sabato 30 maggio 2020

ANNIVERSARIO



30 maggio 1975.

Quarantacinque anni, oggi. Io iniziavo a correre, tu volavi via. Incominciai a leggere di te. Poi a cercare notizie su di te. Poi a ispirarmi a te, in qualche modo. Poi a scrivere di te.

Non lo so se ho sprecato il Dono. Ma so che sei ancora qui.
Grazie di tutto, Pre.


venerdì 22 maggio 2020

FATTI DI GENTE PERBENE



Quando se ne va qualcuno, di solito si abbonda in elegìe, e tutti, davvero tutti, di fronte all’ultimo viaggio vengono dipinti come “brave persone”.
Nel caso di Gigi Simoni, che se ne è andato oggi, a 81 anni, all’ospedale di Pisa, il concetto di “brava persona” è quasi riduttivo.
Gigi Simoni era nato a Crevalcore il 12 gennaio 1939.
E’ stato un uomo di calcio. Un buon giocatore di Serie A, poi un grande allenatore, più vincente di quanto non si ricordi.
Ma soprattutto, Gigi Simoni è stato una persona davvero unica. Umanamente, prima ancora che sportivamente.
Uno con cui ogni intervista si trasformava in una chiacchierata, uno che non ti negava mai un po’ del suo tempo, uno che alla fine ti diceva anche grazie, mentre il più delle volte avremmo dovuto ringraziarlo noi.
Ha affrontato la fatica più straziante per un padre, la morte di un figlio, con dignità e riserbo. Offrendo anche in quel frangente una parola a chi, per mestiere, doveva pur chiedergliela, mentre lui continuava a cercare una risposta a qualcosa di inspiegabile.
La sua carriera nel mondo del calcio è stata lunga e piena di momenti da incorniciare.
Da giocatore ha indossato le maglie di Mantova, Napoli, Torino (con l’altro Gigi, Meroni, entrambi voluti da Nereo Rocco nel 1964), e poi Juventus, Brescia e Genoa. Col Napoli ha vinto la Coppa Italia nel '62.
Da tecnico ha guidato diciassette club diversi in una carriera trentennale, con l'amarezza di non essere riuscito a strappare alla Juve uno scudetto pieno di polemiche (stagione 1997-98, quella del contatto in area tra Iuliano e Ronaldo non sanzionato col rigore). Nel '98, però, Gigi conquistò la Coppa Uefa in nerazzurro, e gli fu conferita la Panchina d'oro, miglior tecnico italiano della stagione.
L'ascesa della Cremonese nel calcio di alto livello in Serie A fu uno dei suoi capolavori, e infatti a Cremona lo hanno eletto “allenatore del secolo”, in occasione del centenario della società. Mentre il Genoa lo ha inserito nella propria Hall of Fame.
E’ il recordman di promozioni dalla Serie B alla A: ben 7 (più una dalla C alla B, come direttore tecnico).
Un lungo cammino, spesso vincente, affrontato senza mai alzare la voce, senza polemiche. Soprattutto in quel ’98 avrebbe avuto ragione di farne, ma si è sempre limitato a dire che quell’azione e quel fallo non sanzionato non era più riuscito a rivederli per anni, cancellandoli dal video e dalla memoria.
Il 22 maggio di dieci anni fa l’Inter completò la cavalcata trionfale che le regalò il Triplete. In un giorno di festa, se ne è andato un protagonista mite e discreto della sua storia.
Un signore, Gigi Simoni da Crevalcore.
Chi sogna un calcio migliore e pulito, dovrebbe avere un pensiero per lui.
E Gigi, non ti rammaricare troppo per quello scudetto portato via. E’ alle persone perbene che, ogni tanto, i prepotenti si divertono a togliere qualcosa. Ma i prepotenti hanno già perso in partenza, se non altro quella dignità che tu ti sei tenuto stretta fino all’ultimo.


venerdì 15 maggio 2020

L'AMERICA, SECONDO "STUZIGA"


