Sei stato il mio calcio.
Il mio calcio se ne va con te.
Avrei voluto che tu fossi immortale.
facce da sport
righe sparse. momenti, passioni, emozioni
lunedì 22 gennaio 2024
martedì 9 maggio 2023
IL CALCIO VISTO DA UN POETA
Appassionato tifoso del Bologna, che aveva visto giocare negli anni più gloriosi, e giocatore talentuoso: per Pasolini il gioco del pallone era un fenomeno sociale. A Biagi disse: “Avrei voluto essere un calciatore”
testo di Marco Tarozzi
“I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di
Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra,
allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”,
ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita”.
La Bologna di Pier Paolo
Pasolini passa da lì, anzi si può dire che sia nata lì. Tra il liceo Galvani e
i Prati di Caprara, il campo dove nel 1909 aveva preso il via la leggenda
rossoblù, il luogo dove “quei matti che corrono dietro una palla” avevano iniziato a darsi appuntamento per dedicare un po’ del loro
tempo e della loro gioventù al “football”. Lì passava le sue ore anche lo
studente liceale Pasolini, reimmergendosi nello spirito di una città che fino a
quel momento era stata solo un luogo di nascita. Perché in quel periodo la casa
natale in via Borgonuovo era un ricordo sbiadito, quasi rimosso per via dei
trasferimenti del padre, capitano di fanteria, tra Parma, il Veneto e il
Friuli. Anche se il Bologna, inteso come amore sportivo, era sempre presente, persino
nei colori rosso e blu con cui l’adolescente Pier Paolo aveva tappezzato la
camera a Casarsa, paese natale di mamma Susanna.
SOGNANDO BIAVATI. C’erano quegli
interminabili pomeriggi passati correndo dietro al pallone, e c’era anche lo
spettacolo delle partite vere, quelle viste dagli spalti dello stadio. “Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Quello era il
Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni
e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho
mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone. Che
domeniche, al Comunale…”
Amedeo Biavati fu il primo mito vero. Un campione del mondo che ispirò
quel ragazzo magro ma già potente, un fascio di nervi, nelle sue sgroppate
sulla fascia. Intorno c’era il Bologna di prima della
guerra, quello dell’ultimo Felsner e dell’ultimo Schiavio, di Reguzzoni, di
Sansone e Fedullo, del quinto e sesto scudetto. E Pier Paolo, sull’erba dei
Prati, provava e riprovava il “doppio passo”, finché aveva fiato ed energia in
corpo.
BULGARO, FACCIA DA ATTORE. Quando
Pasolini giocava a pallone, lasciava trasparire un entusiasmo quasi infantile.
Lo hanno ricordato nel tempo anche gli amici più cari, come Ninetto Davoli o
Sergio Citti, impegnati tante volte al suo fianco in quella che allora si
chiamava Nazionale Attori e Cantanti, e iniziava ad esibirsi per beneficenza.
Lui era il capitano, naturalmente. E da quel gruppo passarono Gianni Morandi,
Ugo Tognazzi, Franco Nero, Philippe Leroy, Enrico Montesano, Enzo Cerusico,
Maurizio Merli.
Una passione di cui sono testimonianza proprio le parole di Citti, suo storico
collaboratore così come di Bertolucci e Scola. “Una volta incontrò Giacomo Bulgarelli.
Restò incantato: pareva avesse visto Gesù Cristo”. A Giacomino, leggenda rossoblù, il Pasolini regista arrivò anche a
proporre un ruolo importante ne “I racconti di Canterbury”. Sosteneva che oltre ad
essere un prosatore del calcio, a differenza di Riva che ne rappresentava la
poesia, il Bulgaro avesse anche la faccia giusta per stare davanti alla
macchina da presa. Ma forse i tempi non erano maturi perché un eroe del pallone
si mescolasse a quelli del cinema, anche se il precedente di Raf Vallone, che
prima di diventare attore aveva giocato in Serie A con i colori del Torino,
avrebbe potuto invogliare quel ragazzo destinato a diventare una bandiera
rossoblù. Che comunque ringraziò, declinando l’invito.
