martedì 28 settembre 2010

Giacomino e Zapatero, quell'amicizia nella Bassa



di Marco Tarozzi

SAN PIETRO IN CASALE - Quel giorno, a San Pietro in Casale, lui è rimasto alla larga dai riflettori. Che erano puntati su gente che ha scritto la storia del calcio. Rivera, Zoff, Capello, Antognoni, De Sisti, Lodetti, solo per citare i primi che ci tornano alla mente. E su altri che hanno fatto quella del Bologna. Pascutti, Pavinato, Savoldi, Pecci, Colomba, Ghetti. E tanti, tanti altri. Quel giorno a San Pietro in Casale lui, Marco Dall’Olio, era felice così. Perché tutti quei grandi del calcio erano lì per Giacomo Bulgarelli. Per il suo amico Giacomino. E dunque la sua idea aveva funzionato.
«Io volevo semplicemente che venisse onorato come meritava. Nient’altro. Volevo che ci fossero tutti, a rappresentare tutte le squadre italiane. E alla fine gli amici veri sono arrivati, ed erano tanti. Ecco, così adesso tutti hanno un’idea precisa di che amici avesse Giacomo, e di chi fosse».
Lui l’ha conosciuto a fondo. E soprattutto l’ha conosciuto “dopo”. Quando Bulgaro scelse il “buen retiro” di San Pietro in Casale, per immergersi nella Bassa che gli era rimasta dentro, nelle radici, come è logico per uno nato a Portonovo di Medicina. «Il mio amico Giacomino era oltre Bulgarelli. Cioè oltre il grande giocatore, la carriera, gli articoli sui giornali e in tv, il Bologna e la Nazionale. Noi ci siamo conosciuti dopo tutto questo, e ci siamo legati l’un l’altro su basi diverse. Lui per me era Giacumèin, io per lui semplicemente Zapatero».
Bel personaggio, Marco “Zapatero” Dall’Olio. Uno che nel 2002, a meno di cinquant’anni, faceva il dirigente aziendale e sentì per la prima volta quella parola secca e spesso devastante. Esubero. «Significa che ieri eri importante e da domani hanno deciso di fare a meno di te. Potevo abbattermi, e invece ho deciso di accendere il canale dei sogni. Di andare alla scoperta della mia terra, delle persone. Di seguire il mio istinto».
E la passione. Per il calcio e soprattutto per le sue anime. Come Gigi Meroni, il suo idolo granata, a cui ha dedicato due splendide mostre, riuscendo addirittura a portare a San Pietro i quadri che quel campione così anticonvenzionale dipingeva. Come gli splendidi matti del dio pallone a cui presto dedicherà la sua creatività. Ezio Vendrame, Roberto Vieri, George Best. Genio e sregolatezza, gente senza schemi. O come Bulgarelli, appunto. L’amico vero. «Anch’io dipingo, e un giorno stavo lavorando dentro una chiesa sconsacrata a un affresco dedicato a Meroni. Giacomo era lì con me, alle mie spalle. Guardava in silenzio. E a un tratto mi disse: sai una cosa, Zapatero? Quando dipingi io vedo la tua anima…».
Zapatero, bella storia. Giacomino la mania dei soprannomi l’ha sempre avuta. «Di me diceva che avevo la dialettica di un politico. Detto, fatto: sono diventato Zapatero e quel nome me lo porto addosso con un sorriso, perché mi fa pensare a lui».
Ha lavorato sei mesi per mettere in piedi il grande evento. Intitolazione dello stadio, mostra, un elenco di grandi del calcio «che hanno voluto esserci, questo è ciò che conta. Non li ho dovuti convincere, ho solo fatto centinaia di telefonate per spiegare il senso della cosa. E loro l’hanno capita al volo. Anche quelli presi da mille impegni hanno trovato il tempo di essere lì. Certo, una macchina come questa non la puoi portare avanti da solo. E devo dire grazie al sindaco Roberto Brunelli e all’assessore Pezzoli, all’amico Alberto Bortolotti che l’ha portata avanti con me». E l’elenco è lungo. Dal parroco, Dante Martelli, al presidente dei Lions Dino Savi. E Fabio Bonetti, Vittorio Rimondi, Pasquale Stellato, Luciano Brigoli che ha curato la mostra dei “memorabilia. «Ma c’è anche chi non l’ha capita, questa avventura. Chi è salito sul carro all’ultimo momento, chi ne ha approfittato per spostare l’attenzione su altri temi, di fatto facendo un torto a Giacomo. Succede anche questo, non mi piace ma lo avevo messo in conto».
Marco Dall’Olio guarda dritto davanti a sè. Ai paesaggi infiniti della Bassa che ha amato come, insieme a Giacomo. Dentro quei silenzi, loro si capivano al volo. Un campione di umanità e un “pescatore di sogni”. Come dovrà chiamarsi, se un giorno vedrà la luce, il libro di tutto quello che gli è passato davanti agli occhi e nella testa. Qui a San Pietro, che grazie a lui è stato il centro del mondo per un giorno.

