domenica 19 aprile 2020

POKER, SIGARETTE E UN CALCIO DIMENTICATO



di Marco Tarozzi

“Una volta sono andato a letto presto. Mi sono svegliato nel cuore della notte e non ho più chiuso occhio”. Per questo preferiva tirar mattina Bruno Pesaola, il “petiso” da quando ragazzino tirava i primi calci ad Avellaneda, quartiere di Baires in cui era cresciuto da italiano d’Argentina, figlio di Gaetano, calzolaio arrivato a cercar fortuna da Montelupone, provincia di Macerata. E poi “petiso” per sempre, anzi “Petisso” qui in Italia, con una “s” regalata chissà perché. Fino agli ultimi anni passati a guardare, incantato come la prima volta, il golfo di Napoli tra il fumo di mille sigarette.
Pesaola. Un altro di quei pezzi di storia del calcio che se ne sono andati in questo complicato 2015. Ai margini di un mondo che non sarebbe stato più il suo, tanto è cambiato. E un pezzo di storia rossoblù, anche. Perché se è vero che questo piccolo grande uomo che trattava le cose di pallone con saggezza e disincanto ha scritto le sue più belle pagine a Napoli, diventata la sua città, e a Firenze, dove ha vinto uno scudetto storico, non vanno dimenticate quelle quattro stagioni al timone del Bologna, tra il 1972 e il 1976, che fruttarono la Coppa Italia del ’74, vinta ai rigori in fondo a una finale dai toni rocamboleschi contro il Palermo, e due anni dopo un’altra avventura rossoblù, meno di un anno diviso in due campionati, che fruttò una salvezza ed un esonero.
Pesaola era l’uomo della notte perché, diceva, “la notte è bella e porta idee. Le persone più interessanti escono dalla sua oscurità”. E lo diceva fumandoci su un’altra sigaretta, di quelle belle toste che, messe tutte insieme, gli hanno chiesto il conto negli ultimi anni di una vita accesa, brillante, intensa. Che poi, in fondo, ci si farebbe la firma a vivere quasi novant’anni così, con quell’ironia e quella generosa leggerezza.

EMIGRANTE DI RITORNO – Arriva in Italia a ventidue anni, dopo essere stato coltivato tra i ragazzini del River Plate da quel fantastico pazzo di Renato Cesarini, nativo di Senigallia, marchigiano come il padre, ed essersi svezzato al Dock Sud di Avellaneda. Un metro e seessantacinque: “petiso”, appunto. Piccoletto. Ma adocchiato presto dagli emissari del calcio italiano. Approda alla Roma: 120mila lire al mese, nido a Trastevere e la dolce vita a portata di mano, come amici i grandi artisti dell’epoca, da Rascel a Tognazzi a Tata Giacobetti del Quartetto Cetra “che voleva farmi sposare sua sorella…”. Walter Chiari gli fa fare una comparsata nel film “L’inafferrabile 12”, basato sui sogni e le speranze affidate al Totocalcio. Altro mondo, rispetto alla povera e dignitosa semplicità della periferia di Buenos Aires. Ma in campo la ruota si inchioda: primi due anni da protagonista, ma poi squadra in difficoltà, pubblico insoddisfatto, infortunii a catena. Bruno ha carattere, non vorrebbe andarsene lasciando il lavoro a metà. Ma alla fine sta per mollare: ha praticamente la valigia sul letto quando arriva un telegramma da Silvio Piola. “Vieni a Novara, qui rinascerai”. Alla fine va, e da quella scelta riparte la sua carriera italiana. Non tornerà mai più in Argentina.