AMORE E PALLONE. Più tardi, Pasolini riuscì
comunque a coinvolgere i suoi idoli, in modo totalmente diverso. Nel 1963,
mentre lavorava a “Comizi d’amore”, documentario pensato con l’intento di conoscere
le opinioni degli italiani sulla sessualità, l'amore e il buon costume, e per
capire il cambiamento della morale dei suoi connazionali, riuscì a sondare il
mondo del pallone e lo fece proprio attraverso i giocatori del Bologna.
Irrompendo all’allenamento dei rossoblù per intervistarli e
provocando un imbarazzo diffuso, perché quasi sessant’anni fa parare di certi
argomenti e in certi contesti, e farlo senza filtri o remore, era piuttosto
complicato. Date un’occhiata a quello spezzone: troverete Pavinato che sembra
il più deciso, Pascutti che dice pane al pane e vino al vino, Bulgarelli che
attacca un sermoncino da studente modello, Furlanis che divaga, Negri che evita
l’argomento (come del resto faceva con ogni altro argomento). Una testimonianza
da un mondo ancora chiuso, pieno di cose non dette.
TIFOSO VERO. C’è dunque il Pasolini tifoso,
accanto al Pasolini giocatore. Entrambi appassionati. Dopo gli anni giovanili,
il primo continuò a frequentare gli stadi, e quando possibile anche le partite
del Bologna: a Roma si presentò spesso all’Olimpico per vedere i rossoblù
impegnati contro la Roma o la Lazio. Gli piaceva andarci in compagnia, e il
sodale preferito era Paolo Volponi, che condivideva con lui la fede rossoblù
pur essendo nato ad Urbino. E il Comunale, oggi intitolato a Renato Dall’Ara,
era sempre nei suoi pensieri, quando non addirittura nelle sue rime: “…E so come sia terso in questo ottobre /
il colle di San Luca sopra il mare / di teste che copre il cerchio dello
stadio…”
SFIDA TRA REGISTI. Il secondo, quello che
andava personalmente in campo, restò agguerrito anche in età matura. Sempre
all’ala, sempre a spendersi generosamente, sempre in cerca della vittoria
perché perdere non gli piaceva affatto. Per dire, uscì dal campo
arrabbiatissimo in occasione dell’improvvisato derby tra le troupes di “Novecento”
e di “Salò o le 120 giornate di
Sodoma”, quando lui e Bertolucci interruppero i lavori sui set che distavano
pochi chilometri l’uno dall’altro per sfidarsi in una partita accesissima. Si
arrabbiò, Pasolini, perché quell’incontro come al solito lo aveva preso
dannatamente sul serio, mettendo a disposizione anche la muta di maglie
(rossoblù, ci mancherebbe) per la squadra, e una volta in campo aveva subito
capito che i compagni avevano preso l’impegno sottogamba. Per la felicità di
Bertolucci, che nel giorno del suo compleanno, seppure da semplice spettatore,
vide il team di “Novecento” vincere 5-2.
FENOMENO SOCIALE. Pier Paolo Pasolini amava
il calcio perché lo considerava fondamentale all’interno della nostra società. “Il calcio è un fenomeno sociale, che lui spiega come “un sistema
di segni, un linguaggio. Chi non conosce il codice
del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il
senso del suo discorso (un insieme di passaggi)”.
Lui lo conosceva davvero, quel significato. Al punto da non avere dubbi nemmeno
sulla risposta da dare ad Enzo Biagi che gli chiese cosa avrebbe voluto
diventare, senza cinema né scrittura: “Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno
dei grandi piaceri”.
