lunedì 7 novembre 2022

NEL PAESE DI GIACOMINO

 


Un piccolo mondo fuori dal mondo, dove anche il silenzio parla di un ragazzo che giocava nel campo della parrocchia e finì col diventare la bandiera del Bologna

di Marco Tarozzi

PORTONOVO DI MEDICINA

“Mi piace la campagna, in fondo ci sono nato. Se studiassi agraria, potrei fare il contadino con basi scientifiche, moderne. A Portonovo ci sono le zanzare, a Bologna c’è la nebbia e molto freddo. Eppure non c’è altra campagna al di fuori di Portonovo dove io vorrei stare, e non c’è altra città oltre a Bologna dove vorrei andare”.
Benvenuti a Portonovo, quindici chilometri da Medicina, un punto smarrito nella Bassa dove è nato l’ultimo gigante rossoblù. Ieri avrebbe festeggiato le ottantadue primavere, Giacomo Bulgarelli, se non se ne fosse andato troppo presto. Ma se venite qui, a camminare in un pomeriggio d’ottobre dentro una storia di paese e di margine, troverete mille dettagli che parlano ancora di lui. Magari, proprio come Giacomino da bimbo, avrete la fortuna di vedere un “saiano”. Dicono che non esista, un animale così; ma se lui lo ha incrociato, non può che essere stato in questa campagna.



MONDO PICCOLO. Portonovo ha un cuore antico. Fu fondata nel 1334, quando fu costruito il “Canale di Trecenta”, il tratto navigabile di Buda che portava le merci verso Ferrara e Modena. Un porto nuovo, appunto: per questo la strada che arriva dentro al paese è una sottile linea grigia: dalla San Vitale quattro chilometri dritti verso Buda, una curva ad angolo retto verso destra, mezzo chilometro e di nuovo giù, altri cinque in linea retta, che si perdono nel nulla. “E’ impossibile non trovare la piazza con il bar-trattoria”, dice sorridendo Romina Gurioli, presidente dell’associazione Pro Portonovi’s. “Prima che la strada faccia una leggera deviazione a sinistra e poi prosegua verso il Sillaro, ci sbatti contro”. La grande casa dove sorge il bar, con la trattoria ancora a pieno regime, è quella in cui è nato Giacomo. L’esercizio era gestito da suo zio, a fianco c’era il negozio di alimentari di papà Leandro, nell’edificio accanto la latteria della zia. Un mondo piccolo, guareschiano, da cui Giacomo partì appena dodicenne per andare a frequentare il collegio San Luigi a Bologna. Senza mai perdere il legame con le radici. Questo era davvero il porto nascosto, per lui. La pace e il silenzio in cui immergersi dopo le mille sfide del calcio.



LA TERRA BUONA. C’è un altro dettaglio che rende unico il paese. I terreni facevano parte della Partecipanza di Medicina, ma dopo il dissesto economico del 1892 divennero proprietà di un certo cavalier Benelli, che poi li cedette alla famiglia Tamba. Nel 1933 arrivarono le assicurazioni Generali di Trieste e acquistarono tutto: terreni, case antiche e nuove, in un certo senso anche chi ci viveva dentro, perché la mano d’opera per i lavori nelle immense proprietà veniva scelta sul posto. Un ambiente di operai.. della terra, in cui la famiglia Bulgarelli spiccava per quello status di borghesia che può permettere una attività commerciale ben avviata. Insomma, la famiglia “stava bene”, come si diceva allora. E Giacomo era uno studente modello, anche se dovette frequentare due volte la quinta elementare: non perché fosse stato bocciato, ma perché andare alle medie a Medicina era complicato e ci volle il tempo per organizzargli il trasferimento al San Luigi. Due anni dopo la sua partenza, tutto il nucleo familiare prese la strada di Bologna. Compresa Olga, la “dada” di Giacomino, grande maestra di cucina tradizionale, regina del tortellone, della tagliatella al ragù di cipolla e del “friggione”, che da queste parti è ancora oggi un piacere del gusto di cui è difficile privarsi.



MILANISTI MAI. “Giacomo fin da bambino ci sapeva fare, col pallone”, ricorda Secondo Selva, classe 1936, per quasi vent’anni presidente della società di calcio di Portonovo, nel cui ambiente gravita ancora,  dopo mezzo secolo. “Qui si usciva da scuola e si andava a giocare nel campetto dietro la chiesa, per interi pomeriggi. Poi lui finì nella squadra dei giovani, che qui avevamo ribattezzato “O la va o la spacca”. Beh, a lui è andata alla grande, niente da dire. Io negli anni ho coltivato una fede milanista: sa com’è, Giacomo non era ancora il Bulgarelli amato da tutti, e Rivera dettava legge. Lui non me l’ha perdonata, anche se poi ci è andato vicino, al Milan: ogni volta che tornava, scherzando, diceva “mè i milanèsta an’ i salùt brisa”, e ridevamo come matti”.



TESSERATO. Qui tutto è a due passi. Lo stadio, indicato così anche da un cartello stradale, è a duecento metri dalla piazza principale, che naturalmente è stata intestata al campione. Inaugurato nel 1976, ci gioca il Portonovo, oggi presieduto da Giuseppe Astorino, da sempre nella categoria Amatori. “Gli ho passato il testimone tre anni fa”, continua Selva, “dopo che io lo avevo ricevuto da Veliano Brusa, sessanta anni di amore per il nostro calcio. Non tutti lo sanno, ma a fine carriera Giacomo è stato tesserato per il Portonovo per almeno tre stagioni. E non solo lui: portò anche Giuseppe Vavassori, il portiere del Bologna anni Settanta, che però qui non voleva stare tra i pali e diventò centrocampista”. Su questo campo, Bulgarelli portava anche gli amici delle amichevoli domenicali: Giorgio Comaschi, Fio Zanotti, Andrea Mingardi, Jimmy Villotti, e poi Colomba, Pecci, Massimelli. Erano i giorni in cui Portonovo, la piccola Portonovo, si sentiva al centro del mondo.