VISTA MARE – A Novara i suoi cross rinverdiscono Piola, che a trentanove anni riconquista anche la Nazionale, e conosce Ornella, una ragazza splendida che gli resterà accanto finché un destino cattivo non la porterà via, nel 1986. E’ lei, quando Bruno si ritrova sul tavolo due offerte importanti, quelle di Napoli e Milan, a indicargli la strada. “Andiamo a Napoli”. Quando Pesaola ci arriva, in panchina c’è Monzeglio, grande ex rossoblù. “Un signore. Diceva: tu giochi terzino, tu mediano, tu marchi, tu fai il cross. E quella era la tattica”. Da lì, una storia lunga 240 partite, quasi tutte al vecchio Vomero e le ultime nove  nel nuovissimo San Paolo, inaugurato nel 1959. Più avanti, altre 291 partite viste dalla panchina, a partire da quella stagione ’61-’62 in cui, giovane tecnico della Scafatese in quarta serie, riceverà la chiamata del Comandante Lauro e si sentirà “liberare” dal suo presidente con quattro semplici parole: “Segua il suo cuore”.
Quel cuore lo ispirerà a riportare il Napoli in Serie A, non prima di aver vinto una Coppa Italia da squadra “cadetta” nel ’62, poi a guidarlo al primo trofeo internazionale, la Coppa delle Alpi del ’66, e al secondo posto in campionato del ’68, all’epoca miglior risultato nella storia della società.
Sarà Carlo Montanari, grande uomo di calcio, a portarlo alla Fiorentina strappandolo a Boniperti che lo voleva alla Juventus, nel 1968. Prende per mano una squadra giovane e ne intuisce il potenziale. Misura il talento di Amarildo, il fosforo di De Sisti, il genio di Merlo, la rocciosa sicurezza di Ferrante e Brizi, e lancia il suo vaticinio davanti a dirigenti e tifosi increduli: “Se questa squadra non vince lo scudetto, mi faccio frate. Trappista. Sono quelli che fanno più penitenze”.


I POKER COL PRESIDENTE – C’è sempre Carlo Montanari, agli incroci di questa storia. Tra grandi uomini di calcio ci si intende. Lui aveva chiamato Pesaola a Firenze, lui lo chiama a Bologna quando l’avventura in viola si è chiusa da un anno. Qui il presidente è Luciano Conti, un altro che ama fare tardi la notte davanti a un mazzo di carte. L’amore sboccia, inesorabile. I due, e il terzo è Montanari, fanno l’alba parlando di calcio e di poker, e girerà poi la voce che buona parte dell’ingaggio il “Petisso” lo renda al suo datore di lavoro durante quelle maratone notturne. Pesaola è furbo, sornione, talvolta appare indolente ma capisce di calcio come pochi, tatticamente è avanti e spesso imprevedibile, come lo era stato nell’anno magico a Firenze, mescolando forza e talento. Qui funziona meno, ma neppure così male. Il suo Bologna finisce tre volte settimo, e nell’anno in cui scende al nono posto vince la famosa Coppa Italia “recuperata” al novantesimo da Bulgarelli, che si guadagna un rigore lasciando basito persino Arcoleo, il colpevole designato, e infine vinta ai rigori dopo una giornata d’inferno, vissuta in balìa di una squadra di B, e chiusa in trionfo. Quattro anni degni di quel Bologna, né più né meno. Ma i tifosi hanno ancora negli occhi l’altro Bologna, quello dello scudetto (succede anche oggi, mezzo secolo dopo) e Pesaola lo digeriscono con sufficienza. Verrà, poi, il tempo di rimpiangerlo.

IL CAPPOTTO DI CAMMELLO – Col tempo, tutto si scolora. Di Bruno Pesaola restano certe uscite memorabili, che testimoniano la sua acuta visione delle cose e la capacità di sdrammatizzare. “Una volta trotterellavo in mezzo al campo con poca spinta”, ricorda Eraldo Pecci, “e Pesaola mi incitò a dare di più. Mister, gli dissi, lo sa che io sono un estroso… E lui di rimando: veramente a me pare che lei sia un estronso…”
Memorabile la spiegazione ad una strategia di gioco ribaltata durante una trasferta a Bergamo: “Mister, aveva detto che avreste giocato da subito all’attacco e invece vi siete chiusi in difesa ed è finita 0-0…” “Per forza, quelli dell’Atalanta ci hanno rubato l’idea..”

E memorabile quel cappotto di cammello che lo avvolgeva in panchina, molto prima che Alain Delon ne facesse un oggetto di culto nel film “La prima notte di quiete”.

QUEI MILLE GOL… - Figlio di un altro calcio, Bruno Pesaola. In cui nascevano legami intensi e duraturi tra addetti ai lavori, giornalisti, tifosi, e in cui uno con la sua intelligenza non poteva che svettare. Con le sue vanterie divertite, anche. “Parlate una buona volta dei miei mille gol. Non solo di quelli di Pelè. Quali sono? Ne feci uno all’Inter, a San Siro, così bello che lo misero nella sigla della Domenica Sportiva. A forza di vederlo, sono diventati mille…”
Spenti i riflettori, nessun rimpianto. La casa all’ultimo piano in via Caravaggio, a Napoli, la terrazza con vista mare, ma quello di Pozzuoli, sbirciando Fuorigrotta come un vecchio ricordo. Fino all’ultima sigaretta. E’ rimasto, da qualche parte, un cappotto di cammello. E qui a Bologna, più che un ricordo, il rimpianto di non aver apprezzato tutta quella umanità.