LA SOLITUDINE DEL POETA. Pier Paolo Pasolini a Roma aveva costruito la sua grandezza e coltivato la sua profonda solitudine. Scrivendo opere che hanno segnato il tempo, da “Ragazzi di vita” a “Una vita violenta”, da “Teorema” all’incompiuto e drammatico “Petrolio”; creando un cinema poeticamente tragico, fatto di accattoni e Vangeli. E c’è tragicamente il calcio anche a segnare la sua fine: su un campetto squallido del litorale, uno di quelli su cui si tirano calci sghembi al pallone, morì di una morte violenta e mai davvero chiarita una notte d’autunno del 1975. In quell’agguato non se ne andò semplicemente un personaggio famoso e controverso, uno scrittore, un regista, ma un uomo libero e controcorrente, e per questo assediato dai dubbi e da una malinconica tristezza. Uno che non aveva dimenticato i luoghi di Bologna: il Galvani, i Prati di Caprara, il Comunale, posti che aveva amato e nei quali aveva bruciato passioni ed emozioni.
("Nelle Valli Bolognesi", n. 2/2022)
mercoledì 19 aprile 2023
QUANDO BILL BOWERMAN COMBATTEVA IN APPENNINO
Il leggendario allenatore dell’atletica statunitense (e
di Steve Prefontaine) partecipò con la 10th Mountain Division alla conquista
dei Monti della Riva nel 1945, spezzando la Linea Gotica tedesca
di Marco Tarozzi
Nella storia
dell’atletica, Bill Bowerman ha un posto da protagonista. Praticamente una
leggenda. A partire dagli anni Cinquanta, ha alimentato la grande tradizione
dei runners dell’Oregon, guidando tra gli altri un mito della corsa come Steve
Prefontaine, che uscendo dalla Marshfield High School scelse la University of
Oregon proprio per farsi allenare da lui, che era il migliore. E’ stato un
pioniere e un divulgatore, anticipando il fenomeno della corsa “per tutti”, il
boom che ha portato milioni di amatori a muoversi, attraverso uno dei gesti più
semplici che conosciamo, sulle strade del mondo. Ha dato vita a un’azienda che
nel tempo è diventata un’icona dell’abbigliamento sportivo, una vera e propria
multinazionale, curandone i primi passi da imprenditore “homemade” ma tutt’altro che improvvisato.
Ma prima di tutto questo, Bill Bowerman ha fatto altro. E’ stato un soldato, un
ufficiale in tempi di guerra, mettendo ogni sua conoscenza al servizio di un
ideale di libertà. Ha partecipato agli ultimi fuochi del secondo conflitto
mondiale del secolo scorso, impegnato sui monti dell’Appennino emiliano, a una
manciata di chilometri da Bologna, ad organizzare l’offensiva americana contro
i tedeschi. Ed è questa storia, questa parte della sua vita certamente meno
conosciuta, che vi raccontiamo stavolta.
I GIORNI IN APPENNINO – Bowerman partecipa alla Liberazione
nei ranghi della 10th Mountain Division dell’86mo Reggimento, arrivata a Napoli
alla vigilia di Natale del ’44 e subito salita a Nord. Una divisione speciale,
addestrata in Colorado sulle Rocky Mountain, di cui fanno parte molti maestri
di sci e alpinisti, arruolatisi su base volontaria. Tra gli altri, c’è anche Bob
Dole, che nel ’94 si candiderà alle presidenziali Usa, contro Bill Clinton. Dole
è sottotenente, nell’aprile del ’45 gli toccherà guidare un drappello di una
decina di uomini nell’assalto a una località chiamata Torre Jussi, con i
tedeschi annidati su una collina, e rischierà la vita, ferito in uno scontro a
Castel d’Aiano.
La 10th Mountain Division arriva nella Valle del Dardagna a metà febbraio, con
l’obiettivo di conquistare i Monti della Riva e il Monte Belvedere. Sono
roccaforti della Wermacht, luoghi strategici da cui i tedeschi possono indirizzare le azioni dell’artiglieria tedesca.
Assicurarsi il controllo della “Riva
Ridge”, come gli americani hanno ribattezzato la zona, vuol dire sfondare
una Linea Gotica fin qui impenetrabile, e assicurare una marcia trionfale per la
liberazione di tutta l’Italia.
