giovedì 14 luglio 2016

CORSA ALL'INGLESE



di Marco Tarozzi

Tutto è iniziato da quell’armadio a parete. Cioè, una via di mezzo tra un armadio e un espositore. Però enorme, altissimo e massiccio. Fatto in casa. Restando in religioso silenzio davanti a quel mobile monumentale, Veronica Inglese si è innamorata dell’atletica leggera. Dentro, tutte le coppe e i trofei vinti da papà Michele durante una carriera di forte mezzofondista, che lo portò a conquistare anche un titolo italiano di corsa su strada quando era uno junior di grandi speranze. Una specie di santuario della corsa, roba che può incantare gli occhi di una bambina.
“Da piccola mi fermavo a guardarlo, e inquadrando quelle coppe a una a una mi veniva voglia di sapere da dove venivano, quanto erano costate in fatica e sudore. Così, chiedevo a papà di raccontarmi la sua atletica. Non era lui a vantarsi del suo passato, anzi. Ero proprio io a insistere, e allora lui apriva il canale dei ricordi”.

Sì, papà Michele non ha peccato di fanatismo, non ha mai voluto che quella figlia ripercorresse a forza le sue orme. Le ha lasciato la libertà di scegliere la sua strada nello sport. Solo che lei, Veronica, aveva già deciso tutto da tempo. Davanti a quell’armadio a parete.

“Voglio correre anche io, gli dicevo. E lui schiacciava il freno. Ci ha messo tanto a convincersi che quella era davvero la mia strada, prima ha voluto che facessi altre cose, danza, nuoto, come tante ragazzine della mia età. Voleva che crescessi e ci riflettessi bene, perché non si può confondere una suggestione con una scelta. Ma io, testarda. Dopo aver corso le prime gare dei Giochi della Gioventù, la prima volta in assoluto arrivando anche piuttosto indietro, tornai da lui e gli dissi “okay, adesso voglio allenarmi”. Mi guardò e mi disse “d’accordo, corriamo un po’ insieme”. E mi portò sul lungomare della mia città, Barletta, e ad affrontare le prime strade in salita nella campagna intorno”.

L’EREDITA’ DI PIETRO

Nell’immaginario dell’atletica italiana, Barletta richiama immediatamente la leggenda. Eppure non è stato l’esempio di Pietro Mennea ad accendere la passione di Veronica. Lei ne aveva uno direttamente in casa.
“Quando ho iniziato a frequentare il campo di atletica le società erano parecchie, c’era solo l’imbarazzo della scelta. Io finii all’Atletica Barletta dove allenava Mimmo Ostuni, che era stato anche il tecnico di papà. Gli chiese di portarmi in pista dopo avermi vista alla fase regionale di cross dei Giochi, e così divenne il mio primo allenatore. Era veramente un bel periodo, il gruppo era numeroso e fare atletica era un’idea collettiva, uno stare insieme. Oggi non è più così. Non voglio fare analisi sociali, ma certamente sono rimasta legata a una generazione diversa, nonostante non sia certo “vecchia”. Una bimba di dieci anni non aveva con sé il cellulare, non c’erano i computer e internet in cui rifugiarsi, non come oggi almeno. Le distrazioni erano fare sport, giocare con gli amici, vivere il cortile”.

Non c’era più nemmeno l’ombra immensa di Pietro il velocista, su quelle corsie.
“Mennea era un buon amico di mio padre. Quando scendeva da Formia, faceva anche allenamenti di corsa lunga per allenare la resistenza, e gli chiedeva di accompagnarlo in un giro di una decina di chilometri che parte dal campo. Per lui, velocista, era un impegno notevole. Io non l’ho mai conosciuto di persona, ci ho parlato qualche volta al telefono e ho provato una certa emozione. Ora che non c’è più, viene molto ricordato. Monumenti, targhe. Barletta lo ha un po’ riscoperto, secondo me. Ma prima viveva soprattutto nei ricordi di chi aveva fatto atletica con lui, gente come papà o il professor Montenero, che raccontava aneddoti bellissimi sulla sua crescita. I concittadini erano un po’ più tiepidi. Non hanno mai tratto una vera ispirazione dal suo percorso. E quando si presentò alle elezioni per la carica di sindaco, non fu votato da tanti. Forse è davvero difficile essere profeti in patria”.


NASCITA DI UN TALENTO

Quella prima gara, vissuta dalle retrovie, sarebbe diventata presto un semplice ricordo. Già nella categoria Cadette, il nome di Veronica Inglese assunse un significato nuovo e diverso per chi sa trattare l’argomento.
“Da ragazza finivo sempre seconda o terza in regione. Al primo anno da cadetta i regionali di cross li ho vinti, finendo poi settima nella gara di campionato italiano, e d’estate quarta ai tricolori nei 2000 metri in pista. Poi, al secondo anno in categoria, ho vinto praticamente tutto: tricolori di cross, quello sui 1000 metri in pista, il Criterium sulla pista di Bisceglie, davanti alla mia gente, gli Studenteschi. Un bel passo avanti. A quindici anni ho iniziato a capire che volevo davvero continuare, per vedere dove sarei potuta arrivare. Ad avere più speranze nei confronti del mio futuro da atleta. A pensare ai titoli italiani, alla maglia azzurra, cose così, bellissime. E’ stato un cambio di mentalità: da piccola ti si aprono davanti mille porte, e vorresti attraversarle tutte. Però ho avuto anche fortuna, da ragazzina: vincere delle gare mi ha regalato soddisfazioni ed emozioni che poi mi hanno spinta ad andare avanti, a guardare più lontano con la voglia di arrivare”.

