lunedì 22 gennaio 2024

Infinito


 

Sei stato il mio calcio.
Il mio calcio se ne va con te.
Avrei voluto che tu fossi immortale.

martedì 9 maggio 2023

IL CALCIO VISTO DA UN POETA

 

Appassionato tifoso del Bologna, che aveva visto giocare negli anni più gloriosi, e giocatore talentuoso: per Pasolini il gioco del pallone era un fenomeno sociale. A Biagi disse: “Avrei voluto essere un calciatore”

testo di Marco Tarozzi


I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”, ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita”.

La Bologna di Pier Paolo Pasolini passa da lì, anzi si può dire che sia nata lì. Tra il liceo Galvani e i Prati di Caprara, il campo dove nel 1909 aveva preso il via la leggenda rossoblù, il luogo dove “quei matti che corrono dietro una palla” avevano iniziato a darsi appuntamento per dedicare un po’ del loro tempo e della loro gioventù al “football”. Lì passava le sue ore anche lo studente liceale Pasolini, reimmergendosi nello spirito di una città che fino a quel momento era stata solo un luogo di nascita. Perché in quel periodo la casa natale in via Borgonuovo era un ricordo sbiadito, quasi rimosso per via dei trasferimenti del padre, capitano di fanteria, tra Parma, il Veneto e il Friuli. Anche se il Bologna, inteso come amore sportivo, era sempre presente, persino nei colori rosso e blu con cui l’adolescente Pier Paolo aveva tappezzato la camera a Casarsa, paese natale di mamma Susanna.

SOGNANDO BIAVATI. C’erano quegli interminabili pomeriggi passati correndo dietro al pallone, e c’era anche lo spettacolo delle partite vere, quelle viste dagli spalti dello stadio. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Quello era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone. Che domeniche, al Comunale…”
Amedeo Biavati fu il primo mito vero. Un campione del mondo che ispirò quel ragazzo magro ma già potente, un fascio di nervi, nelle sue sgroppate sulla fascia. Intorno c’era i
l Bologna di prima della guerra, quello dell’ultimo Felsner e dell’ultimo Schiavio, di Reguzzoni, di Sansone e Fedullo, del quinto e sesto scudetto. E Pier Paolo, sull’erba dei Prati, provava e riprovava il “doppio passo”, finché aveva fiato ed energia in corpo.


BULGARO, FACCIA DA ATTORE. Quando Pasolini giocava a pallone, lasciava trasparire un entusiasmo quasi infantile. Lo hanno ricordato nel tempo anche gli amici più cari, come Ninetto Davoli o Sergio Citti, impegnati tante volte al suo fianco in quella che allora si chiamava Nazionale Attori e Cantanti, e iniziava ad esibirsi per beneficenza. Lui era il capitano, naturalmente. E da quel gruppo passarono Gianni Morandi, Ugo Tognazzi, Franco Nero, Philippe Leroy, Enrico Montesano, Enzo Cerusico, Maurizio Merli.
Una passione di cui sono testimonianza proprio le parole di Citti, suo storico collaboratore così come di Bertolucci e Scola. “
Una volta incontrò Giacomo Bulgarelli. Restò incantato: pareva avesse visto Gesù Cristo”. A Giacomino, leggenda rossoblù, il Pasolini regista arrivò anche a proporre un ruolo importante ne “I racconti di Canterbury”. Sosteneva che oltre ad essere un prosatore del calcio, a differenza di Riva che ne rappresentava la poesia, il Bulgaro avesse anche la faccia giusta per stare davanti alla macchina da presa. Ma forse i tempi non erano maturi perché un eroe del pallone si mescolasse a quelli del cinema, anche se il precedente di Raf Vallone, che prima di diventare attore aveva giocato in Serie A con i colori del Torino, avrebbe potuto invogliare quel ragazzo destinato a diventare una bandiera rossoblù. Che comunque ringraziò, declinando l’invito.