L'Informazione di Bologna, 28 settembre 2010

venerdì 24 settembre 2010

Nanni: il mio sogno europeo


di Marco Tarozzi

Marco Nanni, è ora di pensare all’Europa. Cosa si attende da questa finale di Coppa Campioni?
«Due partite veramente difficili. Il campo ha detto che lì ci saranno le quattro squadre più forti d’Europa. Noi abbiamo avuto la fortuna di poter continuare con le partite ufficiali, tra playoff scudetto e Coppa Italia. Non so se arriveremo in finale o se vinceremo, so per certo che metteremo l’anima in campo».
Con la forza del gruppo che contraddistingue le sue squadre.
«Io credo che i buoni giocatori siano importanti, determinanti. Ma la vittoria è sempre del gruppo. Si vince se si rema tutti nella stessa direzione».
Ad inizio stagione diceva: non guardate a noi per i playoff. Siete arrivati a un niente dal titolo, avete vinto la Coppa Italia e vi giocate l’Europa. Cos’è, fa pretattica?«Me l’hanno chiesto anche un anno fa, perché avevo detto che i playoff non erano certi e poi avevamo vinto lo scudetto. Allora c’erano tante scoperte da fare, che si chiamavano Garabito, Ribeiro, Infante, Stocco. Non era un modo di nascondersi, solo che prima di sapere dove saremmo arrivati dovevamo scoprirci tra noi. Sapevamo che le basi c’erano. All’inizio di quest’anno ero certo di aver preso giovani di talento, di valore assoluto. Ma c’erano scommesse nuove: non puoi sapere a priori quanto renderà un giocatore giovane, se ci sarà l’alchimia di gruppo. Era, ed è, un’altra Fortitudo».
Eppure è andata lontano.
«La chiave era imparare a capirsi, a sopportarsi, a convivere. Abbiamo iniziato a lavorare a gennaio su questo, e lo spirito di sacrificio non è mai mancato. Questi sono i risultati».
Con lo scudetto del 2009 si è chiuso un ciclo. Questa squadra giovane sembra pronta per aprirne un altro.
«Potrà avere lunga vita, certo. Con qualche ritocco, s’intende. Un po’ di profondità nella squadra, sul monte. Ci manca uno straniero. Se lo azzecchiamo, faremo tanta strada».
Dica la verità: non ci ha dormito la notte per questo scudetto perso all’ultimo sprint.
«Il rammarico è stato enorme. Per due o tre giorni rivedevo molte cose, fino ai dettagli. Un lancio sbagliato, un mio errore di gestione, una mancanza banale. Ci sta, quando arrivi alla settima partita e la perdi 2-1. Poi ho digerito, e ho ripreso a guardare avanti. A pensare alle cose positive della stagione. Che non è ancora chiusa, e allora bisogna restare coi pensieri sul campo».
Nel 2009 il popolo del baseball l’ha eletta miglior manager dell’anno. Arrivare in finale con una squadra rinnovata vale quanto uno scudetto?
«Io ci metto tutto quello che ho, insieme al mio staff. Ma sono un ventiquattresimo del totale, metto il mio mattone come tutti gli altri. Le mie armi sono il lavoro, la costanza, il fatto di crederci. È normale che se uno vince lo scudetto sia favorito per il premio di manager dell’anno, ma credo che in queste valutazioni si dovrebbe andare oltre la vittoria della squadra. Ci sono altri valori: la capacità di far crescere i giovani, di cementare un gruppo. C’è gente che sfiora i playoff con budget ristrettissimi, e solo per questo meriterebbe una ribalta. Nella mia carriera c’è una stagione in cui quel riconoscimento l’avrei meritato di più».
Quale?
«Il 2006, il primo. Ci successe di tutto. Dalla tragica morte di Robert Fontana al problema di Liverziani, oltre a mille altri problemi. C’era sempre qualcosa che destabilizzava, che ci toglieva forza. E arrivammo a un passo dalla finale...»
L’ultimo trionfo europeo è del 1985. Quell’anno lei non ci fu, da giocatore, per problemi di naja...
«Ero entrato in prima squadra l’anno precedente. Andai nei militari e persi l’occasione. Non so, comunque, se avrei giocato. Se sarei stato titolare, o anche solo in panchina. la questione, per ovvi motivi, non si pone...»
Venticinque anni dopo. Molta Italia e niente olandesi.
«Sono contento per il baseball di casa nostra, che da un po’ di tempo con l’Olanda usciva sconfitto. Un’assenza che ci aiuta, perché loro sanno giocare le partite importanti. Ma anche questi tedeschi, che abbiamo già incontrato nelle qualificazioni di Brno, non vanno sottovalutati. In attacco sono forti, su una o due partite danno filo da torcere. E le squadre italiane, non solo noi, hanno una gran carica. Chi vince fa una bella impresa».
Qual è lo stimolo in più che potrebbe aiutarvi a coronare il sogno?
«La voglia di riportare a Bologna un trofeo che manca da un quarto di secolo. E di riscattare Barcellona 2009, perché una finale persa per 1-0 ci va dannatamente stretta. Certo, ci sono altre squadre e hanno lo stesso obiettivo. Ma io credo nei miei uomini».