Anni intensi, formativi. Di sport e studio. E anche quelli in cui, proprio nell’ambiente dell’atletica, Veronica ha trovato un equilibrio perfetto anche negli affetti.
“Ho frequentato il liceo classico, non una passeggiata. E adesso sono iscritta al terzo anno di Giurisprudenza. Devo tanto anche a mia madre, in tutto questo. Lei non ha un passato di atleta, insegna alle elementari, ma mi ha sostenuto nelle mie scelte, proprio come papà. Io sono una ragazza, in famiglia avrebbero potuto chiedermi un altro tipo di impegno, e invece mamma mi ha sempre detto “tu pensa a studiare e allenarti, al resto penso io”. E poi, sì, nel 2008 è arrivato Eusebio. Che mi assomiglia e mi capisce”.

Eusebio Haliti, da otto anni l’altra metà di Veronica. Azzurro, specialista dei 400 ostacoli, un titolo italiano nel 2013, con la sua nuova nazionalità, lui nato in Albania da una stirpe di sportivi, papà pallavolista che ha vestito la maglia della Nazionale del suo paese, nonno campione nazionale di salto triplo, sessant’anni fa.
“Stare insieme a lui mi aiuta tantissimo. Facciamo la stessa cosa, condividiamo la passione per l’atletica e la facciamo allo stesso livello. Impegno, obiettivi, motivazioni sono le stesse. Così diventa più facile condividere, capirsi. Ora anche lui è entrato nell’Esercito, come me. Si allena spesso a Roma e abbiamo più momenti da vivere insieme”.


AD ALTA QUOTA

L’ingresso in una società militare è stato un altro step fondamentale, nella storia di questa crescita continua che ancora non ha scritto, probabilmente, i capitoli più significativi.
“Sceglierei altre mille volte di entrare nell’Esercito. Ho trovato una seconda famiglia, e tutta la tranquillità che mi occorreva. Il colonnello Martelli ci tratta come figli, e per merito del comandante Zampa la struttura di Roma è stata tempo fa oggetto di un restyling che ne ha fatto una specie di college. Qui non sei in una caserma, ma in un centro sportivo di prim’ordine”.

Quello che serve a un’atleta che ormai ha mostrato il suo valore a tutti. Che ha già in bacheca tre titoli italiani assoluti, che sono anche ricordi indelebili e stimoli per inseguire nuovi traguardi.
“Il primo è stato quello di corsa su strada nel 2013, e come era successo per il primo tricolore di categoria, anche in questo caso l’ho conquistato sulle strade di casa, a Molfetta. Con il tifo degli amici di sempre, tanto che non ho realizzato subito quello che avevo fatto. L’anno dopo sono arrivati i titoli italiani di cross e quello dei 10000 in pista, a Ferrara. Ecco, è stato proprio quest’ultimo a darmi davvero la sensazione di essere arrivata esattamente dove volevo, e di dover ripartire da quel punto, che non era un approdo ma un riferimento. Ho provato le stesse emozioni di quando ho vinto il primo titolo, a Bisceglie. E la stessa voglia di guardare avanti”.

UN SOGNO CHIAMATO RIO
E fissando l’orizzonte, Veronica vede chiaro un traguardo davanti a sé. Si chiama Rio de Janeiro. E’ una rincorsa, in effetti, perché non sono mancati gli imprevisti lungo la strada. Ma l’importante è non sentirsi soli, mai.
“Non ho mai pensato all’atletica come un gioco, nemmeno da bambina. Alle Olimpiadi penso da sempre, e ancora più nitidamente da quando ho corso i 10000 metri in 32.25 e la mezza maratona in 1.10.57, due anni fa. Ovviamente ci sono tanti fattori da considerare, compresa la fortuna che deve assisterti. Ma sono stata messa nelle migliori condizioni dalla Federazione, dalla mia società e dalla famiglia. Per me l’atletica vera è iniziata adesso, con una programmazione a lungo termine che punta alla gara dei 10000 di Rio e poi, naturalmente, alla maratona. Nel 2020 avrò trent’anni, un’età perfetta per esprimersi su quella distanza. Mi sento addosso una grande responsabilità, ma per carattere sono una che si esprime meglio quando è responsabilizzata. Non mi esalto mai, ma nemmeno faccio pesare ad altri le mie scelte. Prendo sempre il lato positivo delle cose. La passione per l’atletica leggera fa il resto”.
Merito di papà e di quell’armadio, vale la pena ricordarlo.
“Mettiamoci anche mio nonno. Quel mobile, bellissimo, lo costruì lui. Fatto a mano per metterci tutte quelle medaglie e coppe. Che si vedessero bene. E io le ho viste subito, e ci ho costruito sopra una passione”.
Runner's World, aprile 2016