CLIMB TO GLORY
– Il generale George Hays è il comandante della divisione. Il capitano Bill
Bowerman, che sarà promosso maggiore nel corso delle operazioni successive, ha
un ruolo fondamentale. E’ il responsabile della logistica. Da quelle parti
molti ricordano ancora le storie raccontate da genitori e nonni, di quando gli
americani, prossimi all’assalto decisivo, hanno l’assoluta necessità di
reperire muli, per trasportare il materiale necessario all’impresa su quei
sentieri impervi. Il comando ha sede a Lizzano in Belvedere, e da lì gli uomini
comandati da Bowerman si muovono verso tutti i casolari per cercare animali da
tiro. Una “requisizione” necessaria e non forzata: i soldati rilasciano ai
proprietari, contadini e allevatori locali, una regolare ricevuta con cui possono
recarsi al comando per farsi pagare l’inatteso “acquisto”.
Ci si muove di notte, il 18 febbraio 1945, partendo da La Cà di Vidiciatico. E’
la “climb to glory”, silenziosa,
efficiente. Gli americani attaccano in salita, senza fare rumore: le piccozze,
che servono a guadagnare metri su un terreno arduo, sono avvolte nella stoffa.
La via scelta è giudicata “non scalabile”, anche dai tedeschi. Sono in 700,
invece, ad arrampicarsi, per un’impresa che gli stessi alleati giudicano
rischiosissima, tanto che nell’assalto hanno previsto la presenza di sei
medici, quando solitamente una truppa ne ha soltanto uno al seguito. La nebbia
scende ad aiutarli, nascondendo la lunga fila degli scalatori che arriva in
prossimità delle linee nemiche cogliendole nel sonno. I tedeschi, colti di
sorpresa, perdono le loro posizioni privilegiate, ma organizzano un
contrattacco che sfocerà in una cruenta battaglia durata cinque giorni. Nella
notte tra il 18 e 19 febbraio, mentre infuria la battaglia, i genieri del 126mo
Mountain Engineers costruiscono una teleferica in prima linea, qualcosa di
storico, che va da Cà di Julio a Cappel Buso, 540 metri di lunghezza e 200 di
dislivello. Servirà a trasportare a monte munizioni e materiali, ma anche a
spostare feriti e caduti. Alla fine, molti meno di quanto si era temuto. Le
perdite americane sono contenute: 21 soldati morti, 52 feriti. La notte del 23
febbraio i tedeschi si ritirano, e parte l’assalto al Monte Belvedere. Bill
Bowerman sarà ancora operativo nella battaglia di Monte Gorgolesco, e in quella
per la conquista di Iola di Montese, nella quale cadrà il norvegese
naturalizzato statunitense Torger Tokle, campione di salto con gli sci, più
volte primatista nazionale della disciplina. Quindi, la 10th Mountain Division
continuerà la sua marcia di liberazione, attraversando per prima il Po e
spingendosi fino ad Arco di Trento.
IL GURU DELL’OREGON – Tornato negli
States, il maggiore Bowerman già sul finire degli anni Quaranta è tecnico delle
squadre di atletica della University of Oregon. Per ventisei anni le guiderà ai
vertici dello sport statunitense, portando quattro volte l’ateneo al titolo
nazionale NCAA, forgiando 44 All Americans e 19 atleti approdati ai Giochi
Olimpici. Svezzando campioni come Bill Dellinger, “cuore di quercia”, bronzo
nei 5000 metri alle Olimpiadi di Tokio nel ’64, poi suo assistente dal ’72,
quando a Bowerman verrà affidata la guida del gruppo di mezzofondisti ai Giochi
Olimpici di Monaco. O come Jim Bailey, Otis Davis, Dyrol Burleson, Wade Bell,
Kenny Moore. E naturalmente “Pre”, al secolo Steve Prefontaine, la leggenda. Il
più grande mezzofondista americano della sua epoca, scomparso a soli 24 anni a
causa di un incidente stradale, quando all’apice del suo percorso atletico ed
umano deteneva tutti i primati statunitensi del mezzofondo, dai 2000 ai 10000
metri.