Renato Gardini, campione della lotta greco-romana con i colori della Virtus, poco più di un secolo fa scelse l’America per diventare un wrestler da leggenda

di Marco Tarozzi

Avete presente il wrestling, strano passatempo a metà strada tra il gioco e lo sport vero, che tra colpi ad effetto ricostruiti ad arte e gesti di atletismo puro ha fatto impazzire gli americani, fino a sbarcare anche da noi, attraverso la televisione? Ecco, allora sappiate che dentro tanta finzione, dietro a cadute e voli da stuntmen, dietro anche a qualche pagliacciata montata ad arte a beneficio del pubblico pagante, ci sono stati e ci sono atleti veri, magari arrivati dritti da altre discipline. E se sfogliate le pagine di “Legends of Pro Wrestling”, che racconta un secolo e mezzo di questa forma di spettacolo, prima ancora che disciplina sportiva, e dei suoi eroi, molto prima di arrivare al capitolo su John Cena potete imbattervi nella storia di un ragazzone di Bologna che dall’altra parte dell’oceano ha fatto fortuna. Si chiamava Renato Gardini, e se qualcuno avesse dubbi possiamo assicurarvi che era un atleta con la A maiuscola.


EMULO DI “STIANCON” – Nato nel marzo del 1889, Renato cresce nel mito dei colossi che si esibiscono alla Montagnola tra fine Ottocento e il primo decennio del ventesimo secolo. Nel parco è allestita una specie di grande palestra in legno, alla fine dei conti un baraccone provvisorio, dove si svolgono allenamenti ed esibizioni dei migliori “pugilatori” bolognesi, guidati dal ligure Piero Boine, pioniere dell’arte della boxe in Italia. Accanto a loro, spopolano ginnasti, pesisti e lottatori, nomi amati dai bolognesi come “Stiancòn”, al secolo Riccardo Giovannini, o Achille Montagna (omen nomen). Cresce lì, il ragazzo. Famiglia di umili origini, passione per la lotta che aumenta giorno dopo giorno all’ombra di quei giganti leggendari. “Essere Montagna”, a Bologna, non è un riferimento alle catene alpine, ma a un campione in carne ed ossa.
Renato, dunque, coltiva la sua passione mostrando sul petto, con orgoglio, il simbolo di una società destinata a diventare leggendaria. Ha fatto sue le quattro parole che illustrano, meglio di mille discorsi, il sentimento di chi sta crescendo in quel tempo a casa Virtus: Forte, Franco, Fiero, Fermo. E dagli anni Dieci del secolo scorso, si comincia a fare i conti anche con lui.





RE DI COPPA – Nel 1911, il nome di Renato Gardini finisce sui titoli di tutti i giornali. La Coppa Reale di Pentathlon in quel periodo è diventata la gara di atletica più importante in Italia. Nel programma ci sono corsa veloce, lancio del disco, salto in alto, salto in lungo e lotta greco-romana. Renato trionfa raccogliendo il testimone da Angelo Pedrelli, altro talento virtussino, vincitore della manifestazione nel 1910. E nel 1912 farà il bis, lasciandosi alle spalle proprio Pedrelli. La Coppa Reale è una competizione seguitissima. “Uno scontro tra atleti completi nel vero senso del termine, atleti in grado di sostenere sforzi rilevanti in rapida successione e, necessariamente, di recuperare in breve”, la definiscono i giornali. Insomma, qualcosa di epico.


“STUZIGA” ALLE OLIMPIADI – Nel 1912, Gardini approda anche alle Olimpiadi di Stoccolma, vincendo le selezioni nazionali. La sua prestazione nella greco-romana è sfortunata. Ha la meglio, nei primi due turni, sull’austriaco Testler e sul finlandese Lind, ma poi si trova la strada sbarrata da un paio di svedesi, Nilsson e Ahlgren. Le cronache del tempo ci ricordano come il bolognese abbia dovuto lottare anche con chi, nel giudicare gli incontri, avrebbe in qualche modo tenuto conto della nazionalità degli avversari, che giocavano in casa. Insomma, fuori al quarto turno.
Renato guarda avanti. Archivia l’avventura olimpica, e nel 1913, dopo aver vinto il titolo italiano assoluto dilettanti, vince per la terza volta consecutiva la Coppa Reale, consegnandosi al mito. A Bologna lo hanno soprannominato “Stuzìga”, perché sul tappeto gli piace provocare gli avversari, facendoli deconcentrare. Ma Bologna ormai gli va stretta, così come l’Italia. Sale sul ring, provando per qualche tempo la via del pugilato, poi guarda oltre. Di là dall’oceano.






