena a tinte gialle.
Moratti arriva alle 17.22, i tre si chiudono nell’ufficio di Perlasca. La signora Nella ne approfitta per andare a fare qualche commissione, quello che adesso chiameremmo “shopping”, il dottor Pinetti resta al di là della porta, in sala d’attesa. La discussione parte serena, e ufficialmente resta tale fino all’epilogo, ma nel tempo si comincerà a parlare di toni che si erano fatti via via più concitati. Ci sta, Dall’Ara ha un carattere impulsivo, ed è lì per difendere il Bologna. All’improvviso, si appoggia allo schienale della sedia, poi si piega verso sinistra, cade quasi in grembo a Moratti che lo sorregge. Arriva il dottore, è una questione di secondi. Ma non c’è niente da fare: infarto fulminante, il presidentissimo questa volta ha chiuso gli occhi per sempre.



IN NOME DEL “PRES” – Ha soltanto settantadue anni, Dall’Ara, nei quali ha accumulato troppe fatiche. Al Bologna ha dato trent’anni di passione e, al momento della morte, tanta splendida argenteria per la bacheca: quattro campionati italiani (in attesa del quinto, da conquistare a giorni), una Coppa Europa, il Torneo dell'Esposizione di Parigi, la Coppa dell'Europa Centrale.
La notizia arriva a Bologna in un attimo, la sconvolge. La società chiede un rinvio, che viene respinto. Si deve giocare il 7 giugno, non c’è tempo per elaborare il lutto. Destino assurdo: Dall’Ara non potrà vedere il capolavoro finito, dopo tanti anni di sofferenza, di critiche, di lavoro per riportare il Bologna ai vertici. Ma se la sorte è stata spietata, se la salita è stata così dura, adesso il Bologna ha un motivo in più per farsi padrone del proprio destino e portare a casa quel settimo scudetto.

Più Stadio, 3 giugno 2020




sabato 30 maggio 2020

ANNIVERSARIO



30 maggio 1975.

Quarantacinque anni, oggi. Io iniziavo a correre, tu volavi via. Incominciai a leggere di te. Poi a cercare notizie su di te. Poi a ispirarmi a te, in qualche modo. Poi a scrivere di te.

Non lo so se ho sprecato il Dono. Ma so che sei ancora qui.
Grazie di tutto, Pre.


venerdì 22 maggio 2020

FATTI DI GENTE PERBENE



Quando se ne va qualcuno, di solito si abbonda in elegìe, e tutti, davvero tutti, di fronte all’ultimo viaggio vengono dipinti come “brave persone”.
Nel caso di Gigi Simoni, che se ne è andato oggi, a 81 anni, all’ospedale di Pisa, il concetto di “brava persona” è quasi riduttivo.
Gigi Simoni era nato a Crevalcore il 12 gennaio 1939.
E’ stato un uomo di calcio. Un buon giocatore di Serie A, poi un grande allenatore, più vincente di quanto non si ricordi.
Ma soprattutto, Gigi Simoni è stato una persona davvero unica. Umanamente, prima ancora che sportivamente.
Uno con cui ogni intervista si trasformava in una chiacchierata, uno che non ti negava mai un po’ del suo tempo, uno che alla fine ti diceva anche grazie, mentre il più delle volte avremmo dovuto ringraziarlo noi.
Ha affrontato la fatica più straziante per un padre, la morte di un figlio, con dignità e riserbo. Offrendo anche in quel frangente una parola a chi, per mestiere, doveva pur chiedergliela, mentre lui continuava a cercare una risposta a qualcosa di inspiegabile.
La sua carriera nel mondo del calcio è stata lunga e piena di momenti da incorniciare.
Da giocatore ha indossato le maglie di Mantova, Napoli, Torino (con l’altro Gigi, Meroni, entrambi voluti da Nereo Rocco nel 1964), e poi Juventus, Brescia e Genoa. Col Napoli ha vinto la Coppa Italia nel '62.
Da tecnico ha guidato diciassette club diversi in una carriera trentennale, con l'amarezza di non essere riuscito a strappare alla Juve uno scudetto pieno di polemiche (stagione 1997-98, quella del contatto in area tra Iuliano e Ronaldo non sanzionato col rigore). Nel '98, però, Gigi conquistò la Coppa Uefa in nerazzurro, e gli fu conferita la Panchina d'oro, miglior tecnico italiano della stagione.
L'ascesa della Cremonese nel calcio di alto livello in Serie A fu uno dei suoi capolavori, e infatti a Cremona lo hanno eletto “allenatore del secolo”, in occasione del centenario della società. Mentre il Genoa lo ha inserito nella propria Hall of Fame.
E’ il recordman di promozioni dalla Serie B alla A: ben 7 (più una dalla C alla B, come direttore tecnico).
Un lungo cammino, spesso vincente, affrontato senza mai alzare la voce, senza polemiche. Soprattutto in quel ’98 avrebbe avuto ragione di farne, ma si è sempre limitato a dire che quell’azione e quel fallo non sanzionato non era più riuscito a rivederli per anni, cancellandoli dal video e dalla memoria.
Il 22 maggio di dieci anni fa l’Inter completò la cavalcata trionfale che le regalò il Triplete. In un giorno di festa, se ne è andato un protagonista mite e discreto della sua storia.
Un signore, Gigi Simoni da Crevalcore.
Chi sogna un calcio migliore e pulito, dovrebbe avere un pensiero per lui.
E Gigi, non ti rammaricare troppo per quello scudetto portato via. E’ alle persone perbene che, ogni tanto, i prepotenti si divertono a togliere qualcosa. Ma i prepotenti hanno già perso in partenza, se non altro quella dignità che tu ti sei tenuto stretta fino all’ultimo.