AMORE E PALLONE. Più tardi, Pasolini riuscì comunque a coinvolgere i suoi idoli, in modo totalmente diverso. Nel 1963, mentre lavorava a “Comizi d’amore”, documentario pensato con l’intento di conoscere le opinioni degli italiani sulla sessualità, l'amore e il buon costume, e per capire il cambiamento della morale dei suoi connazionali, riuscì a sondare il mondo del pallone e lo fece proprio attraverso i giocatori del Bologna. Irrompendo all’allenamento dei rossoblù per intervistarli e provocando un imbarazzo diffuso, perché quasi sessant’anni fa parare di certi argomenti e in certi contesti, e farlo senza filtri o remore, era piuttosto complicato. Date un’occhiata a quello spezzone: troverete Pavinato che sembra il più deciso, Pascutti che dice pane al pane e vino al vino, Bulgarelli che attacca un sermoncino da studente modello, Furlanis che divaga, Negri che evita l’argomento (come del resto faceva con ogni altro argomento). Una testimonianza da un mondo ancora chiuso, pieno di cose non dette.


TIFOSO VERO. C’è dunque il Pasolini tifoso, accanto al Pasolini giocatore. Entrambi appassionati. Dopo gli anni giovanili, il primo continuò a frequentare gli stadi, e quando possibile anche le partite del Bologna: a Roma si presentò spesso all’Olimpico per vedere i rossoblù impegnati contro la Roma o la Lazio. Gli piaceva andarci in compagnia, e il sodale preferito era Paolo Volponi, che condivideva con lui la fede rossoblù pur essendo nato ad Urbino. E il Comunale, oggi intitolato a Renato Dall’Ara, era sempre nei suoi pensieri, quando non addirittura nelle sue rime: “…E so come sia terso in questo ottobre / il colle di San Luca sopra il mare / di teste che copre il cerchio dello stadio…”

SFIDA TRA REGISTI. Il secondo, quello che andava personalmente in campo, restò agguerrito anche in età matura. Sempre all’ala, sempre a spendersi generosamente, sempre in cerca della vittoria perché perdere non gli piaceva affatto. Per dire, uscì dal campo arrabbiatissimo in occasione dell’improvvisato derby tra le troupes di “Novecento” e di Salò o le 120 giornate di Sodoma”, quando lui e Bertolucci interruppero i lavori sui set che distavano pochi chilometri l’uno dall’altro per sfidarsi in una partita accesissima. Si arrabbiò, Pasolini, perché quell’incontro come al solito lo aveva preso dannatamente sul serio, mettendo a disposizione anche la muta di maglie (rossoblù, ci mancherebbe) per la squadra, e una volta in campo aveva subito capito che i compagni avevano preso l’impegno sottogamba. Per la felicità di Bertolucci, che nel giorno del suo compleanno, seppure da semplice spettatore, vide il team di “Novecento” vincere 5-2.

FENOMENO SOCIALE. Pier Paolo Pasolini amava il calcio perché lo considerava fondamentale all’interno della nostra società. Il calcio è un fenomeno sociale, che lui spiega come “un sistema di segni, un linguaggio. Chi non conosce il codice del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi)”.
Lui lo conosceva davvero, quel significato. Al punto da non avere dubbi nemmeno sulla risposta da dare ad Enzo Biagi che gli chiese cosa avrebbe voluto diventare, senza cinema né scrittura: “
Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”.



LA SOLITUDINE DEL POETA. Pier Paolo Pasolini a Roma aveva costruito la sua grandezza e coltivato la sua profonda solitudine. Scrivendo opere che hanno segnato il tempo, da “Ragazzi di vita” a “Una vita violenta”, da “Teorema” all’incompiuto e drammatico “Petrolio”; creando un cinema poeticamente tragico, fatto di accattoni e Vangeli. E c’è tragicamente il calcio anche a segnare la sua fine: su un campetto squallido del litorale, uno di quelli su cui si tirano calci sghembi al pallone, morì di una morte violenta e mai davvero chiarita una notte d’autunno del 1975. In quell’agguato non se ne andò semplicemente un personaggio famoso e controverso, uno scrittore, un regista, ma un uomo libero e controcorrente, e per questo assediato dai dubbi e da una malinconica tristezza. Uno che non aveva dimenticato i luoghi di Bologna: il Galvani, i Prati di Caprara, il Comunale, posti che aveva amato e nei quali aveva bruciato passioni ed emozioni.