Il programma della Final Four di Coppa dei Campioni
(tutte le partite allo stadio Perez de Rosas, Montjuic, Barcellona).

Semifinali: UGF Fortitudo-T&A San Marino, domani alle 12 (diretta Punto Radio, fm 87.7, 87.9, o in video streaming a pagamento su www.stadeo.tv); Telemarket Rimini-Heidenheim Heidekopfe, domani alle 18.
Finale 3° posto: domenica alle 11.
Finale: domenica alle 17.

L'Informazione di Bologna, 24 settembre 2010

(foto di Renato Ferrini)

mercoledì 22 settembre 2010

La notte della "Casaglia"


di Marco Tarozzi

Era la nostra iniziazione. Noi, che avevamo la corsa nel cuore, ci davamo appuntamento lì, davanti al bar Edison. C’erano quelli che potevano attaccarsi il numero, perché avevano i ritmi giusti nelle gambe, e quelli che si accontentavano di appoggiarsi alle transenne, per veder passare le leggende dell’atletica. Non c’erano poi tante occasioni, in quei tempi. E noi di Bologna ci sentivamo gente fortunata, perché sulle strade della “Casaglia”, grande corsa che spaccava le notti di settembre, i campioni arrivavano davvero. Cominciò Pippo Cindolo, un pioniere. Capelli lunghi e baffi da moschettiere che colpivano il nostro immaginario. E in lui c’era molto più del look, perché fu il primo azzurro a farsi largo, negli anni Settanta, nel mondo internazionale di maratona. Poi arrivò Frank Shorter, l’amico fraterno di Prefontaine che aveva vinto l’oro olimpico di maratona a Monaco ‘72. E Franco Fava, maestro e avventuriero della corsa in quei tempi eroici e irripetibili. E via via Da Silva, Solone, Hagelsteens, Vainio. E Gelindo Bordin, protagonista di questa classica dal percorso fuori del comune molto prima di diventare l’eroe di Seul per tutti gli italiani. Quando sparì, per tredici lunghe stagioni, ci sentimmo improvvisamente orfani. E più poveri. Il terzo millennio, e gli sforzi dei “duri e puri” dell’Acquadèla, ce l’hanno restituita, regalandoci nuove emozioni e riaccendendo la memoria. Per questo venerdì sera saremo ancora lì. A innamorarci dell’atletica, come fosse la prima volta.