VICINO E  LONTANO. Per dire, in quel cinema che è un gioiellino, costruito proprio nel 1933 dopo l’acquisto delle Generali, in una sera di ottobre del 1976 Sandro Ciotti venne a presentare in prima assoluta “Il profeta del gol”, il film su Johann Cruijff di cui era regista. Lo portò Bulgarelli, naturalmente, e con lui Pesaola, tanti giocatori e tanti giornalisti. Finì tutto con la leggendaria “Rustida a Newport”, con Ciotti virtuoso della fisarmonica, chili di pesce sulla griglia e fiumi di buon vino della campagna.
Perché Portonovo è esattamente come la descrive Romina Gurioli: “Un posto al centro del mondo dove c’era tutto, il pallone, la scuola, il cinema, i negozi. Eppure, anche un posto lontano da tutto”. Per questo, forse, Giacomino non riusciva a stare lontano da qui.


 (Più Stadio, 25 ottobre 2022)

BUON COMPLEANNO, GRANDE UOMO


… Il Cagliari è pronto per riempire d’orgoglio un’intera, immensa isola. Gigi Riva è il profeta. Gira in mezzo al campo usando il piede destro praticamente per puntellarsi, ma il sinistro è un dono divino. Quando parte in progressione, lanciato da Domenghini o Cera, non c’è terzino che possa arginarlo. Segna 21 reti in quella stagione, il 1969-70, una più dell’anno prima. La squadra gira a meraviglia, ma nei rari momenti di appannamento lui c’è sempre.
“Andavamo in giro per gli stadi d’Italia e ci chiamavano pastori o banditi. E noi vincevamo per i sardi”.
Parole di Gigi Riva. “Ci chiamavano”, dice. Ormai non vuol più scappare dall’isola. Ormai quella è la sua terra. I suoi amici migliori non fanno parte di nessun sistema, non hanno incarichi di prestigio nella società. Sono pescatori, marinai, uomini comuni. E lui, così unico, è uno di loro…

(da “Celocelomanca”, di Franz Campi e Marco Tarozzi – nella foto, il murales di Mamblo, alias Paolo Mazzucco, a San Gavino Monreale)


 

lunedì 10 ottobre 2022

LE INTERVISTE IMPOSSIBILI - RENATO DALL'ARA

 


di Marco Tarozzi

BOLOGNA

 

