domenica 4 marzo 2012

SHORTER, IL SEGRETO DEL MARATONETA




Solo un anno fa Frank Shorter, campione olimpico di maratona a Monaco 1972 e padre del running moderno, è riuscito a raccontare una verità che nascondeva dai tempi dell'infanzia: la violenza subìta da un padre che tutta la comunità esaltava come un uomo onesto e generoso, e quel rifugiarsi nella corsa per scappare dalla realtà e rimuoverla...

di Marco Tarozzi

Vie di fuga. Ecco quello che sono state l’atletica, la corsa, la maratona. Un modo per uscire da una quotidianità fatta di gesti e parole pesanti e opprimenti, da una verità nascosta impossibile da accettare e tanto più da raccontare. Per fuggire da quella grande casa in stile vittoriano conosciuta e amata da tutta la comunità, simbolo di una famiglia felice e di un mondo perfetto agli occhi della gente, custode ammaliante di una realtà inimmaginabile e dannata.
Ecco, c’è un ragazzo che questa dannazione se l’è portata dietro fin dall’infanzia, insieme a sua madre e ai suoi fratelli. Anche quando ha conquistato il mondo, anche quando è diventato famoso. Un’icona della corsa. Ha vinto un’Olimpiade, ne ha sfiorata una seconda, si è fatto uomo correndo, è diventato un grande saggio del running, ha combattuto e ancora combatte una lunga battaglia contro la piaga del doping nello sport. Ma solo poco più di un anno fa quell’uomo è riuscito a liberarsi del macigno che fin da quando era bambino gli pesava sulle spalle e sul cuore. O almeno a provarci, pur sapendo che questo avrebbe aperto ferite e causato nuovo dolore.
Quell’uomo si chiama Frank Shorter. Un mito dello sport e dell’atletica, negli Stati Uniti e nel mondo. Oro nella maratona olimpica di Monaco nel 1972, argento in quella di Montreal nel 1976. Da quei giorni un simbolo del running in tutto il mondo, e semplicemente il personaggio più famoso e rappresentativo per la gente di Middletown, la sua città natale nella valle dell’Hudson, circa 60 miglia a nordovest di New York City. Una comunità di 22mila anime che già aveva imparato ad amare suo padre, il dottor Samuel Shorter, medico generico che faceva della professione una vocazione, sempre sensibile alle problematiche dei suoi concittadini, sempre pronto a “dimenticare” di presentare il conto dopo aver curato i malati meno abbienti. Un uomo eccezionale che ancora oggi i più vecchi abitanti di Middletown ricordano con affetto.
Ecco, immaginate cosa deve essere stato per Frank Shorter, il campione riconosciuto, rendersi conto che oltrepassato il muro dei sessant’anni era arrivato il momento di abbattere quella specie di monumento alla menzogna e alla vergogna. Di uscire allo scoperto per ammettere, a sé stesso prima ancora che a chi lo stava ad ascoltare, che quel padre così benemerito per la sua gente si trasformava tra le mura di casa. Che diventava un uomo rigido, violento, abbietto, assetato dalla voglia di punire e di imporre la sua supremazia, più ancora che la sua autorità. A Frank come ai suoi dieci fratelli, altri quattro maschi e sei femmine, così come alla loro madre. Tutti incapaci di rivelare una verità nascosta dalle mura di quella casa vittoriana su Highland Avenue. Tutti impauriti da quell’uomo esteriormente così buono e gentile con tutti. Molto più di un segreto: qualcosa che loro stessi cercavano di rimuovere inconsciamente, inventando una sorta di realtà parallela più colorata e felice. Nel caso di Frank, anche semplicemente correndo. E quella verità da cancellare era crudelmente semplice. Quel padre era un tiranno, un sadico, in qualche modo un malato. La storia del dottor Jeckyll e di mister Hyde vissuta giorno dopo giorno tra le mura di casa.

LA FORZA DELLA VERITA’