("Nelle Valli Bolognesi", n. 2/2022)

 

 


mercoledì 19 aprile 2023

QUANDO BILL BOWERMAN COMBATTEVA IN APPENNINO

 


Il leggendario allenatore dell’atletica statunitense (e di Steve Prefontaine) partecipò con la 10th Mountain Division alla conquista dei Monti della Riva nel 1945, spezzando la Linea Gotica tedesca

 

di Marco Tarozzi

 

Nella storia dell’atletica, Bill Bowerman ha un posto da protagonista. Praticamente una leggenda. A partire dagli anni Cinquanta, ha alimentato la grande tradizione dei runners dell’Oregon, guidando tra gli altri un mito della corsa come Steve Prefontaine, che uscendo dalla Marshfield High School scelse la University of Oregon proprio per farsi allenare da lui, che era il migliore. E’ stato un pioniere e un divulgatore, anticipando il fenomeno della corsa “per tutti”, il boom che ha portato milioni di amatori a muoversi, attraverso uno dei gesti più semplici che conosciamo, sulle strade del mondo. Ha dato vita a un’azienda che nel tempo è diventata un’icona dell’abbigliamento sportivo, una vera e propria multinazionale, curandone i primi passi da imprenditore “homemade” ma tutt’altro che improvvisato.
Ma prima di tutto questo, Bill Bowerman ha fatto altro. E’ stato un soldato, un ufficiale in tempi di guerra, mettendo ogni sua conoscenza al servizio di un ideale di libertà. Ha partecipato agli ultimi fuochi del secondo conflitto mondiale del secolo scorso, impegnato sui monti dell’Appennino emiliano, a una manciata di chilometri da Bologna, ad organizzare l’offensiva americana contro i tedeschi. Ed è questa storia, questa parte della sua vita certamente meno conosciuta, che vi raccontiamo stavolta.



I GIORNI IN APPENNINO – Bowerman partecipa alla Liberazione nei ranghi della 10th Mountain Division dell’86mo Reggimento, arrivata a Napoli alla vigilia di Natale del ’44 e subito salita a Nord. Una divisione speciale, addestrata in Colorado sulle Rocky Mountain, di cui fanno parte molti maestri di sci e alpinisti, arruolatisi su base volontaria. Tra gli altri, c’è anche Bob Dole, che nel ’94 si candiderà alle presidenziali Usa, contro Bill Clinton. Dole è sottotenente, nell’aprile del ’45 gli toccherà guidare un drappello di una decina di uomini nell’assalto a una località chiamata Torre Jussi, con i tedeschi annidati su una collina, e rischierà la vita, ferito in uno scontro a Castel d’Aiano.
La 10th Mountain Division arriva nella Valle del Dardagna a metà febbraio, con l’obiettivo di conquistare i Monti della Riva e il Monte Belvedere. Sono roccaforti della Wermacht, luoghi strategici da cui i tedeschi possono indirizzare le azioni dell’artiglieria tedesca. Assicurarsi il controllo della “Riva Ridge”, come gli americani hanno ribattezzato la zona, vuol dire sfondare una Linea Gotica fin qui impenetrabile, e assicurare una marcia trionfale per la liberazione di tutta l’Italia.