Commendator Dall’Ara, sinceramente ci sentiamo in imbarazzo.
“Cosa è successo, posso fare qualcosa?”
E’ che la ricordiamo nel giorno peggiore, quello più triste.
“Cosa vuole, il destino non si può mica programmare. Però se avessi potuto farmi ascoltare lassù, quel giorno a Milano, una preghiera l’avrei mandata”.
Chiedendo cosa?
“Quattro giorni in più da vivere. Anzi, facciamo cinque: lo scudetto all’Olimpico, e un giorno intero per far festa dopo”.
Sa da cosa vorremmo iniziare? Per chiarezza, davvero è sempre stato convinto che “Fiat Lux” significhi “faccia lei?”
“Dica la verità, a lei non è mai capitato di maccheronare una frase per far divertire gli amici?”
Aspetti, c’è la notizia: mi sta dicendo che in realtà il latino lo conosce?
“No che non lo conosco. Ma mi diverto a giocarci. Lo so che quella frase significa altro, ma sente come suona bene?”
Non lo ha mai imparato perché non ha potuto fare, come dicevano i nonni, “le scuole alte”?
“Altra sciocchezza. Eravamo otto fratelli, chi ne aveva voglia andava avanti con gli studi. La famiglia Dall’Ara ha un passato nobiliare, e i miei genitori erano proprietari terrieri, mica nullatenenti”.
Però lei ha perso presto papà.
“Nel 1896, a quattro anni. Mamma si prese a carico la gestione del podere Stracchina, appena fuori le mura di Reggio Emilia. Rimasta sola, ha organizzato la raccolta del latte per tutta la città. Venivano casari da tutta la campagna”.
Ecco da chi ha ereditato lo spirito imprenditoriale.
“Devo tanto a mia madre Teresa. Per questo negli ultimi anni della sua vita l’ho voluta a Bologna con me. Anche se bisognava starle un po’ dietro, poverina, la testa si era appannata dopo tutto quel lavorare per noi”.
I suoi affari li ha organizzati qui, appena finita la prima guerra mondiale.
“Ho fatto il maresciallo di Cavalleria a Padova. Quando tutto è finito, ho comprato dal reparto una ventina di cavalli. Erano ancora fortissimi, ma non servivano più. Ho iniziato a venderli ai mercati, ho messo insieme un bel gruzzolo e ho impiantato la mia prima attività. Sono partito da via del Pratello: un’aziendina con tre magliaie”.
Poi ha avuto il colpo di genio. Guardando quelle foto del generale Nobile.
“Oggi si direbbe che era “la rockstar dell’epoca”. L’eroe della spedizione al Polo. Lui e la Tenda Rossa erano su tutte le copertine. Notai quel giaccone di lana che indossava: era elegante, doveva tenere anche parecchio caldo. Decisi di riprodurlo, inventai il modello “Norge” e la mia azienda svoltò”.
Il nuovo impero era il triangolo tra via Boldrini, dove c’era l’entrata dello stabilimento, viale Pietramellara e via Amendola. Arrivò ad avere più di 250 magliaie.
“Nel palazzo di via Amendola c’erano gli appartamenti in cui vennero ad abitare, nel tempo, tanti giocatori, allenatori e dirigenti del Bologna”.
Ecco, ci siamo. E’ vero che fu costretto a occuparsi della squadra della città?
“E’ vero che il presidente Bonaveri aveva finito la sua era, troppo legato da amicizia a Leandro Arpinati, caduto in disgrazia coi vertici del regime. Ma prima di me fu interpellato Alberto Buriani, ex presidente della Sef Virtus, nome notissimo in città. Fu lui a fare il mio nome alla società”.
Quello di un imprenditore che, si è sempre detto, non sapeva niente di pallone.
“Eccoli lì, ancora! Ma allora siete prevenuti! Allora, vi dico esattamente come mi presentò Buriani. Disse: ci sarebbe quel Dall’Ara, ha una quarantina d’anni (ne avevo quarantadue), una bella azienda ed è un appassionato, va allo stadio ogni domenica e qualche volta segue anche la squadra in trasferta”.
Vuol dirci che si intendeva di calcio?
“Beh, insomma… come tutti. Quelli che si trovavano davanti al bar Otello erano tutti espertoni? Non sa quante volte avrei voluto andarci anche io, là in mezzo. Ma sa, col mio mestiere… non sarebbe stato elegante”.
Però col tempo ha saputo azzeccare tanti acquisti giusti.
“Chiariamo: il Bologna lo gestivo io, per qualcuno ero anche troppo sparagnino, ma la realtà è che sono cresciuto con l’idea che un’azienda deve avere sempre i conti in regola, e così doveva essere anche in società. Però sapevo a chi affidarmi quando c’era da osservare qualche giovane di belle speranze. Per fare un nome, Lele Sansone da Andreolo in poi mi ha portato tanti bei nomi”.
Una volta arrivò con Seghini, però.
“Lasciamo stare, che personaggio quello. A parte l’imbarazzo del cognome, qui a Bologna, con tutto che la mia segretaria era la signorina Sega. Però, insomma, una svista può capitare. Faele mi segnalò anche Haller, tanti anni dopo”.
Le brillano gli occhi, quando parla del tedescone.
“L’ho voluto a tutti i costi. Sono salito ad Augsburg tante volte, per vederlo giocare e per convincerlo. Sempre in macchina, e un paio di volte ho anche rischiato l’osso del collo”.
Dopo i fasti degli anni Trenta e del Bologna che faceva tremare il mondo, il calcio ha cambiato punti di riferimento. La famiglia Agnelli, il petroliere Moratti, il Milan. E negli anni Cinquanta il Bologna di Dall’Ara ha faticato parecchio.
“Lo ammetto, e ricordo che la tifoseria  si lamentava. Una volta non mi fecero salire su un autobus, si erano dimenticati dei quattro scudetti, del Torneo di Parigi. Ma io avevo un obiettivo preciso. Volevo riportare il Bologna sul trono del campionato”.
E’ partito lungo, per riuscirci.
“Sicuro. Lasciando i nomi altisonanti ai cosiddetti squadroni, e andando a tesserare gente giovane e piena di talento. Poi, lo sa come è la piazza. Arrivano un Fogli ragazzino, un Tumburus, un Pascutti, un Furlanis, un Pavinato ancora giovani e si domanda: ma chi sono questi? Poi, però, se ne sono accorti di chi erano”.
Tutto merito dei giocatori?
“Cosa vuol dire? Lo so dove volete arrivare voi del quinto potere…”
Sarebbe quarto, Commendatore.
“Non faccia il modesto. Comunque, lei vuole fami parlare di Bernardini”.
Mi sembra normale, lo scudetto glielo ha riportato lui.
“Senta mo, le cose stanno così. Io e lui non ci siamo proprio mai presi. Io dicevo una cosa e lui sembrava ne facesse un’altra apposta. Però, sa cosa? Io a un certo punto ho capito che se volevo vincere ancora, mi serviva lui. E allora senza doverci amare per forza ci siamo rispettati. Ed è stato di parola: tre anni mi ha chiesto per lo scudetto, tre anni ci ha messo”.
Lo sa che la faccenda del doping pare sia stata montata dal suo amico Gipo Viani?
“Lo so perché lo dite adesso, e quassù dove sono qualche libro di storia si trova ancora. Ma figurarsi se in quei giorni avrei potuto sospettare di lui”.
Quei giorni però le hanno dato una brutta botta. Quel dolore ha iniziato a scalfire il suo cuore.
“Non so, siete voi quelli che fanno poesia. Io so quando è successo, e dove. Dentro quell’ufficio a Milano, in un’estate torrida. Diceva il dottor Pinetti che avrei dovuto restarmene a casa, ma come si fa? C’erano i miei ragazzi da difendere, c’era il mio Bologna. Io dovevo essere lì”.
Sono passati quasi sessant’anni. Si è pentito di essere andato a incontrare Moratti e Perlasca, quel giorno?
“Io non ho niente di cui pentirmi. Mi amareggia non essere stato lì, a Roma, quando i miei ragazzi hanno vinto lo scudetto. Mancava così poco, quattro giorni”.
Però lo avrà visto, no?
“L’ho visto eccome, da quassù. E sono contento che la gente se lo ricordi ancora”

Più Stadio, 3 giugno 2022

 


martedì 4 ottobre 2022

BIRRA, PALLONE E GRANDI SOGNI

 


Forse non sarebbe il momento di festeggiare un anniversario. O forse sì, magari ci aiuterà la memoria di quanto il Bologna ha navigato nel tempo, attraversando tempeste e vivendo giornate radiose, scrivendo la storia e assaporando la gloria. Di fatto, tutto iniziò una mattina d’autunno in birreria; un posto che non esiste più, se non in qualche fotografia virata seppia. Era il 3 ottobre 1909, e il giorno dopo il giornale della città raccontò in un trafiletto di venticinque righe, con titoletto a due colonne, che “Ieri mattina al Circolo Turistico Bolognese, venne costituita la sezione per le esercitazioni di sport in campo aperto e precisamente il Foot Ball Club. Era desiderata da molti giovani questa iniziativa per il football, per la palla vibrata, pel tennis, e mentre già alcune esercitazioni si svolgevano da qualche settimana, ora si è fissato un ordinamento preciso, costituendo la sezione presso il Circolo Turistico che già ha acquistato la maggiore importanza sportiva…”. E dunque gli attenti lettori bolognesi si svegliarono il 4 ottobre di centotredici anni fa scoprendo che era finalmente anche da queste parti era nato ufficialmente il “giuoco del football”.