Bologna Rossoblù, Giugno 2015

giovedì 16 aprile 2020

WEISZ, QUELLA CASA IN VIA VALERIANI



Il 16 aprile 1896 nasceva quello che insieme a Hermann Felsner va considerato il più grande allenatore del Bologna FC 1909, ARPAD WEISZ, che la follia del nazismo fece passare dai camini di Auschwitz. Lo ricordiamo insieme.


di Marco Tarozzi

È come se all’improvviso gente come Fabio Capello o Marcello Lippi non desse più notizia di sè, e nessuno si prendesse la briga di andare a cercarla. Fantascienza, certo. Eppure con Arpad Weisz è andata esattamente così. E dietro questa sparizione c’è stata una tragedia. Quella di un uomo, di una famiglia, di un intero popolo. Durante, e dopo, il mondo fuori rimosse. E rimosse Bologna, che quasi settant’anni più tardi, finalmente, ha dedicato a questo grande maestro del calcio una targa nel luogo in cui costruì la sua gloria e quella rossoblù. Sul muro dello stadio Dall’Ara, da cui fu allontanato quando le leggi razziali misero al bando gli ebrei. Era il più grande, quando se ne andò. Da tecnico del Bologna aveva vinto, un anno prima, il Torneo dell’Esposizione di Parigi, all’epoca il massimo alloro del calcio europeo. E due scudetti. Anzi, due e mezzo: perché nella stagione ‘38/39 Felsner, tornato sulla panchina del Bologna dopo che Weisz aveva dovuto lasciare l’Italia perché l’aria per gli ebrei si era fatta irrespirabile, portò a compimento un’opera iniziata dal predecessore. È il più grande ancora oggi, nella storia rossoblù, insieme allo stesso Felsner e a Bernardini. Ma solo da poco la sua storia torna a galla. Nei dettagli. Grazie a un libro, e a un autore, Matteo Marani, attento e sensibile, al punto da rispolverarla dagli archivi.

Arpad Weisz era un genio della panchina. Innovatore fino quasi ad essere rivoluzionario, per l’epoca. Era nato per allenare, e lo capì quando ancora stava in mezzo al campo, ala sinistra della Nazionale ungherese, simbolo di un calcio che faceva scuola. Era un grande del calcio, ma finì la sua vita dimenticato o, peggio ancora, cancellato dal ricordo. Era ebreo e questo, per le aberranti ideologie dell’epoca, fu la sua colpa e la causa della sua tragedia personale. Si chiamava Weisz, e quella W diventò subito V in un’Italia autarchica che aborriva tutto ciò che aveva un vago sentore di diversità, di esterofilia. Ma in fondo un cognome “aggiustato” sembrava ancora un problema risolvibile, nei primi anni del ventennio. Soprattutto per un giovane già segnato dagli eventi, carattere di ferro e obiettivi ben precisi in testa.





Nato a Solt, in Ungheria, nel 1896 (prime incertezze: per alcune fonti l’anno di nascita è il 1891), Weisz era stato prigioniero di guerra in Italia, e ci tornò da giocatore di calcio. Sei presenze in Nazionale, una delle quali in amichevole contro gli azzurri nel ’23, giocò in patria nel Torekves e nel Makkabi Brno, da noi nell’Alessandria e per una stagione (’25-26) nell’Inter dove segnò tre reti in undici partite. Cominciò a scoprirsi allenatore proprio ad Alessandria, da “secondo” di Rangone, e la consacrazione arrivò in casa nerazzurra. All’Inter, Weisz si trovò tra le mani un centromediano di classe infinita, Fulvio Bernardini, e lanciò in prima squadra un ragazzino destinato a fare storia, Giuseppe Meazza. Nel novembre del ’27 un brutto colpo del destino gli ispirò una grande mossa tattica: Luigi Allemandi, terzino azzurro appena arrivato a rinforzare la difesa nerazzurra, fu squalificato a vita per illecito sportivo, e il tecnico ungherese mise mano alla formazione “inventandosi” la famosa «linea dei cinque terzini», ovvero arretrando le due mezze ali e incastrandole nella seconda linea, col doppio compito di arginare e lanciare gli attaccanti. In Inghilterra Herbert Chapman, tecnico dell’Arsenal, inventava in quegli anni il Sistema. Weisz ne anticipò il concetto in un calcio italiano ancora lontano anni luce dalle innovazioni d’Oltremanica. Più che una novità, la sua fu una mezza rivoluzione che portò all'Inter lo scudetto del 1929-30 e due secondi posti. In mezzo, una salvezza-miracolo col Bari nel ’31-32.