CLIMB TO GLORY – Il generale George Hays è il comandante della divisione. Il capitano Bill Bowerman, che sarà promosso maggiore nel corso delle operazioni successive, ha un ruolo fondamentale. E’ il responsabile della logistica. Da quelle parti molti ricordano ancora le storie raccontate da genitori e nonni, di quando gli americani, prossimi all’assalto decisivo, hanno l’assoluta necessità di reperire muli, per trasportare il materiale necessario all’impresa su quei sentieri impervi. Il comando ha sede a Lizzano in Belvedere, e da lì gli uomini comandati da Bowerman si muovono verso tutti i casolari per cercare animali da tiro. Una “requisizione” necessaria e non forzata: i soldati rilasciano ai proprietari, contadini e allevatori locali, una regolare ricevuta con cui possono recarsi al comando per farsi pagare l’inatteso “acquisto”.
Ci si muove di notte, il 18 febbraio 1945, partendo da La Cà di Vidiciatico. E’ la “climb to glory”, silenziosa, efficiente. Gli americani attaccano in salita, senza fare rumore: le piccozze, che servono a guadagnare metri su un terreno arduo, sono avvolte nella stoffa. La via scelta è giudicata “non scalabile”, anche dai tedeschi. Sono in 700, invece, ad arrampicarsi, per un’impresa che gli stessi alleati giudicano rischiosissima, tanto che nell’assalto hanno previsto la presenza di sei medici, quando solitamente una truppa ne ha soltanto uno al seguito. La nebbia scende ad aiutarli, nascondendo la lunga fila degli scalatori che arriva in prossimità delle linee nemiche cogliendole nel sonno. I tedeschi, colti di sorpresa, perdono le loro posizioni privilegiate, ma organizzano un contrattacco che sfocerà in una cruenta battaglia durata cinque giorni. Nella notte tra il 18 e 19 febbraio, mentre infuria la battaglia, i genieri del 126mo Mountain Engineers costruiscono una teleferica in prima linea, qualcosa di storico, che va da Cà di Julio a Cappel Buso, 540 metri di lunghezza e 200 di dislivello. Servirà a trasportare a monte munizioni e materiali, ma anche a spostare feriti e caduti. Alla fine, molti meno di quanto si era temuto. Le perdite americane sono contenute: 21 soldati morti, 52 feriti. La notte del 23 febbraio i tedeschi si ritirano, e parte l’assalto al Monte Belvedere. Bill Bowerman sarà ancora operativo nella battaglia di Monte Gorgolesco, e in quella per la conquista di Iola di Montese, nella quale cadrà il norvegese naturalizzato statunitense
Torger Tokle, campione di salto con gli sci, più volte primatista nazionale della disciplina. Quindi, la 10th Mountain Division continuerà la sua marcia di liberazione, attraversando per prima il Po e spingendosi fino ad Arco di Trento.

 



IL GURU DELL’OREGON – Tornato negli States, il maggiore Bowerman già sul finire degli anni Quaranta è tecnico delle squadre di atletica della University of Oregon. Per ventisei anni le guiderà ai vertici dello sport statunitense, portando quattro volte l’ateneo al titolo nazionale NCAA, forgiando 44 All Americans e 19 atleti approdati ai Giochi Olimpici. Svezzando campioni come Bill Dellinger, “cuore di quercia”, bronzo nei 5000 metri alle Olimpiadi di Tokio nel ’64, poi suo assistente dal ’72, quando a Bowerman verrà affidata la guida del gruppo di mezzofondisti ai Giochi Olimpici di Monaco. O come Jim Bailey, Otis Davis, Dyrol Burleson, Wade Bell, Kenny Moore. E naturalmente “Pre”, al secolo Steve Prefontaine, la leggenda. Il più grande mezzofondista americano della sua epoca, scomparso a soli 24 anni a causa di un incidente stradale, quando all’apice del suo percorso atletico ed umano deteneva tutti i primati statunitensi del mezzofondo, dai 2000 ai 10000 metri.





DA “PRE” ALLE “WAFFLE” – Stabilitosi ad Eugene, la culla dell’atletica a stelle e strisce, Bowerman dal 1972 si dedica totalmente alla sperimentazione delle scarpe da corsa della piccola azienda che ha creato insieme a Phil Knight, suo allievo. Inventa scarpe sperimentali e le chiama “waffle”, perché lavora alle suole con una gomma speciale che plasma sulla macchinetta per i dolci “presa in prestito” dalla dispensa della moglie. Quelle scarpe vengono portate in giro con una macchina, a margine delle riunioni su pista in Oregon, e proposte agli atleti. La piccola azienda si chiama dapprima Blue Ribbon Sports, ma presto i suoi fondatori cercheranno un nome più propizio ed evocativo, scegliendo quello della dea greca della vittoria, Nike. Non occorre ricordare ciò che quell’azienda rappresenta oggi. Ha vestito fior di campioni, di tutti gli sport. Ma uno soltanto ha l’onore di avere una statua che lo ricorda davanti all’entrata del quartier generale di Beaverton, in Oregon. Steve Prefontaine, naturalmente. Il primo a indossare quel prodotto, e il primo a diffonderlo al di fuori dell’Oregon.