PIONIERE. “Molto presto di mattina”, per dirla con Dylan Thomas, c’è un fervore insolito alla Birreria Ronzani di via Spaderie. Emilio Arnstein guarda le persone che gli stanno intorno e sorride. Sa che condividono il suo sogno. Sa che amano il football quanto lui, anche se non tutti ne conoscono perfettamente le regole. Ma in tempi di pionieri, quello che conta è la volontà. Quella di Emilio è ferrea. Ci ha impiegato meno di un anno a trasformare quel sogno in realtà. Aveva trovato “i màt chi corren dri a la bala” ai Prati di Caprara, poco dopo essersi fermato per l’ennesima volta a Bologna, nel 1908. Li aveva radunati, organizzati, convinti che anche qui, come in altre città italiane, era arrivato il momento di fare sul serio.

ORGANIZZATORE. Emil Arnstein è un suddito dell’impero Austro-Ungarico nato in Boemia, a Wotitz, vicino a Praga, il 4 giugno 1886. Durante l’Università, a Praga e poi a Vienna, si è innamorato del “football”. Gli piace giocare, ma più di tutto gli piace organizzare. A Trieste, insieme al fratello e a un gruppo di inglesi e boemi, ha da poco dato vita al Black Star FC. Qui è subito andato in cerca di appassionati, e la storia racconta che la dritta gli è arrivata da un tranviere. Fuori Porta Saffi, nella Piazza d’Armi dei Prati di Caprara, proprio dove nel 1906 si era esibito il leggendario Buffalo Bill col suo “Wild West in Europe”, Arsntein ha trovato quel che cercava. Ovvero i famosi matti che rincorrono un pallone, gli stessi che in questa mattina di primo ottobre sono seduti intorno a lui. C’è un conduttore del Collegio di Spagna che di cognome fa Builla, fondamentale perché nel gruppo è quello che porta il pallone. C’è un altro spagnolo, studente dello stesso istituto, si chiama Antonio Bernabeu Yeste, gioca centravanti e ha un fratello, Santiago, che diventerà famoso, presidente e anima del Real Madrid a partire dagli anni Quaranta, e per trentacinque anni. Un altro “straniero” viene dalla Svizzera, si chiama Louis Rauch e studia odontoiatria. Diventerà uno dei pupilli del professor Arturo Beretta, prima di mettersi in proprio. Ci sono i fratelli Gradi, Vincenzi, Puntoni, Cavazza, Berti, Lambertini, Martelli, Nanni, Della Valle. C’è il cavalier Carlo Sandoni, presidente del Circolo Turistico Bolognese che ha sede alla Ronzani. E’ lui che ha patrocinato l’iniziativa di Arnstein e dei suoi pionieri.

I COLORI DEL CUORE. Il Bologna Football Club nasce in poche ore, come sezione del Circolo. Ha il suo bravo statuto, e il primo presidente della sua storia è proprio Rauch. Guido Della Valle, di nobili origini, è il vice, i consiglieri sono Arnstein e Leone Vincenzi. Segretario Enrico Penaglia, cassiere Sergio Lampronti. Nessun  dubbio sul capitano: Arrigo Gradi è quello che sa di tecnica più di chiunque altro, ha già giocato all'Institut Wiget di Schönberg a Rorschach, nello stesso collegio da dove provenivano gli ex studenti che fondarono il Fussballclub Sankt Gallen, nel 1879. Da lassù ha portato l’idea per la divisa ufficiale, casacca a scacchi, colori rosso e blu col taschino anch’esso bicolore sulla sinistra. Una sciccheria.

TRA LE PECORE. Naturalmente, giocatori e primi appassionati continueranno a ritrovarsi dove tutto è iniziato, ai Prati di Caprara. Lì non si paga per giocare, basta ritagliarsi i giusti spazi quando il pastore che ha in affitto dal demanio quei terreni non porta a pascolare le sue pecore. Quell’enorme spiazzo resterà il regno del football fino al trasferimento nel primo campo vero, la Cesoia. Il fenomeno attecchirà in un niente, a quelli della prima ora si aggiungeranno altri giovani, più o meno portati per il gioco. Presto cambierà il presidente, Pio Borghesani sostituirà Rauch, il quale darà un’impronta alla squadra in qualità di trainer “ante litteram”, e cambierà la sede, trasferita al bar Libertas di via Ugo Bassi.

STORIA E GLORIA. Della Birreria Ronzani oggi è rimasto il ricordo, perché tutto quello che c’era in via Spaderie e intorno non esiste più da tempo. Ma in quelle immagini in bianco e nero rivediamo un posto del cuore, quello in cui una mattina d’autunno dei primi del secolo scorso prese vita la leggenda del Bologna. Da allora sono passati sette scudetti, il Trofeo dell’Esposizione, due Mitropa, una Coppa di Lega Italo-Inglese e un Intertoto, la Coppa Italia due volte, nomi indimenticabili che hanno fatto la storia del calcio italiano. E sì, anche sei retrocessioni e altrettante promozioni, perché la vita non è sempre un tappeto di petali di rosa. Momenti delicati, anche, come quello che società, squadra, tifosi stanno vivendo oggi. Forse è vero, in certi momenti anche gli anniversari possono essere uno stimolo per riprendere il cammino sulla strada migliore.