venerdì 15 maggio 2020

L'AMERICA, SECONDO "STUZIGA"


Renato Gardini, campione della lotta greco-romana con i colori della Virtus, poco più di un secolo fa scelse l’America per diventare un wrestler da leggenda

di Marco Tarozzi

Avete presente il wrestling, strano passatempo a metà strada tra il gioco e lo sport vero, che tra colpi ad effetto ricostruiti ad arte e gesti di atletismo puro ha fatto impazzire gli americani, fino a sbarcare anche da noi, attraverso la televisione? Ecco, allora sappiate che dentro tanta finzione, dietro a cadute e voli da stuntmen, dietro anche a qualche pagliacciata montata ad arte a beneficio del pubblico pagante, ci sono stati e ci sono atleti veri, magari arrivati dritti da altre discipline. E se sfogliate le pagine di “Legends of Pro Wrestling”, che racconta un secolo e mezzo di questa forma di spettacolo, prima ancora che disciplina sportiva, e dei suoi eroi, molto prima di arrivare al capitolo su John Cena potete imbattervi nella storia di un ragazzone di Bologna che dall’altra parte dell’oceano ha fatto fortuna. Si chiamava Renato Gardini, e se qualcuno avesse dubbi possiamo assicurarvi che era un atleta con la A maiuscola.


EMULO DI “STIANCON” – Nato nel marzo del 1889, Renato cresce nel mito dei colossi che si esibiscono alla Montagnola tra fine Ottocento e il primo decennio del ventesimo secolo. Nel parco è allestita una specie di grande palestra in legno, alla fine dei conti un baraccone provvisorio, dove si svolgono allenamenti ed esibizioni dei migliori “pugilatori” bolognesi, guidati dal ligure Piero Boine, pioniere dell’arte della boxe in Italia. Accanto a loro, spopolano ginnasti, pesisti e lottatori, nomi amati dai bolognesi come “Stiancòn”, al secolo Riccardo Giovannini, o Achille Montagna (omen nomen). Cresce lì, il ragazzo. Famiglia di umili origini, passione per la lotta che aumenta giorno dopo giorno all’ombra di quei giganti leggendari. “Essere Montagna”, a Bologna, non è un riferimento alle catene alpine, ma a un campione in carne ed ossa.
Renato, dunque, coltiva la sua passione mostrando sul petto, con orgoglio, il simbolo di una società destinata a diventare leggendaria. Ha fatto sue le quattro parole che illustrano, meglio di mille discorsi, il sentimento di chi sta crescendo in quel tempo a casa Virtus: Forte, Franco, Fiero, Fermo. E dagli anni Dieci del secolo scorso, si comincia a fare i conti anche con lui.