 


PER NON DIMENTICARE – Amici storici dell’atletica petroniana hanno studiato a fondo questa storia. Sono ex mezzofondisti come Giancarlo Brunetti, già presidente della Fidal bolognese, Guido Genicco, che in Nike lavora da decenni, ed Ettore Casanova, hanno tenuto i contatti con gli eredi del grande coach e tempo fa hanno addirittura proposto di innalzare un cippo alla memoria di un grande uomo a cui dobbiamo molto, non solo nella nostra vita da sportivi. Sarebbe un’idea. Perché Bill Bowerman, il creatore di Nike, è stato tra i pianificatori dell’assalto alla Riva Ridge, ha lasciato il segno del suo passaggio a Monte Pastore, Cereglio, Cà Bortolani, Tolè, Lizzano in Belvedere. Fa parte di una storia importante, e gli dobbiamo un bel po’ della nostra libertà.


(Nelle Valli Bolognesi - 2022)



martedì 14 marzo 2023

INVENTARE LA VITA

 


C'è chi attraversa la vita e chi la inventa.
Addio, splendido rivoluzionario.


lunedì 16 gennaio 2023

LA LEGGENDA DI KOCISS

 


Se ne va una bandiera della Virtus, protagonista della rinascita di inizio anni Settanta.

Talento cristallino e anima hippie, ispirò una generazione di appassionati della pallacanestro. Insieme a Gary Schull alimentò il mito della Città dei Canestri

di Marco Tarozzi
BOLOGNA

John Fultz è stato molto più di un immenso talento della pallacanestro. A Bologna ha incantato una generazione di ragazzi degli anni Settanta. Perché lui era altro: l’indiano, l’atleta magnifico e affascinante, l’America della generazione hippy che iniziavamo a leggere sui libri, sognando libertà e strade che finivano chissà dove. Era un mondo nuovo, un tiro fatato a canestro da ripetere mille volte, sapendo che quella perfezione non ci sarebbe mai stata data. Era la nostra uscita dal mondo in bianco e nero, la nostra prima vita a colori.

UOMO DELLA RINASCITA. Per la Virtus è stato tanto altro. La rinascita, prima di tutto. Quando arrivò dagli States, il grande Gigi Porelli stava raddrizzando una barca che sul finire degli anni Sessanta aveva perso smalto e lucentezza. Sull’altra sponda, in casa Fortitudo, c’era già da qualche stagione il Barone Gary Schull. John diventò l’altra faccia della Città dei Canestri, insieme ne costruirono le nuove fondamenta. L’epopea  di BasketCity, a pensarci, è iniziata con loro. Da una parte il Barone, dall’altra Kociss. Prima l’idea di derby era abbozzata, anche se i precedenti non mancavano, ma riguardavano Virtus e Gira, persino Moto Morini e Oare. La Fortitudo era giovane e arrembante, la Virtus aveva addosso il profumo della storia e della gloria.

JOHN E GARY. E in mezzo al campo, loro. Il Barone, al secolo Gary Walter Schull, aveva già avuto il tempo di scontrarsi con un fenomeno come Terry Driscoll, al primo fugace passaggio in terra bianconera. Ma quando arrivò l’altro, quando arrivò Kociss, ovvero John Leslie Fultz, fu subito un’altra storia. Anche per quel bellissimo palazzo di piazza Azzarita, che dopo anni in cui faceva il pieno solo se si parlava di boxe iniziò a riempirsi anche per la pallacanestro.