Marco Tarozzi

Più Stadio, 4 ottobre 2022

 


venerdì 23 settembre 2022

UN ANNO SENZA ROMANO FOGLI


di Marco Tarozzi

BOLOGNA


Un anno oggi, che Romanino se n’è andato. Che noi proviamo a immaginarlo su certi prati verdi, nel cielo o chissà dove, di nuovo a dare del tu al pallone come faceva ai tempi in cui il Paradiso era in terra, e ci giocava il suo Bologna. Per confortarci, perché in questi addii è sempre chi resta a cercare conforto, immaginiamo che abbia ritrovato i vecchi compagni, proprio come aveva fatto qualche anno fa tra i tavoli dell’Osteria del Sole, inventandosi attore per il film che raccontava lo scudetto e prendendosi anche in giro insieme a Pascutti, Perani, capitan Pavinato. Che belli erano anche allora, invecchiati serenamente insieme condividendo quella gloria, ripensando a quel giorno di giugno che li aveva uniti per sempre.

TALENTO PRECOCE. Sogniamo anche che in qualche modo abbia potuto ritrovare il suo presidente, Renato Dall’Ara, che ogni volta che un giocatore gli interessava veramente andava di persona a discutere il suo acquisto, e così fece con i dirigenti del Torino per Fogli. In Piemonte, Romanino c’era arrivato ragazzo. Giocava attaccante in Promozione nella squadra del suo paese, Santa Maria a Monte, una dozzina di chilometri da Pontedera. Come tutti, da quelle parti, sapeva mettere le mani nei motori delle Vespe e dei piccoli motofurgoni, gli Ape. La prospettiva era quella di finire in fabbrica, alla Piaggio o nell’indotto. Ma era troppo bravo col pallone, e anche se il fisico non era possente finì nel taccuino degli osservatori del Toro. Vennero a fargli un provino e lo tolsero dal campo dopo dieci minuti: lui pensò di aver sbagliato qualcosa, invece avevano solo paura che qualcun altro si accorgesse del suo talento. Visto e preso.

IL BLITZ DI DALL’ARA. A diciotto anni Romano debuttava in Serie A con la maglia granata. Era il 27 maggio 1956, al Filadelfia il Toro batté la Sampdoria 2-1. Dalla metà della stagione successiva, 1956-57, diventò titolare fisso. Più di una volta Dall’Ara aveva mandato osservatori a visionare le sue partite. Prima che finisse il campionato, il Commendatore salì a Torino per chiudere l’operazione. La società in quel momento era senza presidente, retta da un comitato esecutivo formato da Arturo Colonna, Beniamino Gay e Antonio Liberti. C’era necessità di incassare, ma quel gioiellino arrivato dalla Toscana era incedibile. Dall’Ara finse interesse per il portiere Rigamonti, la tirò lunga e solo nel momento più acceso della trattativa buttò là quasi distrattamente il nome di Fogli. Non fu semplice, ma l’affare si fece: ottanta milioni e il cartellino di Bonifaci, con la promessa di lasciare Romano in prestito ai granata per un’altra stagione. Che poi fu quella della definitiva consacrazione: nel Toro il ragazzo diventò protagonista, tutti se ne interessarono ma lui era già del Bologna.

IL TESTIMONE. In rossoblù sarebbe rimasto per dieci lunghe stagioni, a partire dal 1958-59, mettendo in archivio 344 presenze e 15 reti, conquistando la Mitropa Cup nel 1961 e lo scudetto del 1964, indimenticabile. Mediano, sì, ma di quelli dotati di piede raffinato e intelligenza viva. Dall’Ara fu un secondo padre: arrivò anche nella piazza principale di Santa Maria a Monte per fare il testimone di nozze, insieme alla moglie Nella, al matrimonio di Fogli, e in paese l’arrivo di quella berlina nera di gran lusso se lo ricordarono per un pezzo.
E in nome del Presidentissimo, Romano e i compagni scesero in campo il 7 giugno 1964, dopo una stagione esaltata dai risultati e scossa dalla montatissima vicenda-doping, per giocarsi lo spareggio contro l’Inter campione d’Europa. Lui, Dall’Ara, quel capolavoro che aveva costruito negli anni non poté goderselo: l’ultimo tragico scherzo del suo cuore era arrivato proprio quattro giorni prima dell’appuntamento all’Olimpico.

INDELEBILE. Ma anche quella maledizione del destino contribuì a fare di quei novanta minuti un ricordo indelebile. Romano Fogli lo ha sempre detto: “La morte del presidente ci dette motivazioni che nessun altro poteva avere. In qualche modo lo sentivamo con noi. Segnai il primo gol, in un modo che non mi apparteneva, ma il mio capolavoro fu il passaggio a Nielsen per il raddoppio. Quella domenica, chiunque ci avesse incontrato avrebbe perso la partita, perché lassù c’era Renato Dall’Ara ad attendere che noi realizzassimo il suo sogno. E’ sempre difficile mettere insieme le parole “triste” e “meraviglioso”, ma quel giorno all’Olimpico fu proprio così: triste e meraviglioso insieme”.

INTENDITORE. Poi vennero i momenti di gloria con la maglia del Milan, suo amore di bambino: due stagioni, la Coppa dei Campioni e l’Intercontinentale. Infine, un sereno viale del tramonto a Catania, dove chiuse ormai trentasettenne la carriera. Il Fogli successivo, da tecnico, è stato un grande scopritore di talenti, e ne è sempre andato fiero, pur senza vantarsene: “Di ragazzi in gamba ne ho trovati anche quando lavoravo per le giovanili del Bologna. Ricordo un mattino a Imola, a vedere le prodezze di un bimbo di nove anni che giocava all’ala. Corsi in sede a caldeggiare quel nome. Si chiamava Giancarlo Marocchi. Ed è stato bello ritrovarmi nell’Under 21 bimbetti come Gamberini, Zaccardo, Cipriani, che avevo seguito quando avevano una decina d’anni a Bologna”.