La maratona come via di fuga è un concetto spesso affascinante. Correre via dalla quotidianità, dalla routine, dallo stress. Liberarsi, in fondo. Per Frank Shorter era ben altro. Era scappare, in tutti i sensi. Una liberazione, certo, ma soprattutto una questione di sopravvivenza. Era imparare a convivere con la solitudine, piuttosto che affrontare i problemi familiari. Ci ha messo tanto, a raccontare. A dirla tutta ci aveva quasi provato vent’anni fa, intervenendo con la consueta padronanza di linguaggio e di contenuti a una corsa benefica in Florida, il cui ricavato sarebbe stato devoluto a un centro per minori vittime di violenza. “Una causa che sento molto vicina”, confessò Shorter a un giornalista del Fort Lauderdale Sun Sentinel, “perché ho subito io stesso atti di violenza da mio padre”. Il campione non entrò nei dettagli della questione, e l’articolo fu ripreso dopo qualche tempo anche dal New York Times, ma senza un’enfasi particolare. D’altra parte, Shorter senior era ancora vivo e si affrettò a smentire quelle dichiarazioni. Nessuno ebbe la forza (o la voglia) di andare a scavare nel passato.
Quella forza Frank l’ha trovata poco più di un anno fa, nel novembre 2010. Era stato invitato a una corsa su strada a Springfield, Missouri, insieme ad altre due leggende americane di maratona, Bill Rodgers e Dick Beardsley. L’evento era benefico, in favore di una scuola locale che si occupava di reindirizzare giovani che avevano avuto problemi con la giustizia. “Ci chiesero di parlare con qualcuno di quei ragazzi”, ricorda Shorter, “per dar loro motivazioni per il futuro. Guardai la platea, tutti quei giovani venuti su con problemi esistenziali, e realizzai che anch’io ero uno di loro”. Così, invece di impostare un discorso “prefabbricato” sulla volontà, la forza interiore che aiuta a superare gli ostacoli, Shorter si mise a scavare nella memoria.

CORRERE PER SCAPPARE



“Cominciai a raccontare di quando ero un bambino e me ne stavo a letto in camera mia, e tremavo sentendo i passi di mio padre mentre saliva le scale. Spiegai come cercavo di giocare d’anticipo sugli umori e sui movimenti di papà, e di come trovarlo sulla mia strada alimentasse ogni giorno il mio timore e quello dei miei fratelli. E parlai di come avessi cercato fuori da quelle mura una salvezza, e alla fine l’avessi trovata nella corsa. Sì, quella sera ammisi che io ho corso per scappare. E che mi sentivo in colpa per il mio egoismo, per non aver potuto in qualche modo salvare il resto della mia famiglia”.
Fu, ovviamente, un incontro memorabile. Intorno a quelle parole scese una cappa di silenzio, e chi ne è stato testimone non riuscirà facilmente a dimenticare quegli attimi. “Ero choccato”, ricorda Beardsley. “Conoscevo Frank da una vita, e non gli avevo mai sentito rivelare nulla di quel passato. E improvvisamente misi a fuoco cose che mi avevano sempre incuriosito sulla sua personalità. Lo avevo sempre sentito piuttosto distaccato, a volte sembrava mi guardasse senza riconoscermi; me la spiegavo col fatto che io ero un tipo nella media, mentre lui era un ragazzo brillante, diverso da me. Gli amici mi dicevano: non prendertela, Frank è fatto così. Quella sera, mentre raccontava di suo padre che saliva le scale pensando a quale dei suoi figli avrebbe preso a botte, beh, capii da dove veniva quell’apparente distacco”.
Non è stato facile, per Shorter, aprire quel baule di ricordi terribili. Ha dovuto attendere, farsi forte, superare quel senso di colpa che lo immobilizzava. Portare alla luce quella vecchia e bruttissima storia lo esponeva a rischi. Qualcuno avrebbe potuto pensare a un modo per mettersi al centro dell’attenzione, per alimentare il proprio ego. “Qualcosa in me, quella sera, mi diceva di andare avanti fino in fondo. Alla fine venne da me una ragazza e mi disse: La storia che hai raccontato è la mia storia. Tutte quelle cose sono successe a me. Il modo in cui cercavi di anticipare le mosse di tuo padre, di proteggere le tue sorelle e i tuoi fratelli, la rabbia per non esserne capace; stasera hai parlato di me. Allora ho capito che raccontare la mia storia può essere utile a quella ragazza, e a chi è nelle sue condizioni”.