Nella stagione ’34-35 aveva accettato la panchina del Novara in Serie B, ma il Bologna lo chiamò dopo quindici giornate a sostituire il connazionale Lajos Kovacs. Weisz chiuse quella stagione al sesto posto, poi mise mano alla squadra e costruì quello che probabilmente è stato il Bologna più forte di tutti i tempi.
Nel ’35-36 vinse il suo primo scudetto alla guida dei rossoblù, l’anno dopo fece il bis con una squadra rinforzata dall’arrivo degli uruguaiani, Andreolo su tutti, e dalla scommessa Dino Fiorini, difensore lanciato nell’undici titolare. Fu lui a trasformare Amedeo Biavati, a vent’anni ancora mezz’ala e riserva di Sansone, nella più forte ala destra italiana. E fu anche il primo a scegliere la via del preparatore atletico, facendo arrivare dal River Plate l’argentino Pascucci. Il suo Bologna fece davvero tremare il mondo: dopo i due scudetti consecutivi andò a dominare il Torneo dell’Esposizione di Parigi del ’37, vero e proprio Mondiale per club, schiantando il Sochaux in semifinale e il Chelsea (i “maestri” d’Albione) in finale.





Era un uomo tranquillo, Arpad Weisz. Uno che faceva filare d’amore e d’accordo stelle come Schiavio, Gasperi, Andreolo, Sansone, Reguzzoni, Gianni, Biavati, con la finezza dello psicologo. Se uno sgarrava, invece di urlargli in faccia lo invitava a cena a casa sua e davanti alla tavola imbandita lo catechizzava con tranquillità. Un uomo colto e sensibile. Che una sera di fine ottobre del 1938, mentre il suo Bologna veleggiava ad alta quota in campionato, andò a salutare in lacrime il presidente Dall’Ara. Le leggi razziali erano alle porte, l’Italia non era più un porto sicuro per gli ebrei. Weisz fuggì a Parigi, passò dall’Olanda, dove prese in mano la squadra del Dordrecht portandola, naturalmente, in breve tempo ad alta quota.

L’Olanda sembrava il porto sicuro, e invece i tedeschi arrivarono anche lì. E anche lì lo perseguitarono. Gli tolsero la squadra, la dignità, la voglia di lottare. Lo costrinsero a cercare ancora riparo, stavolta a Budapest. Nella sua Ungheria fu catturato dai nazisti e deportato ad Auschwitz con la famiglia. Non vide più la moglie e i due figli. La loro fine sta scritta sullo Yad Vashem, immenso archivio dove si cerca di ricostruire l’identità di tutte le vittime dell’olocausto. Elena, Roberto e Clara se ne andarono il 5 ottobre del ’42. Arpad il 31 gennaio del ’44. Non un addio, non una riga su un giornale, non una voce nella città che lui aveva portato alla gloria sportiva. Bologna dimenticò in fretta, mentre Weisz cadeva vittima del delirio nazista. Bologna oggi lo ricorda. Non è mai troppo tardi.

(da "100 Storie per 100 anni", Minerva Edizioni)

martedì 14 aprile 2020

ERALDO, MOLTO PIU' CHE ESTROSO...