AMORE UNICO. Ma alla fine, il Bologna è rimasto appoggiato al cuore più di ogni altro amore calcistico. Lo ricordano bene i figli Mirko e Massimiliano: “Papà non ha mai dimenticato le tappe del suo cammino nel calcio, si è sempre sentito grato nei confronti di chi ha creduto in lui. Del Torino, del Milan. Ma Bologna è stata Bologna: un pezzo di vita, un momento centrale, determinante. Diceva sempre: vincere lo scudetto quel giorno all’Olimpico, e in quel modo, è stata la mia più grande soddisfazione”.

Più Stadio, 21 settembre 2022

venerdì 12 agosto 2022

GIGI PORELLI, IL RIFONDATORE

 

Ha guidato la società dal 1968 al 1989, riportandola ai vertici del basket. Burbero ma generosissimo, ha regalato a Bologna grandi allenatori e talenti leggendari

testo di Marco Tarozzi

Succede a Bologna che i grandi dirigenti sportivi arrivino da fuori città. Succede ed è successo. Forse c’entra l’aria cosmopolita dell’Università. E’ la teoria di Giorgio Bonaga, emerito professore dell’Ateneo, testimone e protagonista della vita cittadina, amico fin da ragazzo di Lucio Dalla, Gianni Morandi e tante anime creative: lui parla di città “che accoglie, ma nell’accogliere fa tesoro dei diversi stimoli culturali che arrivano e si depositano sull’humus cittadino”.
Così è successo che il più grande presidente della storia del Bologna, Renato Dall’Ara, fosse nativo di Reggio Emilia. Ed è successo che l’uomo che ha rilanciato la Virtus Pallacanestro, prendendone il timone in uno dei periodi più difficili della sua storia, arrivasse da Mantova. Si chiamava Gianluigi Porelli, ma nell’ambiente universitario, dove subito lasciò intuire la sua capacità di leadership, diventò quasi subito Gigi.

RE DEI GOLIARDI. Arriva in città per studiare Giurisprudenza, il futuro avvocato Porelli. Classe 1930, si muove nel ’49 in una Bologna che mostra ancora le ferite della guerra. La voglia di vivere non gli manca, e la esterna diventando capo indiscusso della goliardia universitaria. Lo dipingono come un tipo che va per le spicce, ma lui non rinnegherà mai quegli anni: “All’inizio ero Barone di Giustizia, tenevo ogni mattina tribunale all’Osteria delle Campane per le controversie sulle matricole. Poi diventai Gran Maestro del Fittone, fino a ventotto anni. Il mio “ufficio”, diciamo così, era il Caffè del Teatro. Giocavo a carte e boccette, studiavo poco ma mi salvava una memoria formidabile”.

TABULA RASA. In gioventù aveva nuotato, abbozzato un inizio di carriera da pugile e soprattutto giocato a tennis, fino a raggiungere la Terza categoria. Continua a farlo alla Virtus Tennis, naturalmente attratto da un simbolo per il quale stravedeva anche a Mantova. “Avevo poche certezze: Bartali, l’Inter e la Virtus, anche se di pallacanestro capivo poco o nulla”.
In via Valeriani fa molto più che calpestare la terra rossa: entra negli uffici, pochi anni e tutto passa dalle sue mani. Il lavoro è egregio, al punto che Giovanni Elkann, già deputato e dai primi anni Sessanta presidente della Sef Virtus, gli chiede il favore di occuparsi della sezione basket, in quel momento piuttosto disastrata. Lui accetta e si focalizza su reperimento delle finanze, costruzione del vivaio, rafforzamento della prima squadra. Lo fa a modo suo, naturalmente. “Era una barca malandata. Ci ho rischiato la vita. Non avevo mai firmato una cambiale, trovai un cumulo di debiti che mi angosciava.
Gli ostacoli ambientali poi erano terrificanti. C'erano cinquanta persone che volevano mettere naso, che sapevano tutto. Il primo provvedimento fu quello di fare “tabula rasa”: mi chiusi in ufficio e tagliai fuori tutti".

RIVOLUZIONE. Iniziano a chiamarlo Torquemada. Gianfranco Civolani, a cui lo legherà un profondo rapporto di amicizia (che non basterà a evitare una battaglia legale, poi finita in nulla) lo ribattezza “Duce truce”, e lui mastica amaro perché “io ho sempre votato a sinistra, questa storia del Duce non mi diverte troppo”.
Porelli gestisce a suo modo: niente più vantaggi, stop alle entrate di favore, equilibrio economico che si fonda sulla fidelizzazione di sponsor e tifosi. All’inizio cammina sul filo del rasoio, addirittura nella stagione 1970-71 tocca il punto più basso e complicato, con la squadra indebolita dalle cessioni forzate di Lombardi e Cosmelli che si salva dalla retrocessione soltanto agli spareggi di Cantù.

RINASCITA. E’ lo spartiacque. Da quel momento la Virtus di Porelli inizia a ingranare, ritrova la fiducia dei tifosi. “Torquemada” diventa “Provvidenza” nell’immaginario collettivo. Il primo colpo vincente si chiama John Fultz, l’americano che fa innamorare la città e riporta gli appassionati sugli spalti alimentando una rivalità sportiva con l’idolo fortitudino Gary Schull: con Cochise e il Barone, amici fuori dal parquet, rinasce BasketCity. Nell’estate 1973 la mossa a sorpresa: si parla dell’arrivo di coach Rollie Massimino, gran maestro di basket universitario negli States, e invece arriva un personaggio sconosciuto ed apparentemente eccentrico, timoniere della poco considerata nazionale cilena: Dan Peterson. In quella stagione con l’accoppiata Peterson-Fultz arriva la Coppa Italia, primo alloro dell’era Porelli. Poi l’Avvocato, ormai guida sicura per i virtussini, porta a palazzo un gioiello come Tom McMillen, grazie anche ai buoni uffici del fratello John, vice di Peterson. Nel 1976, con una squadra che può far brillare stelle come Terry Driscoll e Charlie Caglieris, arriva lo scudetto, che mancava da vent’anni in casa Virtus.