DA “PRE” ALLE “WAFFLE” – Stabilitosi ad
Eugene, la culla dell’atletica a stelle e strisce, Bowerman dal 1972 si dedica
totalmente alla sperimentazione delle scarpe da corsa della piccola azienda che
ha creato insieme a Phil Knight, suo allievo. Inventa
scarpe sperimentali e le chiama “waffle”, perché lavora alle suole con una
gomma speciale che plasma sulla macchinetta per i dolci “presa in
prestito” dalla dispensa della moglie. Quelle scarpe vengono portate in giro
con una macchina, a margine delle riunioni su pista in Oregon, e proposte agli
atleti. La piccola azienda si chiama dapprima Blue Ribbon Sports, ma presto i
suoi fondatori cercheranno un nome più propizio ed evocativo, scegliendo quello
della dea greca della vittoria, Nike. Non occorre ricordare ciò che
quell’azienda rappresenta oggi. Ha vestito fior di campioni, di tutti gli
sport. Ma uno soltanto ha l’onore di avere una statua che lo ricorda davanti
all’entrata del quartier generale di Beaverton, in Oregon. Steve Prefontaine,
naturalmente. Il primo a indossare quel prodotto, e il primo a diffonderlo al
di fuori dell’Oregon.
PER NON DIMENTICARE – Amici storici dell’atletica
petroniana hanno studiato a fondo questa storia. Sono ex mezzofondisti come
Giancarlo Brunetti, già presidente della Fidal bolognese, Guido Genicco, che in
Nike lavora da decenni, ed Ettore Casanova, hanno tenuto i contatti con gli
eredi del grande coach e tempo fa hanno addirittura proposto di innalzare un
cippo alla memoria di un grande uomo a cui dobbiamo molto, non solo nella
nostra vita da sportivi. Sarebbe un’idea. Perché Bill Bowerman, il creatore di
Nike, è stato tra i pianificatori dell’assalto alla Riva Ridge, ha lasciato il
segno del suo passaggio a Monte Pastore, Cereglio, Cà
Bortolani, Tolè, Lizzano in Belvedere. Fa parte di una storia importante, e gli
dobbiamo un bel po’ della nostra libertà.
(Nelle Valli Bolognesi - 2022)
martedì 14 marzo 2023
lunedì 16 gennaio 2023
LA LEGGENDA DI KOCISS
Se ne va una bandiera della Virtus, protagonista della rinascita di inizio anni Settanta.
Talento cristallino e anima hippie, ispirò una generazione di appassionati della pallacanestro. Insieme a Gary Schull alimentò il mito della Città dei Canestri
di Marco Tarozzi
BOLOGNA
John Fultz è stato molto più di un immenso talento della
pallacanestro. A Bologna ha incantato una generazione di ragazzi degli anni
Settanta. Perché lui era altro: l’indiano, l’atleta magnifico e affascinante,
l’America della generazione hippy che iniziavamo a leggere sui libri, sognando
libertà e strade che finivano chissà dove. Era un mondo nuovo, un tiro fatato a
canestro da ripetere mille volte, sapendo che quella perfezione non ci sarebbe
mai stata data. Era la nostra uscita dal mondo in bianco e nero, la nostra
prima vita a colori.
UOMO
DELLA RINASCITA. Per la Virtus è stato tanto altro. La
rinascita, prima di tutto. Quando arrivò dagli States, il grande Gigi Porelli
stava raddrizzando una barca che sul finire degli anni Sessanta aveva perso
smalto e lucentezza. Sull’altra sponda, in casa Fortitudo, c’era già da qualche
stagione il Barone Gary Schull. John diventò l’altra faccia della Città dei
Canestri, insieme ne costruirono le nuove fondamenta. L’epopea di BasketCity, a pensarci, è iniziata con
loro. Da una parte il Barone, dall’altra Kociss. Prima l’idea di derby era
abbozzata, anche se i precedenti non mancavano, ma riguardavano Virtus e Gira,
persino Moto Morini e Oare. La Fortitudo era giovane e arrembante, la Virtus
aveva addosso il profumo della storia e della gloria.