LA CONQUISTA DELL’AMERICA – Negli Stati Uniti c’è una disciplina che sta prendendo piede velocemente. Si chiama Catch as Catch Can Wrestling, uno stile di lotta popolare nata sul finire dell’Ottocento, codificata nel 1904, quando George Hackenscmidt ha conquistato il primo titolo mondiale, infine sdoganata dalle imprese di Frank Gotch. E’ lì che “Stuzìga” punta la prua del suo spirito d’avventura, e ci mette davvero poco a conquistare i palazzetti americani. Arriva a Ellis Island nel dicembre 1914, di lì a poco sta già facendosi conoscere al New York City Tournament. Entra nel circuito professionistico, gira gli States e nel 1920, a Boston, diventa campione mondiale tra i “pro”, nella categoria mediomassimi. In poco tempo è un personaggio famoso, le “Little Italy” delle grandi città se lo contendono. Una fotografia lo immortala mentre scherza con Enrico Caruso, esempi di un’Italia che ce l’ha fatta a fare fortuna dall’altra parte del mondo. Nel 1922 la sua sfida a Ed “Strangler” Lewis porta 12mila tifosi al Madison Square Garden di New York. Nel 1924, ancora un titolo mondiale, questa volta assoluto, conquistato a Filadelfia. Mentre in Italia si è accesa la stella di un altro bolognese, Bruto Testoni della Sempre Avanti, il virtussino Gardini raccoglie allori a stelle e strisce.

RITORNO A BOLOGNA - Combatterà ancora a lungo, il campione bolognese. E rivedrà la sua città a metà degli anni Trenta, esibendosi al Teatro Duse e al Teatro Verdi, durante una tournèe promozionale che lo porterà anche a Trieste, Milano, Torino e Rimini. La sua opera di proselitismo continuerà in Sud America, tra Brasile ed Argentina. E purtroppo a Buenos Aires, nel 1940, un incidente d’auto lo porterà via a soli cinquantun anni. Consegnandolo alla leggenda dello sport bolognese, e non solo.

Più Stadio, aprile 2020

giovedì 7 maggio 2020

PUGNI, SOGNI E SALUMI



Dante Canè, il campione generoso cresciuto in San Donato, che amava Cavicchi e arrivò a un soffio dal sogno europeo

di Marco Tarozzi

Aveva un cuore così, il ragazzo della salumeria. Se ne accorse subito anche il grande Cavicchi, l’eroe di quei tempi, a cui capitava spesso di incrociare i guantoni con lui in palestra, durante gli allenamenti. “S’avess me la voja ed lu què, a srev bèla campiàn dal mand”. Eh sì, Checco aveva tecnica e fisico, ma si era convinto a fare il pugile professionista perché la faccenda rendeva, e dopo ogni match poteva tornare a coltivare la sua terra a Pieve di Cento, magari con un trattore o un po’ di vacche in più. Dante Canè, invece, sul ring metteva davvero il cuore. Aveva la “tigna”, come si dice a Bologna. Era un armadio, sì, ma non certo un Apollo. Un po’ di maniglie dell’amore, per dire, anche se non certo come Bepi Ros, eterno rivale di cinque epiche sfide con in palio il titolo italiano dei massimi. E non si arrendeva mai, Dante. Quanto bastò per mettere in fila quattordici lunghi anni di professionismo, dal 1964 a Natale del 1978, due assalti al titolo europeo e cinque tra salite e risalite sul trono d’Italia: re dei massimi, tanta roba per uno che fuori dal ring affettava mortadella nella salumeria di famiglia, all’angolo tra via San Donato e via Galeotti. Il suo piccolo regno, la sua vita.