RE DI COPPA – Nel 1911, il nome di Renato Gardini finisce sui titoli di tutti i giornali. La Coppa Reale di Pentathlon in quel periodo è diventata la gara di atletica più importante in Italia. Nel programma ci sono corsa veloce, lancio del disco, salto in alto, salto in lungo e lotta greco-romana. Renato trionfa raccogliendo il testimone da Angelo Pedrelli, altro talento virtussino, vincitore della manifestazione nel 1910. E nel 1912 farà il bis, lasciandosi alle spalle proprio Pedrelli. La Coppa Reale è una competizione seguitissima. “Uno scontro tra atleti completi nel vero senso del termine, atleti in grado di sostenere sforzi rilevanti in rapida successione e, necessariamente, di recuperare in breve”, la definiscono i giornali. Insomma, qualcosa di epico.


“STUZIGA” ALLE OLIMPIADI – Nel 1912, Gardini approda anche alle Olimpiadi di Stoccolma, vincendo le selezioni nazionali. La sua prestazione nella greco-romana è sfortunata. Ha la meglio, nei primi due turni, sull’austriaco Testler e sul finlandese Lind, ma poi si trova la strada sbarrata da un paio di svedesi, Nilsson e Ahlgren. Le cronache del tempo ci ricordano come il bolognese abbia dovuto lottare anche con chi, nel giudicare gli incontri, avrebbe in qualche modo tenuto conto della nazionalità degli avversari, che giocavano in casa. Insomma, fuori al quarto turno.
Renato guarda avanti. Archivia l’avventura olimpica, e nel 1913, dopo aver vinto il titolo italiano assoluto dilettanti, vince per la terza volta consecutiva la Coppa Reale, consegnandosi al mito. A Bologna lo hanno soprannominato “Stuzìga”, perché sul tappeto gli piace provocare gli avversari, facendoli deconcentrare. Ma Bologna ormai gli va stretta, così come l’Italia. Sale sul ring, provando per qualche tempo la via del pugilato, poi guarda oltre. Di là dall’oceano.






LA CONQUISTA DELL’AMERICA – Negli Stati Uniti c’è una disciplina che sta prendendo piede velocemente. Si chiama Catch as Catch Can Wrestling, uno stile di lotta popolare nata sul finire dell’Ottocento, codificata nel 1904, quando George Hackenscmidt ha conquistato il primo titolo mondiale, infine sdoganata dalle imprese di Frank Gotch. E’ lì che “Stuzìga” punta la prua del suo spirito d’avventura, e ci mette davvero poco a conquistare i palazzetti americani. Arriva a Ellis Island nel dicembre 1914, di lì a poco sta già facendosi conoscere al New York City Tournament. Entra nel circuito professionistico, gira gli States e nel 1920, a Boston, diventa campione mondiale tra i “pro”, nella categoria mediomassimi. In poco tempo è un personaggio famoso, le “Little Italy” delle grandi città se lo contendono. Una fotografia lo immortala mentre scherza con Enrico Caruso, esempi di un’Italia che ce l’ha fatta a fare fortuna dall’altra parte del mondo. Nel 1922 la sua sfida a Ed “Strangler” Lewis porta 12mila tifosi al Madison Square Garden di New York. Nel 1924, ancora un titolo mondiale, questa volta assoluto, conquistato a Filadelfia. Mentre in Italia si è accesa la stella di un altro bolognese, Bruto Testoni della Sempre Avanti, il virtussino Gardini raccoglie allori a stelle e strisce.

RITORNO A BOLOGNA - Combatterà ancora a lungo, il campione bolognese. E rivedrà la sua città a metà degli anni Trenta, esibendosi al Teatro Duse e al Teatro Verdi, durante una tournèe promozionale che lo porterà anche a Trieste, Milano, Torino e Rimini. La sua opera di proselitismo continuerà in Sud America, tra Brasile ed Argentina. E purtroppo a Buenos Aires, nel 1940, un incidente d’auto lo porterà via a soli cinquantun anni. Consegnandolo alla leggenda dello sport bolognese, e non solo.

Più Stadio, aprile 2020

giovedì 7 maggio 2020

PUGNI, SOGNI E SALUMI



Dante Canè, il campione generoso cresciuto in San Donato, che amava Cavicchi e arrivò a un soffio dal sogno europeo