I 65 anni di un campione che è una miniera di aneddoti, e che su talento e arguzia ha costruito anche la vita dopo il calcio

di Marco Tarozzi

A Bologna era arrivato dal Superga 63, società di Cattolica, e pensandoci dopo diventa facile dire che probabilmente era un predestinato, e che il suo approdo dovesse essere il Torino. Invece non filò tutto così liscio. Perché Eraldo Pecci, che poi del Toro e della sua gente si sarebbe innamorato, considerava il Bologna come il porto del cuore, e mai e poi mai se ne sarebbe andato da qui ad appena vent’anni. Soprattutto dopo una stagione in cui aveva dimostrato di poter stare comodamente nel magico mondo della Serie A.
Invece andò esattamente così nell’estate del 1975, calda per il mercato rossoblù più per i clamorosi movimenti in uscita che per gli arrivi. Aveva iniziato dando speranza ai tifosi, il presidente Conti. Pescando, per esempio, il miglior prospetto d’attacco della Serie B, Ezio Bertuzzo. Ma mentre si cominciava a ragionare su quello che la coppia Savoldi-Bertuzzo avrebbe potuto produrre, ecco la mazzata: addio a Beppegol, destinato al Napoli in cerca del bomber di razza per dare l’assalto allo scudetto, e addio anche al giovane Eraldo, che dopo una stagione da 24 presenze, quasi tutte convincenti, aveva destato l’interesse del Torino.



IL TORO PER LE CORNA - Il fatto è che nessuno si era preso la briga di avvisare il ragazzo, tornato da una trasferta in Canada con la Nazionale militare. E la notizia del trasferimento arrivò in modo decisamente originale, per usare un eufemismo. Lui, che con le parole sa giocare molto bene, l’ha raccontata così.
“Torno a casa e mi precipito direttamente a Viserba, dove la mia fidanzata dell’epoca era in vacanza con la famiglia. Punto dritto al Pussycat, dove sapevo che era andata a passare la serata con un’amica. Parcheggio la mia 125 testa di moro e mentre mi incammino a piedi verso la sala da una finestra sento gracchiare un televisore. C’è il notiziario sportivo. Mi arriva, secca, la notizia: “il Bologna ha ceduto Savoldi al Napoli per la cifra record di due miliardi. Pecci va al Torino, Ghetti e Landini all’Ascoli”. Nessuno mi aveva cercato per avvertirmi. Arrivo alla discoteca, entro e vedo la mia ragazza insieme alla sua amica. Ma c’è anche un amico. Più di un amico, visto quanto erano in confidenza. Lei mi vede e mi fa: "Sei tornato?” “Sì, volevo farti una sorpresa”. “Proprio stasera?”. Esco dal locale, penso che è proprio una vita cambiata, senza fidanzata e in una nuova squadra. Mentre parto con la mia 125, rifletto: al Toro saranno orgogliosi, sono dei loro da poche ore e ho già le corna…”






FACCIA DI TOLLA - Era questo, Eraldo Pecci. E il bello è che non è cambiato di una virgola. Sempre ragazzino dentro, sempre con addosso il gusto della battuta, del colpo a sorpresa. E guai a pensare che da giovane il timore reverenziale lo frenasse. Chiedere a chi fu testimone di uno dei primi incontri con Bulgarelli. Da una parte un diciassettenne di talento appena arrivato da una società di Cattolica, dall’altra uno dei più grandi campioni del calcio italiano, che tra l’altro di Bologna era l’imperatore.
Bulgaro steso sul lettino del massaggiatore, e a quest’ultimo il ragazzo si rivolse con una bella faccia di tolla: “Vacci piano con quello, è vecchio e potrebbe rompersi… nel caso, ci sono qui io”. Dicono che l’Onorevole Giacomino non l’avesse presa benissimo, ma poi i due ci misero un attimo a diventare amici.



LA FILOSOFIA DEL PETISSO - Normale trovare l’armonia, tra uomini di grande spessore umano e culturale. Di più: fu Giacomino, in fondo a una carriera sapientemente allungata sposando il ruolo di libero, a vedere in Pecci le caratteristiche dell’erede designato. Ma, appunto, l’estate movimentata del presidente Conti avrebbe tolto ai bolognesi la soddisfazione di veder crescere in rossoblù un nuovo campione che al Bologna voleva e vuole sempre bene.
“Non ero contento di andarmene a Torino. Ormai avevo fatto amicizia con tutti, per me che venivo dalla Romagna giocare nel Bologna era la soluzione perfetta, mi piaceva la squadra, la sua storia, la gente. E mi piaceva Bruno Pesaola. Che personaggio, il Petisso. Ogni tanto, quando mi richiamava in campo, gli dicevo: mister, lei deve capirmi, io sono un estroso. Lui non faceva una piega e ribatteva: “Pecci, lei non è un estroso, è un estronso”… Un giorno dovevamo giocare contro l’Inter, e lui mi mise a marcare Mario Corso, spiegandomela così: “Lei gli sta attaccato, così se lui non tocca mai palla e nemmeno lei, ci guadagniamo tutti. Soprattutto ci guadagniamo noi”.