SULLE ORME DI CHECCO – Era cresciuto lì, Dante Canè. Il quartiere, il negozio, la balotta degli amici, quelli delle zingarate vere, come prendere la bici in compagnia e partire al sabato per il mare, e poi tornare la domenica sera sfiniti, dopo aver pedalato in ventiquattr’ore dall’Emilia alla Romagna, andata e ritorno. Roba d’altri tempi. E poi la palestra della Sempre Avanti, dove era entrato nel 1957, un po’ per curiosità e un po’ perché allora gli eroi del pugilato facevano breccia nel cuore degli sportivi, e tutti gli dicevano che con quel fisico lì, dai, bisognava provarci.
Ci provò, dunque, e incontrò subito Cavicchi, il suo idolo, e soprattutto il maestro Leone Blasi, che ci mise poco a capire che quel ragazzo avrebbe potuto fare una strada molto più che dignitosa. Narrava Dante che il primo con cui gli toccò incrociare i guantoni in palestra fu Minarelli, un mediomassimo molto quotato, e che quando lo mise al tappeto con un destro che sembrava un macigno, si prese un po’ paura. Non gli era mai successo, e lì per lì non si rese conto che aveva appena infilato una strada vincente.



LE SFIDE CON BEPI – Due anni dopo, il gigante di San Donato era campione italiano Novizi, titolo che poi conquistò altre tre volte. Nel 1964, quando passò al professionismo, aveva alle spalle un titolo mondiale militare, una semifinale agli Europei, 104 incontri con 94 vittorie. Prima sfida, il 18 dicembre di quell’anno nella sua Bologna, contro Dino Biato che andò giù alla seconda ripresa. La cintura tricolore dei massimi la indossò per la prima volta l’11 giugno 1969, al mitico teatro Ariston di Sanremo, battendo quel Piero Tomasoni che già lo aveva battuto due anni prima, sempre col titolo in palio, e con cui alla fine avrebbe incrociato i guantoni tre volte. Quel tricolore lo avrebbe conquistato in tutto cinque volte, l’ultima nel 1977 contro Cattani, e tra difese, sconfitte e riconquiste ci si sarebbe battuto sul ring quindici volte. Memorabili le sfide con Bepi Ros, la “roccia del Piave”, eccezionale incassatore sempre un po’ sovrappeso. Dante lo affrontava con quell’aspetto da Peppone guareschiano, il burbero buono che nella vita era un pezzo di pane e sul ring spendeva fino all’ultima goccia di sudore. Fu una sfida alla pari, nel corso di sei anni, tra il ’70 e il ’76: due vittorie a testa e un pari che, nell’occasione, fu prezioso per Dantone che mantenne il titolo.

L’AMERICA E’ QUI – Aveva anche attraversato l’oceano, Canè. Due sfide al Madison Square Garden di New York nel 1967, vittoria con Jerry Tomasetti e sconfitta con James Woody. Altre tre l’anno successivo, ancora vittoria con Tomasetti, e poi sconfitta a Toronto col più grande incassatore della storia del pugilato, George Chuvalo, che aveva resistito anche al grande Muhammad Ali e in carriera non sarebbe mai andato al tappeto. Poi, ancora New York contro Davila e il ritorno a casa, perché, diceva Dante, un ragazzo di San Donato non può poi starci così a lungo, in America.


IL SOGNO EUROPEO – Il sogno vero, del resto, era l’Europa. E ci andò davvero vicino, al titolo, il 28 febbraio 1975 davanti alla sua gente al palasport di piazza Azzarita. Diecimila persone paganti, altri tempi per la boxe. L’inglese Joe Bugner, detentore, approcciò l’impegno con sufficienza, ma Dantone gli fece capire subito che ci sarebbe stato da sudare. Più tecnico il campione, anche più scafato e “sporco”, come quando alla terza ripresa aprì una ferita al sopracciglio del nostro, e non si capì mai se era stato un destro o una testata. Più coraggioso, più appassionato Dante, che resse sanguinando altre due riprese prima che l’arbitro fermasse l’incontro proprio a causa di quella ferita, e alla fine uscì dal palazzo come il vincitore morale, portato in trionfo dai tifosi.