UN UOMO DAI DUE VOLTI

Alla base di questa confessione ci sono anche due lutti familiari. Samuel Shorter, il padre-padrone di Frank, se ne è andato da questo mondo nel giugno del 2008. Proprio nel giorno in cui a Middletown si tiene l’annuale gara su strada di dieci chilometri a cui Frank raramente è mancato. L’ultimo incontro avvenne in una camera d’ospedale, la sera prima dell’evento. Shorter senior aveva già 86 anni ed era in fondo alla sua corsa terrena, afflitto da una grave insufficienza renale. “Quello che sentii, guardandolo negli occhi, fu come un senso di liberazione. Non poteva più colpirmi, ora. Non poteva picchiare mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle. Non poteva più far male a nessuno. Non avrei mai più dovuto pensare a lui”.
Parole che danno i brividi. E il senso di quello che un ragazzino deve aver passato in quell’infanzia rubata, trovandosi a crescere prima del tempo e a desiderare di essere in qualunque altro posto. L’altra morte, più recente, è quella di mamma Katherine, a cui Frank era profondamente legato. Con lei in vita sarebbe stato impossibile pronunciare quella verità. Lui sapeva che le avrebbe riaperto una ferita mai completamente rimarginata.
Ma chi era Samuel Shorter, il dottore che una comunità di ventiduemila anime ha amato per la sua dedizione, senza conoscere l’altra faccia della sua personalità?
Nato e cresciuto a Middletown in una famiglia benestante, figlio di un oculista noto per il motto nel quale pubblicizzava il suo mestiere attraverso il cognome (“See Longer, See Shorter”), Samuel sposò molto giovane la classica ragazza “della porta accanto”, Katherine Chappel. Laureatosi alla Temple University School di Philadelphia, finì durante la seconda guerra mondiale a prestare servizio come medico in un ospedale militare in Germania. E infatti Frank, suo primogenito, nacque a Monaco, proprio dove venticinque anni dopo avrebbe vinto l’oro olimpico. Lasciato l’esercito nel 1948, il dottore tornò negli States, prima lavorando nel villaggio minerario di Cow Hollow, in West Virginia. Fu in quegli anni, durante un viaggio in Florida, che Samuel Shorter mise per la prima volta le mani addosso a suo figlio. “Avevo sporcato il pannolino, e mio padre mi prese a cinghiate. Ricordo che correvo via urlando sull’asfalto bollente…”. Quel momento è cristalizzato nella memoria, molto più di tanti che vennero dopo, e che Frank ha cercato di rimuovere. “Ma succedeva spesso, a me e ai miei fratelli”.
Poi ci fu il ritorno a Middletown, nel 1950. E il dottore iniziò la sua vita da buon samaritano della comunità. Le chiamate a casa a qualunque ora del giorno o della notte, anche al posto degli altri medici se dovevano andare in vacanza o via per il weekend. Quando se ne andò in pensione, nel 1996, gli organizzarono il “Dr. Samuel Shorter Day”. Ormai Frank se ne era andato da tempo a vivere a Boluder, tagliando i ponti con quel padre che gli aveva segnato l’esistenza. Il distacco vero e proprio era avvenuto nel 1967, quando Frank studiava all’Università di Yale e il padre si trasferì a Taos, in New Mexico, per lavoro. Fu lì che Katherine ebbe finalmente la forza di ribellarsi a quel marito che ora se la prendeva anche col figlio più piccolo, affetto da una disabilità progressiva. La coppia divorziò nel 1978, un anno dopo il dottore tornò nella sua città natale.

QUELLE NOTTI D’INFERNO

Frank non ha dimenticato tutte le volte che Samuel lo portava con sé sulla sua Buick per le visite in giro per la città. In quei momenti il dottore non alzava le mani sul figlio. Non voleva rischiare di essere visto. Ma erano monologhi sull’incapacità e sulla negligenza dei figli, che preludevano a serate da incubo. E in quei momenti Frank doveva semplicemente cercare di non fare nulla per contraddirlo.
Frank non ha dimenticato neppure le volte in cui suo padre, rientrato tardi dal lavoro, discuteva al piano di sotto con la madre, la interrogava sul comportamento dei figli, alzava la voce mentre lei cercava di arginarne la violenza. Poi Samuel saliva di sopra e decideva quale fosse il figlio da punire. “E la cosa più straziante era essere costretto a giacere nel letto sentendo piangere uno dei miei fratelli. Era anche peggio di quando toccava a me”. Sono ricordi atroci, drammatici. “A volte puzzava di alcool ed era ancora più violento, ma almeno in quei casi capitava che si confondesse e usasse la cinghia dalla parte dove non c’era la fibbia… A volte mi colpiva così forte da sbuffare come un sollevatore di pesi. Sento ancora i lamenti della sua voce mentre prendeva fiato dopo ogni colpo…”
Le rivelazioni di Frank hanno dato coraggio anche ai suoi fratelli. Non tutti. Qualcuno ha preferito non tornare sull’argomento. Ma le testimonianze sono inequivocabili. “Era un film dell’orrore”, conferma Barbara du Plessis, sorella cinquantaduenne del campione. “Ricordo mia madre mentre mi disinfettava una ferita all’inguine provocata dalla cinghia di mio padre. Avevo sei anni”. “La prima volta che mi prese a cinghiate”, racconta un’altra sorella che ha chiesto di restare anonima, “avevo quattro anni. Avevo rovesciato dell’acqua dalla vasca mentre facevo il bagno…” “Era un maestro nel far venire a galla la nostra insicurezza”, continua Barbara, “evidenziando i nostri difetti fino a farci perdere qualsiasi forma di autostima. Da bambina avevo un lieve strabismo, e lui mi ridicolizzava per questo”.
E sono proprio le sorelle di Frank ad alzare il tono delle accuse. Due di loro giurano che il padre sia andato ben oltre le punizioni corporali. Affermano di aver subito violenza da lui.
“Mi ha cambiata per sempre”, racconta Nanette, sessanta anni. “Mi disse che mi avrebbe ammazzata se l’avessi mai detto a qualcuno, e io ero certa che l’avrebbe fatto”. “Avevo sei anni quando mi usò violenza”, afferma Mary Shorter-King, oggi cinquantacinquenne. “Credo che l’abuso sessuale facesse parte del suo desiderio di dominare. Faceva parte di un suo personale programma di controllo su di noi. Mi sembrava di vivere sotto il controllo di un orco”.