TORNANDO A CASA – A Torino l’Eraldo vinse subito uno storico scudetto, e ne sfiorò un altro con la Fiorentina nel 1981-82, prima di passare al Napoli di Maradona. Per poi tornare al Bologna a trentun’anni, nell’86, per riportarlo ai piani alti del calcio. Chioccia di un gruppo nel quale si muoveva poco (“Non che lo facessi poi tanto di più, prima”) ma che illuminava con intelligenza rara. Un anno così così, chiuso in crescendo grazie alla saggezza e agli stimoli di una persona fantastica come Gibì Fabbri, poi la risalita con Maifredi e finalmente di nuovo un campionato in Serie A, nel 1988-89.
In rossoblù, alla fine, 162 presenze (in due fasi) di cui 135 in campionato e 68 in Serie A, e 7 reti in totale.



SCRIVERE COL CUORE – Un’altra parentesi a Bologna, nel drammatico salvataggio di Gazzoni del 1993, quando il tribunale lo aveva nominato perito per la valutazione del patrimonio tecnico rossoblù. Ma soprattutto l’altra vita, sempre creativa: commentatore televisivo mai banale, infine scrittore arguto e piacevolissimo. Con tutte le particolarità di essere Eraldo. “Qualche tempo fa, dopo ore di lavoro non trovavo più il tasto delle virgolette. Per quanto mi ci fissassi, non saltava fuori. Coì ho telefonato a mio figlio. Papà, mi ha risposto, e le cerchi alle tre di notte le virgolette?”
Eraldo Pecci festeggia sessantacinque primavere. Dicono sia un’età da pensione. Ma chi lo dice non conosce uno così.



Più Stadio, 12 aprile 2020









lunedì 13 aprile 2020

TOCCATA E FUGA DI "BOB IL MATTO"



Talento cristallino, brillò come una meteora nel cielo del basket bolognese, col Gira in Serie A1. Poi scappò per rifugiarsi nella NBA

di Marco Tarozzi

Chi se lo ricorda, Bob Elliott? A Bologna, quelli che avevano già il tarlo del basket a metà degli anni Settanta, quando finita l’era dei duelli tra il Barone Schull e Kociss Fultz, e passato lo scudetto “vent’anni dopo” della Virtus, quello del ’75-76, firmato da Dan Peterson in panchina e Terry Driscoll in campo, alla ribalta del massimo campionato si era affacciata una terza forza bolognese. Accanto a Virtus e Fortitudo, anche il vecchio Gira tornava a riveder le stelle, e faceva dannatamente sul serio. In due annate, era passato dalla B alla A1 con un percorso quasi immacolato, 30 vittore in 31 gare nella prima stagione con Zuccheri coach, poi 17 su 22 in A2 con la conquista della poule-scudetto dove arrivò anche il successo sulla Virtus (79-75). Si presentava sulla grande ribalta dopo dodici anni (l’ultima apparizione in quello che allora era il torneo Elette risaliva alla stagione 1964-65).

TORNA IL GIRA – Dunque, ai nastri di partenza della stagione 1977-78 c’è il glorioso Gira con uno sponsor arrembante, Fernet Tonic, un condottiero scafato come Beppe Lamberti, un capitano carismatico come Renzo Bariviera. E nel gruppo ci sono Meo Sacchetti, ventiquattrenne, Dante Anconetani, un giovanissimo Marco Santucci. C’è l’americano Steve Hayes, pivottone di 213 centimetri arrivato dalla Idaho State University.
E poi, dopo un’estate in cui si è parlato anche troppo di contatti con due assi come Tom Lagarde e Alvan Adams, ecco che arriva lui, Robert Alan Elliott, detto Bob. Ventidue anni, nato ad Ann Arbor, nel Michigan, e uscito fresco dall’Università dell’Arizona. Con I colori dei Wildcats ha lasciato un bel ricordo: ha trascinato la sua squadra al successo nella Western Athletic Conference, nella quale per tre stagioni è stato eletto nel team ideale, approdando per ben due volte nel torneo NCAA. Abbastanza per farsi notare dalla Nba: I Philadelphia 76ers lo scelgono al secondo giro del Draft col numero 42, ma lo giudicano ancora acerbo per il grande salto. E lui sceglie la strada dell’Europa, dell’Italia e di Bologna, approdando nella terza squadra di Basket City, neopromossa e ambiziosa.