DA VILLALTA A SUGAR. La Virtus di “Provvidenza” torna ad alta quota. E Porelli mostra la sua grande capacità di guardare avanti, anticipando i tempi. L’arrivo di Renato Villalta da Mestre è un affare da 400 milioni, un record per l’epoca. “Un talento giovane per uno sport giovane, in crescita costante”, spiega l’Avvocato. Negli anni Ottanta saranno colpi sensazionali e a ripetizione, ma senza mai dimenticare i valori fondanti e lo stile-Virtus, di cui Porelli traccia il solco. In bianconero, come era successo per Peterson, diventa allenatore da scudetto Terry Driscoll, prende l’abbrivio la carriera di Alberto Bucci, quindi quella del suo giovane delfino Ettore Messina, destinato a diventare l’allenatore italiano più blasonato. Bucci ha sempre ricordato le parole di Porelli quando lo scelse: “Non voglio vincere sempre. Voglio una squadra che vinca ogni tre, quattro anni, per non rendere monotono il campionato”. Nel dubbio, Alberto vince già alla prima stagione, ed è lo scudetto della Stella. Altra scelta quasi controcorrente: nel 1988 arriva a brillare a Bologna la stella NBA Michael Ray Richardson, e Porelli si prende un rischio elevatissimo conoscendo i motivi per cui “Sugar” ha dovuto lasciare in fretta il pianeta delle stelle americane. Sarà ripagato con la conquista del primo alloro continentale, la Coppa delle Coppe: il presidente, in quel 1990, è già Paolo Francia, perché l’Avvocato ha impostato il proprio graduale allontanamento dalla stanza del potere bianconero, ma in quella stagione la sua presenza è ancora forte e rassicurante.

LA FORZA DEI GIOVANI. Sono tanti i nomi che hanno fatto grande la Virtus nell’era Porelli. Richardson, certo, ma anche Creso Cosic, il “Barone Nero” McMillian, Marquinho, Frederick. E italiani da leggenda: Brunamonti, Binelli, Bertolotti, Bonamico, Caglieris. Ma il capolavoro dell’Avvocato è stato quello di costruire un vivaio eccellente, che ha portato dieci tricolori giovanili e tanti talenti. In questo c’è la mano, forte e discreta, di Paola, la compagna di una vita, che tratta i ragazzi della foresteria come figli. Paola che se ne è andata solo pochi mesi dopo quell’uomo dall’ombra gigantesca di cui è stata, in tutto, l’altra metà. Gigi Porelli non è stato solo il “duce truce”, ma un uomo incredibilmente generoso e appassionato. Non è stato solo l’uomo che ha ridato credibilità e gloria alla Virtus, ma anche quello che ha messo le fondamenta di Legabasket, e poi dell’Uleb, dando spessore al basket europeo. Il suo motto è indimenticabile: “La tragedia peggiore che possa capitare ad un dirigente è di essere ammirato attraverso una scorretta interpretazione delle sue scelte e decisioni”. Se ripercorriamo la sua parabola, sportiva e di vita, non correremo mai questo rischio.



GIANLUIGI PORELLI è nato a Mantova nel 1930 e si è spento a Bologna, dove ha vissuto per sessant’anni, nel 2009. Presidente e procuratore generale della Virtus Pallacanestro dal 1968 al 1989, con lui la società ha vinto quattro scudetti, fra cui quello della Stella nel 1984, tre Coppe Italia ed ha giocato due finali europee, conquistando anche dieci titoli giovanili. Dal 1984 al 1992 è stato vicepresidente vicario di Legabasket, di cui era stato un fondatore, e dal 1992 al 1999 vicepresidente della FIP. Nel 1991, insieme ad Eduardo Portela, ha fondato l’Uleb di cui è stato presidente per otto anni, quindi presidente onorario. Nel 2008 è stato eletto nella Hall of Fame della pallacanestro italiana.


"Nelle Valli Bolognesi", luglio 2022


lunedì 3 gennaio 2022

PASCUTTI, IL CAMPIONE CHE ARRIVAVA IN ANTICIPO

 


Ala sinistra rapida e imprevedibile, 130 reti in 294 partite con la maglia del Bologna che non lasciò mai. In Bologna-Inter del ’66 segnò di testa la rete iconica che beffò il grande Tarcisio Burgnich

di Marco Tarozzi

BOLOGNA

Certi giorni sono tristi anche con il sole a picco. C’era un cielo limpido il 4 gennaio di cinque anni fa, quando se ne andò il grande Ezio. Uno che è stato qualcosa di speciale per questa città, per gli innamorati del Bologna e non solo per loro. Un nome che ancora oggi, quando arriva il momento di recitare a memoria la squadra dell’ultimo scudetto, arriva secco come una fucilata: Pascutti. Anche se il destino gli negò la gioia più grande, quella di calpestare l’erba dell’Olimpico il giorno dello spareggio. Ezio non c’era, quel pomeriggio del 7 giugno 1964, ma c’era stato e c’era, per tutti.