L'Informazione di Bologna, 21 settembre 2010

giovedì 16 settembre 2010

Rebecca Bianchi, sedici anni a tutto gas


di Marco Tarozzi

Ha compiuto sedici anni a marzo, e ha passato metà della sua vita in sella alle moto. Di più: l’aria dei circuiti la respira da quando era in fasce, perché papà e mamma li frequentano per mestiere. Rebecca Bianchi non è figlia di pilota, come il suo idolo Valentino Rossi. Ma suo padre Oliver gira i paddock da una vita, titolare di Oliver Fotoagenzia, gioiello di famiglia per il quale lavora anche la moglie Lucia. Ha cominciato lì anche Rebecca. A suo modo.
«A otto anni rubavo il motorino agli amici nel paddock e scorazzavo da un posto all’altro, divertendomi un mondo. Così papà e mamma ne approfittavano per mandarmi a ritirare i rullini e le schede. Ma la passione era molto più totalizzante: da bimba, per salire su una giostra doveva esserci una moto, dei cavalli non mi interessavo affatto».
Da quegli innocui furti di cinquantini al secondo posto al trofeo femminile di Vallelunga, prova unica di campionato italiano organizzata dalla federazione, sembra passata una vita. Invece è soltanto una manciata di anni. Intensi, da raccontare.
«Stefano Prescendi, il pilota a cui... prendevo a prestito il motorino, notò che la cosa mi piaceva e mi consigliò di provare con le minimoto. L’ho fatto fino a due anni fa, fin lì è stato come un gioco. Nel 2009 ho provato il mio primo campionato, la Yamaha Rs 125 Cup, e ho capito che poteva essere una strada percorribile. Eravamo tre donne in mezzo a tanti uomini, e me la sono sempre cavata bene. Quest’anno ho iniziato con la Hornet Cup, un trofeo monomarca Honda, ma con le moto senza carenatura non mi trovavo benissimo. Così, grazie al mio team, la Scuola Federale Corsetti di San Lazzaro, e a un paio di sponsor che hanno creduto in me, Ansaloni Garden Center e Madica Milano, sono salita sulla Yamaha R6 alla Dunlop Cup 600».
Roba recentissima. Un paio di settimane fa, al Mugello da debuttante, Rebecca non si è lasciata intimorire da una pista affascinante e impegnativa.
«Difficile, sì, ma fantastica per chi ama questo sport. Me la sono cavata: in gara eravamo trentotto, e solo due ragazze. Ne ho lasciati dietro diciotto. Soprattutto, ho trovato un feeling immediato con questa moto, ho capito che mi ci posso divertire».
Lo ha fatto pochi giorni fa, appunto. Nella prova unica tricolore, tutta al femminile, solo una avversaria esperta come Letizia Marchetti, venticinque anni e otto stagioni di campionati europei alle spalle, è riuscita a tener testa a Rebecca.
«Bel risultato, perché lì in mezzo ero senza dubbio la meno esperta, e la più giovane. L’età media è intorno ai trent’anni, io ne ho appena sedici».
Un pieno d’entusiasmo che verrà buono per il futuro. L’anno prossimo il campionato italiano femminile si disputerà su tre prove. «E io cercherò di esserci. Ma adesso c’è un altro impegno importante, la scuola. Frequento il liceo scientifico San Vincenzo de Paoli, a indirizzo sportivo. E quando avrò finito vorrei fare Scienze Motorie. i miei genitori, quando hanno capito la mia passione, sono stati chiari: vai in pista se sei brava a scuola. E io ho risposto con la media dell’otto».

Ha anche un idolo, ovviamente. Valentino Rossi, che presto comincerà a respirare l’aria di Bologna. O meglio, di Borgo Panigale. «Un grande, e mi fa piacere che venga in Ducati. Non l’ho mai conosciuto, ma papà lo ha visto crescere. E conosco Graziano, suo padre. Piloti famosi? Beh, ho visto da vicino Stoner e Hayden, quando hanno fatto un servizio in sala posa con mio padre. Ma non li ho pressati dicendo loro che anch’io vado in moto: mi è bastato fare una foto ricordo con loro. La Ducati? Mi piace, naturalmente. Il mio sponsor, Ansaloni, ne ha una e dice che uno di questi giorni me la farà provare. In futuro, chissà, non si deve mai dire mai. Ma per ora mi godo la mia Yamaha, guidarla mi piace tantissimo».
Ha provato tanti sport, Rebecca. Ma è finita in pista, e sa bene perché. «Da piccola giocavo a tennis, come mio padre. Ho fatto danza moderna, come voleva mamma, ma solo per un anno. E poi nuoto, e soprattutto karate, che mi ha insegnato come si fa a cadere, sperando che succeda il meno possibile. Ma il motociclismo è un’altra cosa. Una passione vera che nella mia mente ha cancellato gli altri sport. Mi piace scendere in pista e vedere che faccio progressi. In pista, ho detto. Nella vita di tutti giorni non uso nemmeno il motorino. Prendo l’autobus».

