giovedì 13 agosto 2015

LO CHIAMAVAN DONDOLO




 
Quattro stelle sono già salite in cielo. Consegnate alla leggenda, come quella stagione memorabile che regalò al Bologna il suo settimo e ultimo scudetto.
Harald Nielsen si ritroverà, lassù, con Giacomino Bulgarelli, il ragazzo che mai tradì la sua terra, a Helmut Haller, così diverso e così pieno di talento, di cui riuscì a diventare davvero amico soltanto dopo gli anni giocati, e proprio grazie a quel ricordo intenso che li univa. E a Carlo Furlanis, che se ne è andato due estati fa. Questi sono i pezzi pregiati che oggi ci mancano, ma che ci restano perché insieme agli altri ragazzi in rossoblù realizzarono un sogno mai più rivissuto. Sono lì, accanto a Fulvio Bernardini, il Dottore, che li guidò, e a Renato Dall’Ara che non potè neppure godersi quella gioia, e la cui scomparsa segnò l’inizio della fine di un ciclo.

Era stato lui, il presidentissimo, a volere con tutte le forze il “giovane Aroldo”. Così come aveva rincorso e conquistato il talento di Haller. Una storia da ricordare.

In Danimarca, Dall’Ara aveva consiglieri d’eccezione in Jensen e Pilmark, mai dimentichi dei loro anni in rossoblù. Furono loro a segnalargli un centravanti di nome Harald Nielsen. Giocatore molto ben messo fisicamente, con una tecnica calcistica decisamente migliorabile, ma dotato di una predisposizione unica per il gol. Se occorre uno che sappia trovare la via della rete, gli assicurarono, quello è l’uomo giusto.

Dall’Ara non perse tempo e acquistò subito il cartellino prima che la fama del giocatore raggiungesse i grandi club fuori dalla Danimarca.

Così quando Nielsen, centravanti della Nazionale danese che alle Olimpiadi di Roma conquistò la medaglia d’argento, si rivelò sulla platea internazionale, i giochi erano ormai fatti.
Nielsen era già un idolo in Danimarca, un campione affermato: aveva debuttato in Nazionale a diciotto anni, era stato più volte capocannoniere in B e in A. Ed era anche un sex symbol, tanto da aver recitato parti importanti in pellicole in cui ruoli basilari erano affidati alla sua futura moglie. Proveniva da una famiglia benestante, con interessi commerciali a livello non solo nazionale, e vantava una cultura universitaria. Era un ottimo promotore di sé stesso.

Con lui Dall’Ara impostò la trattativa su un piano prettamente commerciale. Capì al volo che Nielsen cullava il sogno di  affermarsi come calciatore a livello europeo e che l’aspetto economico non era la discriminante assoluta. Puntò sulla ribalta che il Bologna poteva assicurargli. Nielsen aveva le idee chiare, e non tirò la corda. In seguito, si sarebbe rivelato uno degli ossi più duri nelle famose trattative del presidente con i suoi giocatori.
Per i bolognesi, dopo i nickname provvisori (“al danàis”, Haroldo), Nielsen diventò presto “Dondolo”, per quel modo di caracollare nell’aria avversaria e di  lavorare palloni molto  tagliati.

Haller, il regista, una specie di brasiliano di Germania. Nielsen, opportunista, gran segugio del gol. Troppo diversi per legare tra loro, fuori dal campo. Lo stesso Helmut avrebbe ricordato così quel rapporto delicato. “Io e Harald avevamo caratteri diversi. Questo l'hanno capito tutti, direi. Ma in campo ci rispettavamo e ci capivamo al volo, questo è certo… Giocavamo un football formidabile, tecnicamente eccezionale. Ma non ricominciate con quella storia. Io Nielsen non l'ho mai odiato”.

Certo, Helmut parlava parecchio, era un tedesco dall’animo latino, e a volte si lasciava scappare con la stampa qualche commento che il compagno non gradiva. L’altro, si sa, leggeva libri in ritiro invece di giocare a carte. All’epoca, i calciatori che si estraniavano nelle letture erano roba “pericolosa”. Chi sta in disparte non fa gruppo, era il concetto di fondo. “Dondolo” ci ragionava sopra, serafico. “Dite che non parlo tanto? Quante volte ho detto no a un’intervista, a una chiacchierata? Certo, ho le mie abitudini e non ho un carattere latino, ma chi pensa che sia un solitario ha sbagliato di grosso”.

La situazione si sarebbe poi acutizzata dopo lo scudetto, e non a caso dopo la morte di Dall’Ara, che teneva unito quel gruppo e sapeva far convivere personalità diverse. Quel Bologna fu il suo ultimo capolavoro, Haller e Nielsen erano pietre preziose per renderlo unico.

A suo modo, caracollando fino a diventare appunto “Dondolo”, talvolta estraniandosi per lunghi tratti di partita, Nielsen seppe entrare nel cuore dei bolognesi. A suon di gol. Dopo gli otto della prima stagione rossoblù, 1961-62, in sole sedici partite, costretto da una lunga quarantena per lasciare spazio a Vinicio, arrivarono due annate da capocannoniere del torneo: 19 reti nel 1962-63, 21 in quel ’63-64 che riportò lo scudetto a Bologna. Con l’aggiunta di quella che chiuse definitivamente il discorso nello spareggio contro l’Inter, all’Olimpico di Roma. 2-0 a sei minuti dalla fine, firmato da “Dondolo”. Bologna campione d’Italia. Per Dall’Ara, per la gloria. Nella storia.

Dopo, appunto, il giocattolo si ruppe. E anche la schiena di Nielsen iniziò a cigolare, mentre con l’addio di Bernardini e l’arrivo di Carniglia, dopo la breve parentesi di Scopigno, la sua posizione in squadra diventò scomoda. Seguì un breve tramonto con le maglie di Inter, Napoli e Sampdoria, e un ritiro precoce, a ventotto anni, che gli avrebbe aperto la strada lontano dai campi di calcio, da imprenditore intelligente e di successo. Con’era prevedibile.

Ma “Dondolo” non avrebbe mai più scordato quelle sei stagioni rossoblù. Lo scudetto, gli 82 gol in 152 presenze in campionato, i 19 segnati sulle strade d’Europa che allora il Bologna percorreva. Non aveva mai dimenticato la storia, perché lui, Harald Nielsen, era un pezzo di quella storia.
 
(RenoNews, 12 agosto 2015)