L’ULTIMA SFIDA – La seconda volta, ormai, era troppo tardi. Giorno di Santo Stefano, 1978. Dante Canè ormai trentottenne contro Alfredo Evangelista, ventiquattro primavere e nel pieno delle forze, che già si era battuto per il mondiale Wbc con Alì e, un mese prima, con Larry Holmes. “Ma sì, le speranze erano quelle che erano” confessò poi il nostro a Gianfranco Civolani, “ma vai a sapere che Mi fosse riuscita una culata, chi lo sa…”
Niente da fare, i sogni non sempre si avverano. E dopo quella serata nel suo palazzo, Dantone abbassò la saracinesca di una disciplina che ha amato, “perché ho visto una bella fetta di un mondo tutto pieno di luci”.
Non aveva compiuto sessant’anni quando un giorno uscì dalla sua bottega, dove ancora gli chiedevano di quei giorni felici, per prendere una boccata d’aria. Cadde sul marciapiede e i primi che arrivarono gli dissero “mo dai Dante, tirati su”. Lui non si alzò più, e ci lasciò il ricordo di un guerriero dalla faccia buona.


Più Stadio, 6 maggio 2020






martedì 5 maggio 2020

UNA CITTÀ DA GUARDARE SUL MURO



Un anno dopo, i giorni della Final Four, la trasferta bianconera, il tragitto dall’albergo al palazzo unica strada conosciuta. E l’emozione di alzare un trofeo continentale davanti a 23mila persone

di Marco Tarozzi


Primo maggio 2019. Ad Anversa fa freddo. Un freddo da tardo inverno, altro che primavera inoltrata. E la prima cosa che colpisce è vedere tutta quella gente che viaggia sulle ciclabili anche sotto certi scrosci d’acqua improvvisi. Un poncho addosso e via, pedalare controvento. E accidenti se tira, quel vento. Ad Anversa fa freddo, ma non dentro al cuore. C’è come un messaggio negli occhi di tutti quelli che sono partiti per andare incontro all’Europa. Perché di quello si tratta. Un altro pezzo di storia da assemblare a quella di un passato pieno di gloria. E un pezzo d’Europa da riconquistare, dopo tante tribolazioni. In sei stagioni alla Virtus, passate ad occuparmi di comunicazione, non ne avevo ancora sentite di vibrazioni così. Non dico più o meno forti di altre, dico proprio diverse.

UNA RINASCITA – C’era stato lo smarrimento dopo la retrocessione, che è qualcosa che colpisce forte, come una bastonata tra le spalle, e colpisce tutti. Puoi aver dato il massimo, puoi anche avere la coscienza a posto, ma il tuo lavoro si confonde e sbiadisce dentro una stagione così. C’era stato l’orgoglio della rinascita, quella cavalcata trionfale sui parquet della A2, la Coppa Italia di categoria e la promozione, roba che può anche far storcere il naso al tifoso intransigente, ma respirata da dentro aveva il profumo di qualcosa fatto alla vecchia maniera, conquistato da un gruppo di amici che si divertono insieme. Adesso c’è il freddo di Anversa. Città bellissima, dicono. Ad averla vista, si potrebbe anche avere un parere.


PACE E FUOCO - Ci sono gigantografie della città a tutta parete, ad ogni piano dell’albergo , davanti agli ascensori. Al mio, uno scorcio del centro storico. L’ho fotografato e mandato agli amici, per far vedere che i viaggi sono lavoro ma anche cultura. Di fatto, la città non l’ho praticamente vista. Giusto così, siamo qui per lavorare. E per regalarci, tutti, qualcosa di importante e irripetibile.
Ci credono in tanti, o almeno qualcuno ci ha scommesso. La troupe di RaiSport scesa nello stesso albergo. Così quella di Eurosport, con Marco Barzizza e cameraman che addirittura hanno seguito passo passo la squadra dalla partenza, per preparare uno speciale che poi potrà raccontare la Final Four con l’occhio dei vincitori. Quando le scommesse sono azzeccate, appunto.
Insomma, bisogna stare sul pezzo. E proprio qui, in questa hall durante un’intervista, Sasha Djordjevic conia la frase a effetto che diventa il mantra della spedizione. “Pace nella testa, fuoco nel cuore”. La chiave per la felicità.