di Marco Tarozzi

Aveva un cuore così, il ragazzo della salumeria. Se ne accorse subito anche il grande Cavicchi, l’eroe di quei tempi, a cui capitava spesso di incrociare i guantoni con lui in palestra, durante gli allenamenti. “S’avess me la voja ed lu què, a srev bèla campiàn dal mand”. Eh sì, Checco aveva tecnica e fisico, ma si era convinto a fare il pugile professionista perché la faccenda rendeva, e dopo ogni match poteva tornare a coltivare la sua terra a Pieve di Cento, magari con un trattore o un po’ di vacche in più. Dante Canè, invece, sul ring metteva davvero il cuore. Aveva la “tigna”, come si dice a Bologna. Era un armadio, sì, ma non certo un Apollo. Un po’ di maniglie dell’amore, per dire, anche se non certo come Bepi Ros, eterno rivale di cinque epiche sfide con in palio il titolo italiano dei massimi. E non si arrendeva mai, Dante. Quanto bastò per mettere in fila quattordici lunghi anni di professionismo, dal 1964 a Natale del 1978, due assalti al titolo europeo e cinque tra salite e risalite sul trono d’Italia: re dei massimi, tanta roba per uno che fuori dal ring affettava mortadella nella salumeria di famiglia, all’angolo tra via San Donato e via Galeotti. Il suo piccolo regno, la sua vita.

SULLE ORME DI CHECCO – Era cresciuto lì, Dante Canè. Il quartiere, il negozio, la balotta degli amici, quelli delle zingarate vere, come prendere la bici in compagnia e partire al sabato per il mare, e poi tornare la domenica sera sfiniti, dopo aver pedalato in ventiquattr’ore dall’Emilia alla Romagna, andata e ritorno. Roba d’altri tempi. E poi la palestra della Sempre Avanti, dove era entrato nel 1957, un po’ per curiosità e un po’ perché allora gli eroi del pugilato facevano breccia nel cuore degli sportivi, e tutti gli dicevano che con quel fisico lì, dai, bisognava provarci.
Ci provò, dunque, e incontrò subito Cavicchi, il suo idolo, e soprattutto il maestro Leone Blasi, che ci mise poco a capire che quel ragazzo avrebbe potuto fare una strada molto più che dignitosa. Narrava Dante che il primo con cui gli toccò incrociare i guantoni in palestra fu Minarelli, un mediomassimo molto quotato, e che quando lo mise al tappeto con un destro che sembrava un macigno, si prese un po’ paura. Non gli era mai successo, e lì per lì non si rese conto che aveva appena infilato una strada vincente.



LE SFIDE CON BEPI – Due anni dopo, il gigante di San Donato era campione italiano Novizi, titolo che poi conquistò altre tre volte. Nel 1964, quando passò al professionismo, aveva alle spalle un titolo mondiale militare, una semifinale agli Europei, 104 incontri con 94 vittorie. Prima sfida, il 18 dicembre di quell’anno nella sua Bologna, contro Dino Biato che andò giù alla seconda ripresa. La cintura tricolore dei massimi la indossò per la prima volta l’11 giugno 1969, al mitico teatro Ariston di Sanremo, battendo quel Piero Tomasoni che già lo aveva battuto due anni prima, sempre col titolo in palio, e con cui alla fine avrebbe incrociato i guantoni tre volte. Quel tricolore lo avrebbe conquistato in tutto cinque volte, l’ultima nel 1977 contro Cattani, e tra difese, sconfitte e riconquiste ci si sarebbe battuto sul ring quindici volte. Memorabili le sfide con Bepi Ros, la “roccia del Piave”, eccezionale incassatore sempre un po’ sovrappeso. Dante lo affrontava con quell’aspetto da Peppone guareschiano, il burbero buono che nella vita era un pezzo di pane e sul ring spendeva fino all’ultima goccia di sudore. Fu una sfida alla pari, nel corso di sei anni, tra il ’70 e il ’76: due vittorie a testa e un pari che, nell’occasione, fu prezioso per Dantone che mantenne il titolo.

L’AMERICA E’ QUI – Aveva anche attraversato l’oceano, Canè. Due sfide al Madison Square Garden di New York nel 1967, vittoria con Jerry Tomasetti e sconfitta con James Woody. Altre tre l’anno successivo, ancora vittoria con Tomasetti, e poi sconfitta a Toronto col più grande incassatore della storia del pugilato, George Chuvalo, che aveva resistito anche al grande Muhammad Ali e in carriera non sarebbe mai andato al tappeto. Poi, ancora New York contro Davila e il ritorno a casa, perché, diceva Dante, un ragazzo di San Donato non può poi starci così a lungo, in America.