RABBIA E INCREDULITA’

“Sono convinta che mio padre avesse un disordine della personalità con una base di narcisismo” continua Barbara. “Era anche una persona carismatica, brillante. Credo fosse duro anche per lui tenere in piedi questa doppia vita, ma era un maestro nel farlo. Se i suoi comportamenti sono da considerare abusi? Di sicuro. Oggi verrebbe arrestato in un minuto. Vorrei che chi dubita dei crimini di mio padre avesse vissuto un giorno nelle mie condizioni. Una bambina di sei anni con segni di cinghiate sul corpo non è un esempio di “disciplina”, non lo sarebbe nemmeno tornando indietro agli anni Sessanta”.
Ecco, quelli che dubitano si appoggiano anche sul passato. E sono soprattutto i cittadini di Middletown che hanno mitizzato il dottor Samuel Shorter. Che ne hanno conosciuto il lato nobile e non quello nascosto. "Il dottor Shorter era un uomo meraviglioso”, dice Bill Bright, 59 anni, ancora oggi residente a Middletown. “Ha fatto nascere e tirato su me e i miei gemelli. Lo andai a trovare quando era in punto di morte, aveva gli occhi chiusi, lo salutai e credevo non mi avesse nemmeno sentito. Stavo per andarmene quando li aprì e disse: Bill, la tua visita significa tanto per me. Non lo dimentico. Era un grande uomo”.

SOPPORTARE IL DOLORE



Ma Frank ha deciso di raccontare tutta la sua storia. Non si fermerà, ora. “So che questo può essere spiacevole per molti. Soprattutto a Middletown. Ma non è la “loro” storia, è la storia di mio padre. Io voglio bene a quella gente, non sarei sopravvissuto in quel posto senza gli amici che avevo là. Non voglio far del male a nessuno, ma la verità può aiutare”.
E’ una storia dannata e faticosa anche da ascoltare, che racconta molto anche del campione che ne è uscito fuori. “Dalla mia infanzia ho imparato a essere costantemente vigile, e questa attenzione estremizzata si è evoluta in coerenza. Ho imparato il conforto della programmazione. Ho sviluppato un modo per sfuggire alle mie pene”. Improvvisamente, un sorriso malinconico gli illumina il viso. “Lo so quello che pensate: è il contesto perfetto per un maratoneta… Anche nella vittoria olimpica di Monaco, quando me ne andai tra il nono e il decimo miglio, restando solo al comando fino al traguardo, c’è un po’ di quel passato. Avevo la capacità di uscire dal gruppo, restarmene da solo in un frangente simile e sopportare il dolore. Lo capii guardando in faccia Derek Clayton e Ron Clarke, ma era anche qualcosa che mi portavo dietro dall’infanzia”.
Samuel, il padre che per anni Frank ha volutamente rimosso, è una storia finita. Lontana. Ma non per questo il vecchio campione rinuncia alla riflessione. Anzi: togliersi dalle spalle quel segreto ingombrante gli è servito anche in questo senso. “Ripenso a quel giorno del 2008, quello della corsa su strada a Middletown, in cui vidi per l’ulitma volta mio padre vivo. Il giorno dopo tornai in aereo a Boulder, e quando atterrai seppi che era morto proprio mentre ero in volo. Non tornai per il funerale. Non ne sentivo il bisogno. Vorrei soltanto che mio padre avesse chiesto aiuto".

Runner's Wolrd Italia, febbraio 2012

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