GENIO E SREGOLATEZZA – E infatti la stagione parte alla grande. La prima di campionato fa impazzire un palazzo pieno. E’ sabato, giorno fissato per le gare casalinghe del Fernet Tonic, e la società ha sposato la politica dei biglietti gratuiti per gli studenti. Sono (siamo) in tanti, a vedere quel debutto. Bariviera e compagni spazzano via Cantù, e gli eroi di giornata sono proprio Hayes, 37 punti, e Elliot, 34. Bob fa scintille, anche in allenamento: il suo repertorio di schiacciate, rimbalzi, palle recuperate è un incantesimo, si intuisce che sa parlare un’altra lingua, quella dei talenti puri. Ma ben presto il carattere si rivela un limite, e il rapporto con gli italiani del gruppo si incrina. Nel derby con la Virtus, Elliott contesta la decisione di un arbitro lanciandogli addosso la tuta: espulsione immediata, e a seguire multa di 8mila dollari. Nel corso di un’altra partita, reclama per un fallo subito ma l’arbitro ha una visione diametralmente opposta, e penalizza lui. Invece di tornare in panchina, Bob fa alzare un tifoso nel parterre e si mette a sedere al suo posto, a braccia conserte. Tocca a Persiani, il direttore sportivo, andare a recuperarlo. E poi c’è la vita fuori dal basket. L’Italia gli va stretta, ma in qualche modo si adatta alle notti bolognesi, per non farsi prendere dalla malinconia.

TORNANDO A CASA – E’ il 16 marzo, quando un comunicato della società ufficializza quello che era nell’aria da qualche tempo. Bob Elliott proprio non lo capisce, questo basket. In Italia ha trovato, assicura, arbitri con un metro diverso dal suo, e tifosi avversari che più che tifare per I loro beniamini si accaniscono contro I giocatori avversari. Non ha legato, “Bob il matto”. Fa le valigie in fretta e furia, e all’aeroporto di Malpensa incrocia la Virtus al completo, di ritorno da una trasferta, e a Elvis Rolle che lo guarda incredulo spiega tutto in due parole. “Back home”.
Fine dell’avventura, mentre il Fernet Tonic ha spento da tempo le luci di una stagione che prometteva ben altro, e chiuderà in fondo alla classifica in compagnia della Fortitudo, con 6 vittorie e 16 sconfitte, anche se poi non rischierà nulla in poule retrocessione. I numeri di Elliott, che non tengono conto dei chiari di luna, sono più che dignitosi: 23 partite con 447 punti, alla media di 19.4 a gara, una decina di rimbalzi meno di Chuck Jura ma migliore del campionato per media/gara, 12.9. Che ci fosse del talento, dentro quella testa, nessuno lo metterà mai in dubbio.


LE LUCI DELLA NBA – Negli States, si aprono finalmente le porte della NBA. Bob Elliott ci resterà tre stagioni, fino al 1981, sempre con il numero 55 dei New Jersey Nets, facendo bene la sua parte: alla fine 141 partite giocate con 16,5 minuti, 7 punti e 3,6 rimbalzi per gara, e un high score di 22 punti. Infine, dopo una stagione in CBA con I Detroit Spirits, chiuderà la carriera ad alti livelli ad appena ventotto anni.
In tasca una laurea in Contabilità e Finanza, Elliott non si è mai staccato dal mondo del basket. Presidente per un lungo periodo della Retired NBA Players Association, la sua voce ha accompagnato dal 1999 al 2003 le versioni del videogioco NBA Live. Vive a Tucson, in Arizona, dove è coinvolto in molte iniziative di solidarietà. E’ un musicista apprezzato, e nel 2014 ha anche scritto (insieme all’ex compagno dis quadra Eric Money) il libro “Tucson, a basketball town”, che racconta la storia del basket alla University of Arizona e quella di Fred Snowden, che nel 1972 divenne il primo coach afroamericano di una squadra universitaria. Quattro figli, dieci nipoti, una vita felice. Nella quale, cosa rara per gli americani di quell’epoca, c’è poco spazio per il ricordo di BasketCity. Mentre qui, nonostante sia stata una meteora, sono in molti a ricordare il suo talento.

Più Stadio, 8 aprile 2020