IL SOGNO EUROPEO – Il sogno vero, del resto, era l’Europa. E ci andò davvero vicino, al titolo, il 28 febbraio 1975 davanti alla sua gente al palasport di piazza Azzarita. Diecimila persone paganti, altri tempi per la boxe. L’inglese Joe Bugner, detentore, approcciò l’impegno con sufficienza, ma Dantone gli fece capire subito che ci sarebbe stato da sudare. Più tecnico il campione, anche più scafato e “sporco”, come quando alla terza ripresa aprì una ferita al sopracciglio del nostro, e non si capì mai se era stato un destro o una testata. Più coraggioso, più appassionato Dante, che resse sanguinando altre due riprese prima che l’arbitro fermasse l’incontro proprio a causa di quella ferita, e alla fine uscì dal palazzo come il vincitore morale, portato in trionfo dai tifosi.

L’ULTIMA SFIDA – La seconda volta, ormai, era troppo tardi. Giorno di Santo Stefano, 1978. Dante Canè ormai trentottenne contro Alfredo Evangelista, ventiquattro primavere e nel pieno delle forze, che già si era battuto per il mondiale Wbc con Alì e, un mese prima, con Larry Holmes. “Ma sì, le speranze erano quelle che erano” confessò poi il nostro a Gianfranco Civolani, “ma vai a sapere che Mi fosse riuscita una culata, chi lo sa…”
Niente da fare, i sogni non sempre si avverano. E dopo quella serata nel suo palazzo, Dantone abbassò la saracinesca di una disciplina che ha amato, “perché ho visto una bella fetta di un mondo tutto pieno di luci”.
Non aveva compiuto sessant’anni quando un giorno uscì dalla sua bottega, dove ancora gli chiedevano di quei giorni felici, per prendere una boccata d’aria. Cadde sul marciapiede e i primi che arrivarono gli dissero “mo dai Dante, tirati su”. Lui non si alzò più, e ci lasciò il ricordo di un guerriero dalla faccia buona.


Più Stadio, 6 maggio 2020






martedì 5 maggio 2020

UNA CITTÀ DA GUARDARE SUL MURO



Un anno dopo, i giorni della Final Four, la trasferta bianconera, il tragitto dall’albergo al palazzo unica strada conosciuta. E l’emozione di alzare un trofeo continentale davanti a 23mila persone

di Marco Tarozzi


Primo maggio 2019. Ad Anversa fa freddo. Un freddo da tardo inverno, altro che primavera inoltrata. E la prima cosa che colpisce è vedere tutta quella gente che viaggia sulle ciclabili anche sotto certi scrosci d’acqua improvvisi. Un poncho addosso e via, pedalare controvento. E accidenti se tira, quel vento. Ad Anversa fa freddo, ma non dentro al cuore. C’è come un messaggio negli occhi di tutti quelli che sono partiti per andare incontro all’Europa. Perché di quello si tratta. Un altro pezzo di storia da assemblare a quella di un passato pieno di gloria. E un pezzo d’Europa da riconquistare, dopo tante tribolazioni. In sei stagioni alla Virtus, passate ad occuparmi di comunicazione, non ne avevo ancora sentite di vibrazioni così. Non dico più o meno forti di altre, dico proprio diverse.

UNA RINASCITA – C’era stato lo smarrimento dopo la retrocessione, che è qualcosa che colpisce forte, come una bastonata tra le spalle, e colpisce tutti. Puoi aver dato il massimo, puoi anche avere la coscienza a posto, ma il tuo lavoro si confonde e sbiadisce dentro una stagione così. C’era stato l’orgoglio della rinascita, quella cavalcata trionfale sui parquet della A2, la Coppa Italia di categoria e la promozione, roba che può anche far storcere il naso al tifoso intransigente, ma respirata da dentro aveva il profumo di qualcosa fatto alla vecchia maniera, conquistato da un gruppo di amici che si divertono insieme. Adesso c’è il freddo di Anversa. Città bellissima, dicono. Ad averla vista, si potrebbe anche avere un parere.


PACE E FUOCO - Ci sono gigantografie della città a tutta parete, ad ogni piano dell’albergo , davanti agli ascensori. Al mio, uno scorcio del centro storico. L’ho fotografato e mandato agli amici, per far vedere che i viaggi sono lavoro ma anche cultura. Di fatto, la città non l’ho praticamente vista. Giusto così, siamo qui per lavorare. E per regalarci, tutti, qualcosa di importante e irripetibile.
Ci credono in tanti, o almeno qualcuno ci ha scommesso. La troupe di RaiSport scesa nello stesso albergo. Così quella di Eurosport, con Marco Barzizza e cameraman che addirittura hanno seguito passo passo la squadra dalla partenza, per preparare uno speciale che poi potrà raccontare la Final Four con l’occhio dei vincitori. Quando le scommesse sono azzeccate, appunto.
Insomma, bisogna stare sul pezzo. E proprio qui, in questa hall durante un’intervista, Sasha Djordjevic conia la frase a effetto che diventa il mantra della spedizione. “Pace nella testa, fuoco nel cuore”. La chiave per la felicità.