JOHN
E GARY. E in mezzo al campo, loro. Il Barone, al secolo Gary Walter
Schull, aveva già avuto il tempo di scontrarsi con un fenomeno come Terry
Driscoll, al primo fugace passaggio in terra bianconera. Ma quando arrivò
l’altro, quando arrivò Kociss, ovvero John Leslie Fultz, fu subito un’altra
storia. Anche per quel bellissimo palazzo di piazza Azzarita, che dopo anni in
cui faceva il pieno solo se si parlava di boxe iniziò a riempirsi anche per la
pallacanestro.
LE GRANDI SFIDE - Fiorì in quei
tempi un’aneddotica che si è tramandata negli anni. Il Barone, un pezzo di pane
in realtà, che affiggeva ai muri della stanza le foto dei rivali, per caricarsi
prima delle partite. Il sangue sulla canotta, diventato icona di fortitudinità.
Kociss, sull’altra sponda, ci metteva tecnica e valanghe di punti segnati in
tempi in cui il tiro da tre non era nemmeno un’idea, e rimbalzi accatastati,
“doppie doppie” da far sognare il popolo bianconero.
Kociss movimentava anche la vita fuori dal parquet con la sua condotta da
hippye, innamorato di pace e amore, con gli appartamenti pieni di amici e
presunti tali a notte fonda, al punto che quando Porelli decideva di tenerlo un
po’ sotto controllo, lo portava al Flamengo insieme a lui. Era anche tornato
negli States a fare un nuovo provino per i Lakers dopo il primo anno bolognese:
si fece fregare dalla sua voglia, quasi necessità, di vivere la vita
intensamente, e l’occasione sfumò. Lui, semplicemente, tornò a Bologna. Il
posto dove tutti si voltavano quando lo vedevano passar per strada, il posto
dove era diventato un idolo per gli innamorati della V nera.
GRANDI NUMERI. Alla Virtus ha regalato,
in tre stagioni, dal 1971 al 1974, 83 partite di campionato e 2232 punti, 1898
in campionato e 334 in Coppa Italia. Fate i conti: è una media di 27.2 punti a
partita. Quella Coppa Italia del 1974 fu , primo passo verso il ritorno ai
vertici di una società che non poteva avere altra collocazione, nel basket
italiano, e la Virtus lo vinse soprattutto grazie a lui, che fu eletto anche
Mvp della finale. Ancora: nella prima stagione bianconera fu il miglior
realizzatore del campionato. E’ stato un giocatore moderno, completo. Tecnica
sopraffina, movimenti da manuale, tiro vellutato eppure letale per qualunque
difesa.
L’ADDIO. Soprattutto, è stato un
giocatore mai altezzoso ed un uomo generosissimo. Gli fece male andarsene dalla
Virtus, ma capì la scelta di Dan Peterson e i due rimasero in ottimi rapporti.
Lo ricordava proprio John: “Dan fu corretto con me. Mi disse grazie per quello che stavo dando, e mi
confermò che c’era la possibilità di portare a Bologna un fuoriclasse come Tom
McMillen. “Se l’affare non va in porto resti tu”, mi disse. Ma Tom arrivò e
toccò a me fare le valigie”. Fultz iniziò il suo pellegrinaggio sui parquet: in
Svizzera, Austria, Portogallo; da tecnico, a inizio carriera allenò anche le
giovanili della V nera, poi finì a Napoli, altra città che gli è rimasta nel
cuore per tutta la vita.
LA SUA AMERICA. Ma
Bologna era Bologna, nel suo cuore. Ci era tornato un paio di anni fa, perché,
diceva, “In fondo la mia America
l’ho soltanto sfiorata dall’altra parte dell’oceano, poi l’ho trovata qui. Ora,
dopo tanto girare, sono di nuovo a casa mia”. Forse era destino che finisse qui, ma è comunque troppo presto. Ora sono di
nuovo insieme, Kociss e il Barone, gli americani che cambiarono volto al basket
bolognese e fecero nascere il mito di Basket City. Erano amici, ma si
divertivano a interpretare ruoli: Gary il cowboy, anche sulla copertina del 45
giri che lo segnalò come meteora della canzone; John l’indiano, a cui Lucio
Dalla in persona consigliò di fare altrettanto, con quella faccia da artista,
ma lui decise che con quella voce sarebbe stato meglio continuare a darci
dentro sul parquet. E’ stato la nostra ispirazione, questo meraviglioso hippie
che oggi salutiamo come faceva sempre lui: “Peace”, John. Ti vorremo sempre
bene.