L'Informazione di Bologna, 15 settembre 2010

martedì 14 settembre 2010

Ciao Giacomino, i tuoi amici non ti dimenticano


di Marco Tarozzi

«Ancora non mi sembra vero che lui non ci sia più. Lo sogno, in continuazione. Poche notti fa, per dire, è stato un incontro bellissimo. Eravamo in via Galliera, lui è sbucato all’improvviso, era bello e sorridente. “Vai tranquillo, Toro”, mi ha detto, “che io sto benissimo”».
Parole da amico vero, da amico del cuore. Quelle di Alberto Rinaldi, come Giacomino stella di quegli anni Sessanta e Settanta, come lui icona dello sport bolognese, uno re dei campi di pallone, l’altro dei diamanti del baseball. Come lui campione dentro e fuori dal campo. «Penso a quel che direbbe se fosse qui con noi oggi, a vedere tutta questa gente, tutti questi grandi del calcio che si sono mossi per ricordarlo: oh, ragazzi, andateci piano, altrimenti mi mettete in imbarazzo. E lo direbbe con un sorriso pieno di allegra ironia».
È vero, sono tutti qui e l’elenco è interminabile. Tutti a San Pietro in Casale, nel cuore della Bassa, qui dove Giacomo Bulgarelli ha vissuto l’ultima lunga parte della sua esistenza. Dove ha coltivato nuove amicizie, altrettanto profonde di quei legami che non si sono mai spezzati nel corso della sua vita. Qui, soprattutto, il suo cuore rossoblù aveva trovato affinità con quello granata di Marco Dall’Olio. Uno che ha amato la personalità di Gigi Meroni non poteva non entrare in sintonia col Bulgaro. Amici, infatti. Fino alla fine. E anche oltre: perché proprio dal cuore è partita l’idea di Marco. Una giornata per ricordare il campione e l’uomo. Semplicemente, “Ciao Giacumèn”.
Vista così, e guardando tutto il grande calcio che si mette in fila per tributare il suo saluto all’Onorevole Giacomino, questa kermesse ha il senso di un’impresa epica. E invece Dall’Olio, stessa scuola dell’amico che non c’è più (eppure è sempre tra noi), la rende lieve nel raccontarla. «È vero, ho lavorato a questo evento ascoltando la parte sinistra del petto perché Giacomo avesse il ricordo che merita. Ma non è stato difficile, perché il suo nome è un grimaldello per arrivare dritto all’anima. Alzavo il telefono, dicevo “è per Giacomo” e mi sentivo rispondere “sì, ci sarò”. Ed è stato tutto un susseguirsi di porte che si aprivano. Qui ci sono uomini che hanno fatto la storia del calcio italiano, ma il bello è che nessuno di loro è venuto per parlare di sè e delle sue imprese. Sono tutti qui per parlare di Giacomo».
E tutti si ritrovano, nel primo pomeriggio, per il momento clou della giornata. Quando il sindaco Roberto Brunelli intitola lo stadio comunale a questo illustre cittadino della Bassa, nato a Portonovo e approdato a San Pietro. Figlio di questo paesaggio dagli orizzonti lontani, di questa terra e di questi colori e odori che ti restano dentro. C’è la moglie Carla, compagna di una vita, ci sono i figli Annalisa, Stefano e Andrea, che sanno quanto fosse speciale quel loro grande padre, nella sua semplicità. Ci sono i figli dei figli, che tramanderanno la memoria. Viene scoperta una scultura dedicata a Giacomo. Parla Marco Di Vaio, il capitano di oggi. Si stringono l’un l’altro quei vecchi campioni che avrebbero aneddoti da raccontare da riempirci cento libri. Applaude la gente comune, la gente che piaceva a Giacomo e che non lo dimenticherà.
Ha ragione Toro, lui non andava in cerca di notorietà. Ma qui nessuno è venuto per una celebrazione. Qui, nella Bassa, parla soltanto la voce del cuore.

L'abbraccio del popolo del calcio

di Federico Frassinella

Il ricordo più bello e più commosso di Giacomo lo ha regalato Ezio Pascutti, che per lui era certamente più di un compagno di squadra: «Io e Giacomino come due fratelli. Una vita calcistica passata insieme, un legame unico. Credetemi, ho un tale magone che mi risulta difficile parlarne ora». Una lacrima gli vela gli occhi: «Questa è una bellissima iniziativa, Giacomo gradirà senz’altro».
Franco Colomba ricorda un aneddoto degli inizi della sua carriera che gli strappa un sorriso: «Avevo diciott’anni, proprio agli inizi. Giacomo si offriva sempre di accompagnarmi a casa in macchina a fine allenamento. E il primo gol in serie A l’ho segnato proprio su suo assist».
Giovanni Lodetti, cuore e polmone del Milan di quei tempi, con Bulgarelli aveva instaurato un rapporto speciale: «La Nazionale italiana ci ha avvicinati, ci siamo conosciuti così ed avevamo un bellissimo feeling pur vedendoci poco: io stavo a Milano e lui a Bologna. Ma mi emozionai molto quando mi chiese di fargli da testimone di nozze, sinceramente non me l’aspettavo. Un personaggio fuori dalla norma, non lo dimenticherò mai».
Rispettoso il commento di Giancarlo Antognoni: «Giacomo è stato una persona d’altri tempi. Gentile, disponibile, l’ho sempre seguito anche quando lavorava in tv, nonostante ci fosse molta differenza d’età fra noi».
Rivale di mille battaglie, ma fuori dal campo con Giacomo c’era un’armonia difficile da descrivere. Così Gianni Rivera: «Insieme abbiamo fatto tanta strada, a partire dai Giochi Olimpici del 1960, finchè il fisico ci ha permesso di giocare. Abbiamo condiviso tutti gli aspetti del mondo del calcio, e noi due insieme siamo stati i fautori dell’Assocalciatori».
Sincero il ricordo di Picchio De Sisti: «Bulgarelli? Il più grande centrocampista del mio periodo. Tutti noi dobbiamo essergli grati, era un modello di riferimento in campo per i giocatori del nostro tempo». E gli fa eco Fabio Capello: «Un grande campione e un grande uomo, un signore in campo e fuori».
Commosso Gigi Maifredi: «Appena arrivai a Bologna, furono Giacomo e Giorgio Comaschi ad accompagnarmi nelle serate estive cittadine, preannunciandomi ciò che avrei incontrato. Era un fenomeno, una fucina continua di aneddoti».
Tocca poi a Luigi Agnolin: «Ho avuto la fortuna di arbitrarlo. A fine carriera era diventato ironico e saggio, tipico personaggio di un mondo del calcio che allora era davvero bello».
Onorato di presenziare ieri è stato Luis Suarez: «Se il Bologna di Giacomo non avesse avuto l’Inter sulla sua strada, avrebbe vinto tutto. Ho lottato tante volte con lui, ma era un grande uomo, una persona eccezionale, e a fine partita eravamo tutti molto amici».
Chiusura con Romano Fogli («Eravamo più che amici, Giacomo è stato anche padrino di mio figlio. Quel Bologna era un gruppo fantastico») ed Eraldo Pecci, colui che di Giacomo ha raccolto il testimone calcistico: «Non c’è altro da aggiungere. Questo parterre evidenzia ciò che ha rappresentato Bulgarelli per tutti».