LA LEGGENDA DI KOCISS - Quando scelse l’Italia, John usciva da anni felici alla Rhode Island University, dalle tre grandi sfide, veri e propri derby d’oltreoceano, con UMass di Julius Erving, da una preseason giocata con la canotta dei Lakers insieme a Jim Mc Millian e Jim Cleamons, dalle sfide con Calvin Murphy sfociate in una profonda amicizia. Era un’America da leggenda, ma John ne uscì per venire in Italia. Da Rhode Island era uscito come quinto realizzatore all-time della franchigia, con una fama di buon rimbalzista e una media di oltre venti punti a partita. Alla fine di quella rassegna estiva fu convocato da Fred Shaus, general manager dei Lakers, che gli offrì un contratto minimo, non garantito. I Lakers erano i Lakers, ma lui non la prese benissimo. Qualche giorno dopo, giocando al North South All Star Game di New York, vetrina per i migliori prospetti usciti dall’università, accanto a Mel Davis, Calvin Murphy, Claude English, in una partita segnò 34 punti e fu eletto “mvp” dell’incontro. Fu notato da un certo Aza Nikolic, che lo portò a Varese come straniero di Coppa. Era il 1970. Un anno dopo prese la strada di Bologna, scelto dall’avvocato Porelli per la sua Virtus. Fu così che il Barone e Kociss, nell’anno di grazia 1971, si trovarono faccia a faccia nel piccolo Madison di piazza Azzarita. Diventarono idoli assoluti, branditi dalle due tifoserie come totem, per alimentare una rivalità che da allora è diventata storia. I primi a trasformare una partita di basket in un evento.

LE GRANDI SFIDE - Fiorì in quei tempi un’aneddotica che si è tramandata negli anni. Il Barone, un pezzo di pane in realtà, che affiggeva ai muri della stanza le foto dei rivali, per caricarsi prima delle partite. Il sangue sulla canotta, diventato icona di fortitudinità. Kociss, sull’altra sponda, ci metteva tecnica e valanghe di punti segnati in tempi in cui il tiro da tre non era nemmeno un’idea, e rimbalzi accatastati, “doppie doppie” da far sognare il popolo bianconero.
Kociss movimentava anche la vita fuori dal parquet con la sua condotta da hippye, innamorato di pace e amore, con gli appartamenti pieni di amici e presunti tali a notte fonda, al punto che quando Porelli decideva di tenerlo un po’ sotto controllo, lo portava al Flamengo insieme a lui. Era anche tornato negli States a fare un nuovo provino per i Lakers dopo il primo anno bolognese: si fece fregare dalla sua voglia, quasi necessità, di vivere la vita intensamente, e l’occasione sfumò. Lui, semplicemente, tornò a Bologna. Il posto dove tutti si voltavano quando lo vedevano passar per strada, il posto dove era diventato un idolo per gli innamorati della V nera.

GRANDI NUMERI. Alla Virtus ha regalato, in tre stagioni, dal 1971 al 1974, 83 partite di campionato e 2232 punti, 1898 in campionato e 334 in Coppa Italia. Fate i conti: è una media di 27.2 punti a partita. Quella Coppa Italia del 1974 fu , primo passo verso il ritorno ai vertici di una società che non poteva avere altra collocazione, nel basket italiano, e la Virtus lo vinse soprattutto grazie a lui, che fu eletto anche Mvp della finale. Ancora: nella prima stagione bianconera fu il miglior realizzatore del campionato. E’ stato un giocatore moderno, completo. Tecnica sopraffina, movimenti da manuale, tiro vellutato eppure letale per qualunque difesa.



L’ADDIO. Soprattutto, è stato un giocatore mai altezzoso ed un uomo generosissimo. Gli fece male andarsene dalla Virtus, ma capì la scelta di Dan Peterson e i due rimasero in ottimi rapporti. Lo ricordava proprio John: “Dan fu corretto con me. Mi disse grazie per quello che stavo dando, e mi confermò che c’era la possibilità di portare a Bologna un fuoriclasse come Tom McMillen. “Se l’affare non va in porto resti tu”, mi disse. Ma Tom arrivò e toccò a me fare le valigie”. Fultz iniziò il suo pellegrinaggio sui parquet: in Svizzera, Austria, Portogallo; da tecnico, a inizio carriera allenò anche le giovanili della V nera, poi finì a Napoli, altra città che gli è rimasta nel cuore per tutta la vita.