Più Stadio, 14 gennaio 2022
venerdì 6 gennaio 2023
CARTE SBAGLIATE
So che quella è una bestia che non ti toglie i denti di dosso. So cosa significa avere compagni di stanza che sognano ancora un futuro e un mese dopo non ci sono più. So che a volte hai più fortuna di altri, perché l'ho avuta. So che qualcuno ti rimane nel cuore perché ha distribuito talento. So che gli anni di Genova sono i più belli da ricordare, perché quella era la squadra perfetta che arrivava dai caruggi, non dai piani nobili del calcio.
Soprattutto, so che a nemmeno sessant'anni sei ancora curioso della vita.
Ti tocca la carta sbagliata, e non c'è un senso. Mai.
lunedì 7 novembre 2022
NEL PAESE DI GIACOMINO
Un
piccolo mondo fuori dal mondo, dove anche il silenzio parla di un ragazzo che
giocava nel campo della parrocchia e finì col diventare la bandiera del Bologna
di Marco Tarozzi
PORTONOVO DI MEDICINA
“Mi
piace la campagna, in fondo ci sono nato. Se studiassi agraria, potrei fare il
contadino con basi scientifiche, moderne. A Portonovo ci sono le zanzare, a
Bologna c’è la nebbia e molto freddo. Eppure non c’è altra campagna al di fuori
di Portonovo dove io vorrei stare, e non c’è altra città oltre a Bologna dove
vorrei andare”.
Benvenuti a Portonovo, quindici chilometri da Medicina, un punto smarrito nella
Bassa dove è nato l’ultimo gigante rossoblù. Ieri avrebbe festeggiato le
ottantadue primavere, Giacomo Bulgarelli, se non se ne fosse andato troppo
presto. Ma se venite qui, a camminare in un pomeriggio d’ottobre dentro una
storia di paese e di margine, troverete mille dettagli che parlano ancora di
lui. Magari, proprio come Giacomino da bimbo, avrete la fortuna di vedere un “saiano”.
Dicono che non esista, un animale così; ma se lui lo ha incrociato, non può che
essere stato in questa campagna.
MONDO PICCOLO. Portonovo
ha un cuore antico. Fu fondata nel 1334, quando fu costruito il “Canale di
Trecenta”, il tratto navigabile di Buda che portava le merci verso Ferrara e
Modena. Un porto nuovo, appunto: per questo la strada che arriva dentro al
paese è una sottile linea grigia: dalla San Vitale quattro chilometri dritti
verso Buda, una curva ad angolo retto verso destra, mezzo chilometro e di nuovo
giù, altri cinque in linea retta, che si perdono nel nulla. “E’ impossibile non trovare la piazza con il
bar-trattoria”, dice sorridendo Romina Gurioli, presidente
dell’associazione Pro Portonovi’s. “Prima
che la strada faccia una leggera deviazione a sinistra e poi prosegua verso il
Sillaro, ci sbatti contro”. La grande casa dove sorge il bar, con la
trattoria ancora a pieno regime, è quella in cui è nato Giacomo. L’esercizio
era gestito da suo zio, a fianco c’era il negozio di alimentari di papà
Leandro, nell’edificio accanto la latteria della zia. Un mondo piccolo,
guareschiano, da cui Giacomo partì appena dodicenne per andare a frequentare il
collegio San Luigi a Bologna. Senza mai perdere il legame con le radici. Questo
era davvero il porto nascosto, per lui. La pace e il silenzio in cui immergersi
dopo le mille sfide del calcio.
LA TERRA BUONA.
C’è un altro dettaglio che rende unico il paese. I terreni facevano parte della
Partecipanza di Medicina, ma dopo il dissesto economico del 1892 divennero
proprietà di un certo cavalier Benelli, che poi li cedette alla famiglia Tamba.