L'Informazione di Bologna, 13 settembre 2010

lunedì 13 settembre 2010

Partenza in salita, ma la classifica è piena di bugie

di Marco Tarozzi

Lazio-Bologna 3-1

La prima di Malesani sulla panca rossoblù porta zero punti, una manciata di dubbi, qualche esile certezza a cui aggrapparsi e le dichiarazioni del presidente Porcedda, che esorcizza il presente proiettandosi nel futuro. Scelta strategica o no, l’arrocco funziona: non si può sparare su chi ragiona di progetto a medio-lungo termine, se prima si è pianto perché il calcio moderno non ha più pazienza.
Resta da capire quello che ha detto il campo, ben sapendo che non si tratta di risposte definitive. Che sia un campionato in via d’assestamento lo dice, immediatamente, la classifica: Chievo solo al comando, Cesena all’inseguimento dopo aver fermato la Roma e bastonato il Milan, neopromosse più vive delle corazzate. E il Bologna, a quota 1, in compagnia di Juve, Fiorentina, Roma, Palermo, squadre partite con ben altre ambizioni. Non può durare, non è questo il vero volto della stagione che ci aspetta.
E dovrà assestarsi, e trovare punti di riferimento, anche il Bologna che Malesani ha proposto con una difesa a tre che ha capitolato proprio nel momento in cui si è davvero comportata da difesa a tre. Prima, soprattutto in quel primo tempo chiuso con zero tiri azzardati verso la porta di Muslera, a proteggere lo 0-0 c’era mezza squadra. Quando il Bologna ha provato davvero a imporre il proprio gioco, è andato sotto. E in fretta: uno-due della Lazio in sei minuti.
Tirando le somme: un primo tempo da dimenticare, e diciamo pure qualcosa di più; diciamo un’ora buona di calcio indigeribile e di manovra inesistente. E venti minuti, gli ultimi, di sperimentazione pura, tutta tesa a recuperare quel punto volato via: un 4-2-4 figlio della necessità e dell’emergenza, ma paradossalmente il momento di miglior calcio proposto dai rossoblù. Dentro quel finale di partita, le cose buone da salvare: la voglia di Malesani di lasciare un’impronta su questa squadra, la grinta del gruppo che in effetti è rientrato in partita (prima del 3-1 finale, il 2-2 mancato da Paponi), la vivacità di Siligardi, entrato subito nel vivo del match. Se questo è l’inizio, meglio astenersi dalle bocciature definitive: ma è un fatto che Gimenez ha perso un’altra occasione di mostrarsi giocatore “da primo minuto”, è un fatto che Di Vaio non può spendere i suoi 34 anni andando in cerca di palloni a metà campo. È un fatto che si parte subito in salita, ma il tempo per rimediare non manca.