LA GRANDE ARENA – Le scoperte. Marco Patuelli, responsabile operativo e mio compagno di stanza, segnala che a mezzo chilometro dall’hotel c’è un supermercato. Approfittando di una finestra di quaranta minuti tra un paio di interviste, mi fiondo a fare scorta di scatole di cioccolatini per i regali, non potendo puntare sui diamanti. C’è finalmente il sole e trovo superfluo portarmi un ombrello. Naturalmente, il solito scroscio di pioggia gelata mi accompagna sulla via del ritorno.
Per cinque giorni, il pullman messo a disposizione dall’organizzazione della Final Four (stesso autista, stesso accompagnatore che ci seguirà con mamma e papà fino ai saluti finali del lunedì mattina all’aeroporto) ci fa imparare a memoria lo stesso percorso. Dall’albergo allo Sportpaleis e ritorno. Per gli allenamenti, per le due partite, per le conferenze della vigilia.
Prima istantanea: quel palazzo incredibile, 23mila posti a sedere, che si riempie a poco a poco nella prima giornata, il 3 maggio, regalando la sensazione di essere davvero nel cuore di un evento irripetibile. E di nuovo un abbraccio ai tifosi di Bologna, tanti come chi si muove sentendo qualcosa nell’aria che non si può spiegare, bisogna soltanto esserci. E quelli di Tenerife, pochi ma coloratissimi e rumorosi. E i tedeschi, rassegnati. E quelli di Anversa: in uno sguardo, la risposta alla domanda delle domande, come mai proprio qui un palazzo che è una cattedrale dello sport? Qui, ogni volta che in cartellone c’è un evento, è “sold out”. Musica, soprattutto. Secondo Billboard, sarebbe la seconda arena più visitata al mondo dopo il Madison Square Garden. Bene, qualcosa di unico l’ho visto.


IL GRAN FINALE – Posso gettare i fogli sparsi dove avevo annotato, sai mai, tutti i posti a un’ora di macchina. Gand, la splendida Bruges, la stessa Bruxelles che sarebbe il centro di questa Europa cosiddetta unita. E Terneuzen, per vedere l’oceano già in terra olandese.  Niente, si vive qui. Fino al gran finale.
E quello resta davvero nella mente e nel cuore. La sera del 5 maggio, Punter come un anno prima gioca da MVP. la squadra gira e tiene a distanza Tenerife, Mario Chalmers sornione per tutta la partita inventa la genialata da NBA a poco più di un minuto, e chiude la partita. La Basketball Champions League è della Virtus.
Poi, i dettagli che restano negli occhi e resteranno nel tempo. Il ragazzo che arriva nello spogliatoio coi bicchieroni di plastica colmi di birra De Koninck, un biglietto da visita, altro che champagne. Baldi Rossi sulle spalle di Pajola a tagliare la retina del canestro, la squadra al centro del campo che alza il trofeo, la gioia dei tifosi. E finalmente il centro, attraversato a piedi dopo mezzanotte, e la festa nell’unica pizzeria aperta, immagini di Napoli alle pareti e la pizza più malriuscita che abbia mai assaggiato. Eppure, accidenti, anche quella sembra avere un profumo speciale.


TORNANDO A CASA – Di notte, il trolley da sistemare. Domani sarà ancora lunga, un lunedì di passione. Anversa-Milano, poi un viaggio interminabile in pullman, con l’autostrada bloccata e una mezza avventura per le strade provinciali. E a Casa Virtus la gente che aspetta per far partire la festa. Arrivo previsto alle 20, poi alle 21, poi ancora più in là. Sono le 22.30 quando si aprono i cancelli dell’Arcoveggio. La Virtus si è ripresa un po’ d’Europa. Aradori esce per primo, alzando la coppa. Sono in mille ad aspettarlo. E’ quasi notte e sembra giorno, e soprattutto non fa più freddo.

Più Stadio, 5 maggio 2020

(fotografie di Massimo Ceretti/Ciamillo-Castoria)