Nel 1933 arrivarono le assicurazioni Generali di Trieste e acquistarono tutto:
terreni, case antiche e nuove, in un certo senso anche chi ci viveva dentro,
perché la mano d’opera per i lavori nelle immense proprietà veniva scelta sul
posto. Un ambiente di operai.. della terra, in cui la famiglia Bulgarelli
spiccava per quello status di borghesia che può permettere una attività
commerciale ben avviata. Insomma, la famiglia “stava bene”, come si diceva
allora. E Giacomo era uno studente modello, anche se dovette frequentare due
volte la quinta elementare: non perché fosse stato bocciato, ma perché andare
alle medie a Medicina era complicato e ci volle il tempo per organizzargli il
trasferimento al San Luigi. Due anni dopo la sua partenza, tutto il nucleo
familiare prese la strada di Bologna. Compresa Olga, la “dada” di Giacomino,
grande maestra di cucina tradizionale, regina del tortellone, della tagliatella
al ragù di cipolla e del “friggione”, che da queste parti è ancora oggi un
piacere del gusto di cui è difficile privarsi.
MILANISTI MAI. “Giacomo fin da bambino ci sapeva fare, col
pallone”, ricorda Secondo Selva, classe 1936, per quasi vent’anni
presidente della società di calcio di Portonovo, nel cui ambiente gravita
ancora, dopo mezzo secolo. “Qui si usciva da scuola e si andava a
giocare nel campetto dietro la chiesa, per interi pomeriggi. Poi lui finì nella
squadra dei giovani, che qui avevamo ribattezzato “O la va o la spacca”. Beh, a
lui è andata alla grande, niente da dire. Io negli anni ho coltivato una fede milanista:
sa com’è, Giacomo non era ancora il Bulgarelli amato da tutti, e Rivera dettava
legge. Lui non me l’ha perdonata, anche se poi ci è andato vicino, al Milan:
ogni volta che tornava, scherzando, diceva “mè i milanèsta an’ i salùt brisa”,
e ridevamo come matti”.
TESSERATO.
Qui tutto è a due passi. Lo stadio, indicato così anche da un cartello
stradale, è a duecento metri dalla piazza principale, che naturalmente è stata
intestata al campione. Inaugurato nel 1976, ci gioca il Portonovo, oggi
presieduto da Giuseppe Astorino, da sempre nella categoria Amatori. “Gli ho passato il testimone tre anni fa”,
continua Selva, “dopo che io lo avevo
ricevuto da Veliano Brusa, sessanta anni di amore per il nostro calcio. Non
tutti lo sanno, ma a fine carriera Giacomo è stato tesserato per il Portonovo
per almeno tre stagioni. E non solo lui: portò anche Giuseppe Vavassori, il
portiere del Bologna anni Settanta, che però qui non voleva stare tra i pali e
diventò centrocampista”. Su questo campo, Bulgarelli portava anche gli
amici delle amichevoli domenicali: Giorgio Comaschi, Fio Zanotti, Andrea
Mingardi, Jimmy Villotti, e poi Colomba, Pecci, Massimelli. Erano i giorni in
cui Portonovo, la piccola Portonovo, si sentiva al centro del mondo.
VICINO E LONTANO. Per
dire, in quel cinema che è un gioiellino, costruito proprio nel 1933 dopo
l’acquisto delle Generali, in una sera di ottobre del 1976 Sandro Ciotti venne
a presentare in prima assoluta “Il profeta del gol”, il film su Johann Cruijff
di cui era regista. Lo portò Bulgarelli, naturalmente, e con lui Pesaola, tanti
giocatori e tanti giornalisti. Finì tutto con la leggendaria “Rustida a
Newport”, con Ciotti virtuoso della fisarmonica, chili di pesce sulla griglia e
fiumi di buon vino della campagna.
Perché Portonovo è esattamente come la descrive Romina Gurioli: “Un posto al centro del mondo dove c’era
tutto, il pallone, la scuola, il cinema, i negozi. Eppure, anche un posto
lontano da tutto”. Per questo, forse, Giacomino non riusciva a stare
lontano da qui.