L'Informazione di Bologna, 12 settembre 2010

mercoledì 8 settembre 2010

Scozzoli, il campione coi piedi per terra


di Marco Tarozzi

Fabio Scozzoli, ma davvero aveva paura dell’acqua, da ragazzino?
«Tutto vero. I miei genitori mi portarono in piscina, visto che già ci andava mia sorella Silvia. Volevano che facessi sport e così era più comodo per tutti. Poi Silvia ha smesso e io sono andato avanti».
Oggi si portano i bambini in piscina a pochi mesi...
«Io ci sono andato relativamente tardi. A sette anni. Forse per questo, all’inizio, l’acqua mi spaventava. Ma ho insistito, per fortuna. E la faccenda mi ha preso, mi sono innamorato del nuoto».
A mente fredda, si è reso conto di quello che ha fatto agli Europei?
«Sono sincero, non ero andato là per vivacchiare. Magari non era scontato che tornassi a casa con due medaglie, ma la finale era l’obiettivo minimo. Volevo arrivarci migliorando i miei tempi. Ho lavorato tanto per questo».
Ha detto: del bronzo sui 100 rana mi piace il valore, dell’oro sui 50 il colore.
«Beh, i 100 sono la mia gara. E sono distanza olimpica, tra l’altro. Lì puntavo alla medaglia, non l’ho mai nascosto. I 50 sono un’altra storia. Gara veloce, secca, dove entrano in gioco tanti fattori. Bisogna curare i particolari: la potenza, la subacquea. Dettagli, ma se non ci lavori su non ci arrivi di sicuro, davanti a tutti».
Lei ci ha lavorato insieme a Tamas Gyertyanffy, il suo tecnico. Una leggenda del nuoto che si è rimessa in gioco a Imola. Siete partiti e cresciuti insieme, in quest’avventura.
«Tamas non ha bisogno di crescere, con quello che ha fatto per questo sport. Lavoriamo insieme da sei anni, e col tempo tra tecnico e atleta si instaura un rapporto di fiducia totale. Viaggiamo in perfetta sintonia. È importante, se vuoi arrivare a certi livelli devi trovare qualcuno a cui affidarti con convinzione assoluta».
Non ha scelto un allenatore da compromessi.
«Tamas non ha peli sulla lingua. Il che in certi ambienti può anche creargli problemi, ma per me è semplicemente un grande pregio. Mi piace che sia così, e gli devo quello che sono adesso».
Già, che cosa è diventato Fabio Scozzoli? E come si sente da campione d’Europa?
«Come quando sono partito per Budapest. Mi rendo conto che come atleta ho raggiunto una dimensione diversa, rispetto a prima. Ma non voglio che questo mi cambi. Sono un ragazzo con i piedi ben piantati in terra. Uno semplice, dopo tutto».
Un ragazzo di paese. Di San Martino in Villafranca, il suo paese a un pugno di chilometri da Forlì, è diventato il figlio più illustre.
«Siamo gente tranquilla. Mi hanno fatto una gran festa quando sono tornato da Budapest, ma non ho potuto nemmeno godermela fino in fondo, dovevo ripartire subito per i tricolori in vasca corta di Ostia».
Altri tre titoli. Momento d’oro, niente da dire.
«Sono contento, sì. Sto bene, perché dovrei accontentarmi? È un po’ quello che ho pensato nei due giorni che separavano la finale dei 100 da quella dei 50, agli Europei».
Il bronzo che ha preparato la strada all’oro...
«Psicologicamente mi ha dato una bella carica. Ma non era matematico: avrei potuto sentirmi appagato, perdere la concentrazione. Sarebbe stata una sciocchezza, dopo tanto lavoro».
Della sua Forlì ci ha detto. Ma ammetta che sente un po’ sua anche Imola.
«E la mia società, l’Imolanuoto. Agonisticamente sono cresciuto lì. E sono molto legato alla città, ho coltivato tante amicizie imolesi in questi anni. Gareggio per un gruppo fatto di gente vera, che mette passione nelle cose che fa, che ama il nuoto. Dal presidente agli allenatori, fino ai compagni di vasca. In certe grandi società non si respira la stessa aria. Le questioni economiche, amministrative spesso prendono il sopravvento. Da noi è diverso. Io all’Imolanuoto mi sento in famiglia».
E la famiglia che l’ha portata in piscina tanti anni fa? Che dicono papà Graziano e mamma Laura di questo figlio ormai famoso?
«Si godono i miei successi. Forse si emozionano anche più di me. Io ci sono dentro, devo guardare avanti, loro li ho visti proprio commossi.»
Guardare avanti. Fino a Londra 2012, naturalmente.
«Un passo alla volta. Ci sono Europeo e Mondiale in vasca corta, poi i Mondiali del 2011. E poi, certo, le Olimpiadi».
Adesso però se ne andrà finalmente in vacanza.
«Sicuro. Stacco una decina di giorni».
Mete esotiche?
«Come no. Lido di Classe, con i miei amici. E in acqua solo per fare il bagno».