LA SUA AMERICA. Ma Bologna era Bologna, nel suo cuore. Ci era tornato un paio di anni fa, perché, diceva, “In fondo la mia America l’ho soltanto sfiorata dall’altra parte dell’oceano, poi l’ho trovata qui. Ora, dopo tanto girare, sono di nuovo a casa mia”. Forse era destino che finisse qui, ma è comunque troppo presto. Ora sono di nuovo insieme, Kociss e il Barone, gli americani che cambiarono volto al basket bolognese e fecero nascere il mito di Basket City. Erano amici, ma si divertivano a interpretare ruoli: Gary il cowboy, anche sulla copertina del 45 giri che lo segnalò come meteora della canzone; John l’indiano, a cui Lucio Dalla in persona consigliò di fare altrettanto, con quella faccia da artista, ma lui decise che con quella voce sarebbe stato meglio continuare a darci dentro sul parquet. E’ stato la nostra ispirazione, questo meraviglioso hippie che oggi salutiamo come faceva sempre lui: “Peace”, John. Ti vorremo sempre bene.

Più Stadio, 14 gennaio 2022




 


venerdì 6 gennaio 2023

CARTE SBAGLIATE


 

So che quella è una bestia che non ti toglie i denti di dosso. So cosa significa avere compagni di stanza che sognano ancora un futuro e un mese dopo non ci sono più. So che a volte hai più fortuna di altri, perché l'ho avuta. So che qualcuno ti rimane nel cuore perché ha distribuito talento. So che gli anni di Genova sono i più belli da ricordare, perché quella era la squadra perfetta che arrivava dai caruggi, non dai piani nobili del calcio.

Soprattutto, so che a nemmeno sessant'anni sei ancora curioso della vita. Ti tocca la carta sbagliata, e non c'è un senso. Mai.


lunedì 7 novembre 2022

NEL PAESE DI GIACOMINO

 


Un piccolo mondo fuori dal mondo, dove anche il silenzio parla di un ragazzo che giocava nel campo della parrocchia e finì col diventare la bandiera del Bologna

di Marco Tarozzi

PORTONOVO DI MEDICINA

“Mi piace la campagna, in fondo ci sono nato. Se studiassi agraria, potrei fare il contadino con basi scientifiche, moderne. A Portonovo ci sono le zanzare, a Bologna c’è la nebbia e molto freddo. Eppure non c’è altra campagna al di fuori di Portonovo dove io vorrei stare, e non c’è altra città oltre a Bologna dove vorrei andare”.
Benvenuti a Portonovo, quindici chilometri da Medicina, un punto smarrito nella Bassa dove è nato l’ultimo gigante rossoblù. Ieri avrebbe festeggiato le ottantadue primavere, Giacomo Bulgarelli, se non se ne fosse andato troppo presto. Ma se venite qui, a camminare in un pomeriggio d’ottobre dentro una storia di paese e di margine, troverete mille dettagli che parlano ancora di lui. Magari, proprio come Giacomino da bimbo, avrete la fortuna di vedere un “saiano”. Dicono che non esista, un animale così; ma se lui lo ha incrociato, non può che essere stato in questa campagna.



MONDO PICCOLO. Portonovo ha un cuore antico. Fu fondata nel 1334, quando fu costruito il “Canale di Trecenta”, il tratto navigabile di Buda che portava le merci verso Ferrara e Modena. Un porto nuovo, appunto: per questo la strada che arriva dentro al paese è una sottile linea grigia: dalla San Vitale quattro chilometri dritti verso Buda, una curva ad angolo retto verso destra, mezzo chilometro e di nuovo giù, altri cinque in linea retta, che si perdono nel nulla. “E’ impossibile non trovare la piazza con il bar-trattoria”, dice sorridendo Romina Gurioli, presidente dell’associazione Pro Portonovi’s. “Prima che la strada faccia una leggera deviazione a sinistra e poi prosegua verso il Sillaro, ci sbatti contro”. La grande casa dove sorge il bar, con la trattoria ancora a pieno regime, è quella in cui è nato Giacomo. L’esercizio era gestito da suo zio, a fianco c’era il negozio di alimentari di papà Leandro, nell’edificio accanto la latteria della zia. Un mondo piccolo, guareschiano, da cui Giacomo partì appena dodicenne per andare a frequentare il collegio San Luigi a Bologna. Senza mai perdere il legame con le radici. Questo era davvero il porto nascosto, per lui. La pace e il silenzio in cui immergersi dopo le mille sfide del calcio.