LA GRANDE ARENA – Le scoperte. Marco Patuelli, responsabile operativo e mio compagno di stanza, segnala che a mezzo chilometro dall’hotel c’è un supermercato. Approfittando di una finestra di quaranta minuti tra un paio di interviste, mi fiondo a fare scorta di scatole di cioccolatini per i regali, non potendo puntare sui diamanti. C’è finalmente il sole e trovo superfluo portarmi un ombrello. Naturalmente, il solito scroscio di pioggia gelata mi accompagna sulla via del ritorno.
Per cinque giorni, il pullman messo a disposizione dall’organizzazione della Final Four (stesso autista, stesso accompagnatore che ci seguirà con mamma e papà fino ai saluti finali del lunedì mattina all’aeroporto) ci fa imparare a memoria lo stesso percorso. Dall’albergo allo Sportpaleis e ritorno. Per gli allenamenti, per le due partite, per le conferenze della vigilia.
Prima istantanea: quel palazzo incredibile, 23mila posti a sedere, che si riempie a poco a poco nella prima giornata, il 3 maggio, regalando la sensazione di essere davvero nel cuore di un evento irripetibile. E di nuovo un abbraccio ai tifosi di Bologna, tanti come chi si muove sentendo qualcosa nell’aria che non si può spiegare, bisogna soltanto esserci. E quelli di Tenerife, pochi ma coloratissimi e rumorosi. E i tedeschi, rassegnati. E quelli di Anversa: in uno sguardo, la risposta alla domanda delle domande, come mai proprio qui un palazzo che è una cattedrale dello sport? Qui, ogni volta che in cartellone c’è un evento, è “sold out”. Musica, soprattutto. Secondo Billboard, sarebbe la seconda arena più visitata al mondo dopo il Madison Square Garden. Bene, qualcosa di unico l’ho visto.


IL GRAN FINALE – Posso gettare i fogli sparsi dove avevo annotato, sai mai, tutti i posti a un’ora di macchina. Gand, la splendida Bruges, la stessa Bruxelles che sarebbe il centro di questa Europa cosiddetta unita. E Terneuzen, per vedere l’oceano già in terra olandese.  Niente, si vive qui. Fino al gran finale.
E quello resta davvero nella mente e nel cuore. La sera del 5 maggio, Punter come un anno prima gioca da MVP. la squadra gira e tiene a distanza Tenerife, Mario Chalmers sornione per tutta la partita inventa la genialata da NBA a poco più di un minuto, e chiude la partita. La Basketball Champions League è della Virtus.
Poi, i dettagli che restano negli occhi e resteranno nel tempo. Il ragazzo che arriva nello spogliatoio coi bicchieroni di plastica colmi di birra De Koninck, un biglietto da visita, altro che champagne. Baldi Rossi sulle spalle di Pajola a tagliare la retina del canestro, la squadra al centro del campo che alza il trofeo, la gioia dei tifosi. E finalmente il centro, attraversato a piedi dopo mezzanotte, e la festa nell’unica pizzeria aperta, immagini di Napoli alle pareti e la pizza più malriuscita che abbia mai assaggiato. Eppure, accidenti, anche quella sembra avere un profumo speciale.


TORNANDO A CASA – Di notte, il trolley da sistemare. Domani sarà ancora lunga, un lunedì di passione. Anversa-Milano, poi un viaggio interminabile in pullman, con l’autostrada bloccata e una mezza avventura per le strade provinciali. E a Casa Virtus la gente che aspetta per far partire la festa. Arrivo previsto alle 20, poi alle 21, poi ancora più in là. Sono le 22.30 quando si aprono i cancelli dell’Arcoveggio. La Virtus si è ripresa un po’ d’Europa. Aradori esce per primo, alzando la coppa. Sono in mille ad aspettarlo. E’ quasi notte e sembra giorno, e soprattutto non fa più freddo.

Più Stadio, 5 maggio 2020

(fotografie di Massimo Ceretti/Ciamillo-Castoria)