FABIO SCOZZOLI è nato a Lugo il 3 agosto 1988. Mamma Laura, dentista, frequentava la città ravennate per lavoro, ma la famiglia è originaria di San Martino in Villafranca, provincia di Forlì, dove risiede. Tesserato per l’Imolanuoto e per l’Esercito, è allenato dal tecnico ungherese Tamas Gyertyanffy. È il primo ed unico italiano ad aver abbattuto il muro del minuto nei 100 rana in vasca lunga, nuotando in 59”85 alle Universiadi di Belgrado. In vasca corta ha nuotato i 50 rana in 26”23 e i 100 in 57”01, anche questo primato nazionale. Agli Europei di Budapest si è messo in luce vincendo il titolo continentale nei 50 e il bronzo nei 100, ma in precedenza aveva già conquistato due argenti alle Universiadi 2009 a Belgrado (100 rana e 4x100 mista) e un bronzo ai Giochi del Mediterraneo 2009 di Pescara (4x100 mista). Ha in bacheca sei titoli italiani, gli ultimi tre vinti nei giorni scorsi agli Assoluti estivi in vasca corta di Ostia.

L'Informazione di Bologna, 22 agosto 2010

mercoledì 1 settembre 2010

Malesani, a Bologna per rinascere


di Marco Tarozzi

Arriva oggi a Casteldebole, Alberto Malesani. Per chiudere. Il contratto che lo legherà al Bologna e un passato che evidentemente alla nuova dirigenza non quadrava. Ci sta, le scelte le fa chi sta ai posti di comando. Si può discutere sul metodo con cui Franco Colomba è stato allontanato dalla panchina, senza passare per nostalgici. Solo una considerazione: che il feeling non ci fosse era chiaro a tutti, anche se si cercavano parole sfumate per sottolinearlo. Si immaginava che per il tecnico dell’ultima salvezza sarebbe stata una corsa in salita. Oggi ci si chiede se non sarebbe stata una scelta migliore salutarsi subito, senza rancore. O usare parole meno pesanti per il commiato. Colomba aveva le sue idee, la società ne aveva (ne ha) altre. Ma se lunedì sera il migliore in campo, insieme a Viviano, è stato Mudingayi, un giocatore recuperato da Colomba quando era ormai fuori rosa, un anno fa, è ingeneroso dire che in questo pari con l’Inter lui non c’entra.
LA BUONA TERRA - Lo hanno definito “contadino del pallone”, senza offesa. E infatti lui non si offende. Ci si riconosce, in questa definizione. «Io vengo da un mondo dove devi rimboccarti le maniche, dove ogni giorno c’è un raccolto da portare a casa. Ho sempre lavorato e faticato perché mi piace farlo. Anche nel calcio c’è sempre un raccolto da portare a casa. E io senza pallone non so stare».
È un mondo che gli ha dato tanto e gli ha tolto altrettanto. Che lo ha lanciato quando era uno sconosciuto e lo ha fatto cadere quando aveva imparato a volare. Un mondo difficile. Ci ha sguazzato dentro negli anni migliori: a Firenze, arrivato dopo anni convincenti al Chievo. Soprattutto a Parma, dove ha vissuto le sue stagioni in Paradiso dal 1998 al 2001, infilando nella collana una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e soprattutto, più di tutto, una Uefa indimenticabile, ultimo tecnico italiano a centrare l’obiettivo. Poi Verona, una parentesi difficile a Modena, il Panathinaikos dove una sua sfuriata contro i giornalisti in sala stampa è diventata un “cult” ancora oggi cliccatissimo su youtube. Un po’ di respiro a Udine, altre delusioni (con esonero in primavera) a Empoli. E nella scorsa stagione l’offerta di una panchina avvolta dal filo spinato, quella di un Siena che già a fine novembre sembrava condannato alla retrocessione. Non ha cambiato il destino della squadra toscana, Malesani, ma le ha dato una scossa, e più di una speranza durante la corsa.
UOMO DI CAMPO - È uno che preferisce la tuta al completo d’ordinanza, il tecnico veronese. Uno poco avvezzo alla diplomazia. Che quando gli girano, non la manda a dire. Uno che ha sempre saputo valorizzare i giovani, e a questo deve aver pensato il presidente Porcedda quando ha sovrapposto la sua immagine all’identikit dell’allenatore che aveva in testa per il suo Bologna. È anche vero che le cose sono cambiate, dai tempi di Parma. Allora non avrebbe preso squadre in corsa, come ha fatto a Udine, a Empoli, a Siena. Prima costruiva i progetti in prima persona, ora deve prenderli già confezionati da altri. Lo ammette lui stesso: «Forse non sono più quello di anni fa, ma il pallone per me ha il significato di allora: gioia e lavoro, felicità e passione».
Prende un Bologna costruito da Porcedda e Longo. Ma è una situazione ben diversa da quella di un anno fa. C’è talento e gioventù, c’è una squadra che ha debuttato con orgoglio e rabbia agonistica. Per lui può essere la grande occasione. Per tornare a volare.

L'Informazione di Bologna, 1 settembre 2010