GOL LEGGENDARIO. Quando si dice il destino. Cinque anni oggi che Ezio se ne è andato, e dopodomani è in cartellone Bologna-Inter, la partita del suo gol più iconico. Un lampo anche quello, e per fortuna quel 12 dicembre del ’66 a immortalarlo ci pensò un grande fotografo come Maurizio Parenti.
Perché le foto fanno la storia più dei gesti, afferma Oliviero Toscani, e forse anche Ezione sarebbe d’accordo. In fondo, quella zuccata di rapina, infilandosi a sorpresa sotto il corpo di Burgnich ed eludendone il controllo, non lo ha mai considerato il suo gol più bello. Se glielo chiedevi, lui senza esitazioni sceglieva quello del 7 febbraio ’65, contro il Genoa, tra l’altro il centesimo in maglia rossoblù: cross a rientrare, dal fondo, di Maraschi, Ezio si tuffa al limite dell'area e infila il pallone all'incrocio dei pali. Praticamente perfetto. Solo che quella volta non c’era nessuno a fermare l’attimo.

SEMPRE IN ANTICIPO. Però in quel gol all’Inter c’è tutto Pascutti. Tutto quello che era in campo: rapido, inaspettato, imprevedibile. Sempre quell’attimo in anticipo su tutti. Tanto avanti che all’inizio sembrava quasi fuori tempo, e i tifosi ci misero un po’ a capire che razza di campione si era assicurato Dall’Ara. Anche perché la ricostruzione del presidente, dalla metà degli anni Cinquanta, non si fondò sulla rincorsa di campioni costosissimi e di nomi altisonanti, ma sulla capacità di arrivare per primo a scovare talenti in sboccio. Fu così per Pascutti, che arrivò a Bologna insieme a un altro talento fermato tragicamente dal destino, il centravanti Leskovic che morì giovanissimo prima di esordire in prima squadra. Fu così per Fogli, Tumburus, Pavinato, Furlanis, Perani. Quelli che poi avrebbero fatto l’impresa.

I CONSIGLI DI ENEA. Infanzia dura, di quelle che temprano. Papà falegname, mamma bidella. Due fratelli più grandi che la vita allontanò presto. Enea, il maggiore, era emigrato in Canada quando Ezio aveva undici anni. Tornò in tempo per vederlo calciatore professionista, per dargli consigli (“Impara a calciare di sinistro, ragazzino, che in Italia dopo Carapellese non è più nata un'ala sinistra degna di questo nome”). Ma un male vigliacco lo portò via a nemmeno quarant'anni. Paride invece era uscito sfibrato dalla guerra e dalla prigionia in Germania, l’ombra di quello che era. Ezio crebbe forgiando un carattere spigoloso, una rabbia che poi avrebbe riversato in campo buttandosi tra le gambe dei difensori, senza paura. Il coraggio di chi ha raggiunto un grande traguardo, ma sa che la vita ti dà e ti prende, senza preavviso.


VOLUTO DA GIPO. Fu Gipo Viani a volerlo a Bologna, quando ancora ragazzo aveva indossato soltanto le maglie del Pozzuolo e del Torviscosa. Arrivò nella stagione 1954-55, ad appena diciassette anni. Non avrebbe più indossato altri colori, soltanto il rosso e il blu.

Una volta compreso quel suo essere in anticipo su tutti, e la sua generosità, la piazza ne fece un idolo. Quello che segnava gol a raffica, e senza battere lo straccio di un rigore. Quello che ci metteva carattere e orgoglio, roba che a volte ti frega. A lui capitò in Nazionale, per esempio, con quell’espulsione del 13 ottobre del ’63, rimediata contro un mastino incattivito di nome Dubinski che gliene aveva fatte di tutti i colori, ma soprattutto contro l’Urss, a Mosca, il che fece di un fallo di reazione un caso politico, con tanto di interrogazione parlamentare. Una persecuzione da cui si salvò in qualche modo grazie all’amore protettivo dei bolognesi.

IL MONITO DI SCHIAVIO. E infatti non lo piegarono la politica, le accuse della stampa o i fischi con cui a lungo venne accolto in ogni stadio per quell’episodio. Semmai furono gli infortuni a fargli dire basta, nell’estate del 1969. Dopo cinque operazioni alle ginocchia, che poi lo avrebbero tormentato fino agli ultimi giorni. Ma anche con una storia da eroe rossoblù alle spalle: lo scudetto del ’64, vissuto da protagonista anche senza la soddisfazione dello spareggio, 130 reti segnate in 294 partite con la maglia del Bologna. Quella che proprio nel 1966 avrebbe addirittura potuto togliersi.
Dopo il maledetto Mondiale d’Inghilterra, Ezio stava per fare le valigie. In ballo c’era una serie di scambi: Gigi Riva all’Inter, che poi lo avrebbe girato al Bologna in cambio di Pascutti, una fissa di Helenio Herrera. Con l’affare già ben avviato, arrivò la voce imperiosa del grande ex, Angelo Schiavio. “Pascutti non si tocca”, consigliò alla dirigenza rossoblù. E Pascutti restò dov’era.

LE STRADE DEL CAMPIONE. Avrebbe chiuso la carriera da professionista strapagato, a Milano. L’ha chiusa da icona a Bologna, destinata a diventare la sua città. Che gli ha dato, e a cui lui ha dato tanto. Che nel 2004 si è ricordata di questo friulano diventato più bolognese di tanti che qui sono nati, premiandolo con la Turrita d'Oro. A lui, che ha saputo onorarla più di chiunque altro.
Sì, sono cinque anni che non vediamo più Ezio camminare nel suo triangolo di strade, tra Riva Reno, San Felice e Lame. La sua “comfort zone”, si direbbe oggi, più prosaicamente quell’angolo di città che sentiva più suo e in cui trascinava un passo ferito da mille battaglie del pallone. Cinque anni che non possiamo fermarci a fare quattro chiacchiere con un vecchio amico che non viveva di rimpianti, ma sorrideva orgoglioso quando qualcuno gli ricordava quello che è stato per Bologna e per il Bologna. Ed erano in tanti, a ricordarglielo. Che lui era stato “l’ala sinistra”, che uno così noi non lo vedremo mai più.

"Più Stadio", Stadio-Corriere dello Sport, 4 gennaio 2022