LA TERRA BUONA. C’è un altro dettaglio che rende unico il paese. I terreni facevano parte della Partecipanza di Medicina, ma dopo il dissesto economico del 1892 divennero proprietà di un certo cavalier Benelli, che poi li cedette alla famiglia Tamba. Nel 1933 arrivarono le assicurazioni Generali di Trieste e acquistarono tutto: terreni, case antiche e nuove, in un certo senso anche chi ci viveva dentro, perché la mano d’opera per i lavori nelle immense proprietà veniva scelta sul posto. Un ambiente di operai.. della terra, in cui la famiglia Bulgarelli spiccava per quello status di borghesia che può permettere una attività commerciale ben avviata. Insomma, la famiglia “stava bene”, come si diceva allora. E Giacomo era uno studente modello, anche se dovette frequentare due volte la quinta elementare: non perché fosse stato bocciato, ma perché andare alle medie a Medicina era complicato e ci volle il tempo per organizzargli il trasferimento al San Luigi. Due anni dopo la sua partenza, tutto il nucleo familiare prese la strada di Bologna. Compresa Olga, la “dada” di Giacomino, grande maestra di cucina tradizionale, regina del tortellone, della tagliatella al ragù di cipolla e del “friggione”, che da queste parti è ancora oggi un piacere del gusto di cui è difficile privarsi.



MILANISTI MAI. “Giacomo fin da bambino ci sapeva fare, col pallone”, ricorda Secondo Selva, classe 1936, per quasi vent’anni presidente della società di calcio di Portonovo, nel cui ambiente gravita ancora,  dopo mezzo secolo. “Qui si usciva da scuola e si andava a giocare nel campetto dietro la chiesa, per interi pomeriggi. Poi lui finì nella squadra dei giovani, che qui avevamo ribattezzato “O la va o la spacca”. Beh, a lui è andata alla grande, niente da dire. Io negli anni ho coltivato una fede milanista: sa com’è, Giacomo non era ancora il Bulgarelli amato da tutti, e Rivera dettava legge. Lui non me l’ha perdonata, anche se poi ci è andato vicino, al Milan: ogni volta che tornava, scherzando, diceva “mè i milanèsta an’ i salùt brisa”, e ridevamo come matti”.



TESSERATO. Qui tutto è a due passi. Lo stadio, indicato così anche da un cartello stradale, è a duecento metri dalla piazza principale, che naturalmente è stata intestata al campione. Inaugurato nel 1976, ci gioca il Portonovo, oggi presieduto da Giuseppe Astorino, da sempre nella categoria Amatori. “Gli ho passato il testimone tre anni fa”, continua Selva, “dopo che io lo avevo ricevuto da Veliano Brusa, sessanta anni di amore per il nostro calcio. Non tutti lo sanno, ma a fine carriera Giacomo è stato tesserato per il Portonovo per almeno tre stagioni. E non solo lui: portò anche Giuseppe Vavassori, il portiere del Bologna anni Settanta, che però qui non voleva stare tra i pali e diventò centrocampista”. Su questo campo, Bulgarelli portava anche gli amici delle amichevoli domenicali: Giorgio Comaschi, Fio Zanotti, Andrea Mingardi, Jimmy Villotti, e poi Colomba, Pecci, Massimelli. Erano i giorni in cui Portonovo, la piccola Portonovo, si sentiva al centro del mondo.



VICINO E  LONTANO. Per dire, in quel cinema che è un gioiellino, costruito proprio nel 1933 dopo l’acquisto delle Generali, in una sera di ottobre del 1976 Sandro Ciotti venne a presentare in prima assoluta “Il profeta del gol”, il film su Johann Cruijff di cui era regista. Lo portò Bulgarelli, naturalmente, e con lui Pesaola, tanti giocatori e tanti giornalisti. Finì tutto con la leggendaria “Rustida a Newport”, con Ciotti virtuoso della fisarmonica, chili di pesce sulla griglia e fiumi di buon vino della campagna.
Perché Portonovo è esattamente come la descrive Romina Gurioli: “Un posto al centro del mondo dove c’era tutto, il pallone, la scuola, il cinema, i negozi. Eppure, anche un posto lontano da tutto”. Per questo, forse, Giacomino non riusciva a stare lontano da qui.


 (Più Stadio, 25 ottobre 2022)