giovedì 17 giugno 2021

ANNIVERSARIO

 


Un vero amico non se ne va mai via per sempre.


lunedì 14 giugno 2021

L'UOMO DEL DESTINO

 


di Marco Tarozzi
BOLOGNA

Pace in testa, fuoco nel cuore. Dove l’avevamo già sentita, questa frase? Ma sì, è facile: in fondo sono passati appena due anni e un mese, anche se tutto quello che è successo in mezzo, nello sport e nella vita, allunga i tempi del ricordo.
Anversa, Final Four di Basketball Champions League. E subito la seconda domanda, legittima: che c’entra, che senso ha tirare fuori l’ultima festa europea il giorno dopo che la Virtus ha messo le mani sullo scudetto, dopo vent’anni passati a ricordare (quasi sempre rimpiangere) il passato?

ANIMO SERENO. Pace in testa, fuoco nel cuore. In quei giorni freddi di una primavera che sembrava autunno, la Virtus cercava di ritrovare rispetto e considerazione in Europa, ma non si affacciava a quell’atto finale da favorita. Veniva da una stagione complicata, era fuori dai giochi per lo scudetto, intorno sentiva venti di amarezza e delusione. Fu in quei momenti che il timoniere, Sasha Djordjevic, si inventò quella frase memorabile. Non una semplice boutade, ma una vera lezione di vita ai suoi uomini. Per vincere serve un cuore grande, che non si inchiodi davanti alle prime difficoltà, e contemporaneamente serve una testa liberata da tutti i pensieri, una leggerezza da portare dentro al campo insieme alla fame agonistica. In una parola, bisogna avere l’animo sereno.
Quelle parole cambiarono il corso degli eventi. E noi che eravamo lì, che vivevamo la squadra ora dopo ora, intuimmo il cambiamento e ci lasciammo coinvolgere. Si andava davvero tutti nella stessa direzione. Gli sguardi, le parole spese con parsimonia e nei momenti giusti, la semplice voglia di essere dentro a qualcosa di grande e meritato: tutto sembrava annunciare quel finale che poi, puntualmente, arrivò.

GIOCO DI SQUADRA. Come allora, certamente più di allora, anche questa volta il viaggio non ha attraversato soltanto mari tranquilli. La pandemia ha lasciato il segno anche qui, come nelle nostre vite che non saranno più le stesse. Ha svuotato i palazzi del basket, ha frenato e accelerato i ritmi della stagione, spesso stravolgendo il campionato, ha trasformato i campi amici in campi neutri, annullando il fattore “casa” in molte occasioni. Il 7 dicembre, dopo la sconfitta con Sassari, Sasha Djordjevic non era più l’allenatore della Virtus. Come in un deja vu di storie accadute vent’anni prima, dopo un’altra giornata movimentata era di nuovo al suo posto, con una certezza in più da spendere: la squadra. Gli uomini in cui lui credeva e crede, credevano in lui.

GIORNI DIFFICILI. Lo scudetto numero 16 è il capolavoro finale, ma nel tragitto questo gruppo ha lasciato segni indelebili. Si può anche cadere in una semifinale europea, ma farlo dopo diciannove vittorie in fila è un messaggio chiaro, quello di una squadra e di una società che hanno ritrovato stima e riconoscimenti anche a livello continentale. Djordjevic ne ha sentite tante, camminando coi suoi ragazzi verso la sfida finale con Milano. I “social” a volte sono una roba pessima, ce lo ricordava Umberto Eco. Nei bar dello sport era diventato l’incompetente, quello che non reggeva più il timone, destinato a farsi divorare in un playoff abitato da allenatori con il quadro comandi ben piazzato davanti agli occhi. Lui ha reagito alla sua maniera: chiudendosi in palestra con i suoi ragazzi e le sue certezze, restituendo alla squadra la fiducia che dalla squadra ha sempre ricevuto. Liberando la testa e facendo pompare il cuore.

LA GENTE GIUSTA. Anche quando arrivò Teodosic, splendido sforzo anche economico di una società che non si è tirata indietro pur di tornare ai vertici, qualcuno azzardò che sì, d’accordo il campione e il talento, ma l’età mica si può nascondere. Ma Djordjevic sapeva cosa chiedere a Milos, lo conosceva bene da prima di tutti noi, e ha saputo convincerlo a scegliere Bologna e la Virtus. E quell’arrivo ha aperto la strada a tutti quelli che sono venuti dopo, perché anche in giro per il mondo agenti e giocatori hanno capito che la Virtus stava tornando un porto felice.
Anche quando si è unito alla truppa Marco Belinelli, per chiudere meravigliosamente il cerchio là dove tutto era iniziato, a qualcuno è scappato un sorriso sentendolo affermare che “torno per vincere ancora, a casa mia”. Djordjevic sapeva cosa poteva aspettarsi da un campione che non era tornato per svernare.
Anche quando Alessandro Pajola è stato nominato Mvp della serie, protagonista assoluto della finale, Djordjevic ha accennato un sorriso. Quel ragazzo che nel 2015 si sistemava il letto nella foresteria di via di Corticella ha saputo incanalare il suo talento. Lo deve a gente come Alessandro Ramagli, che lo gettò nella mischia sui parquet della Serie A2 (e a lui anche la Virtus deve tanto, l’uscita dalle sabbie mobili che le ha permesso di riprendere il volo), e come Alexsandar Djordjevic, che non ha paura di dargli le chiavi della macchina nel momento più rovente. Chissà, magari è il nome di battesimo in comune che fa legare tra loro le persone…

PAROLE MAGICHE. Pace in testa, fuoco nel cuore. Vivendo il presente, chiudendo nell’armadio un passato che qualche cicatrice deve pur averla lasciata, senza farsi troppe domande su un futuro che è già alle porte. Non adesso, non in questi attimi costruiti con passione e determinazione con un gruppo fidato, che lo seguirebbe ovunque. Non adesso, che è il momento di festeggiare. Perché la Virtus, insieme al suo popolo, è uscita di colpo dai suoi ricordi, dalle sue nostalgie. Il passato, adesso lo sfoglierà senza rimpianti. Il presente è tutta questa Italia dei canestri di nuovo ai suoi piedi. Come diceva l’avvocato Porelli, “di scudetti basta vincerne uno ogni tre-quattro anni”. Stavolta c’è voluto più tempo. E c’è voluto un manovratore che ha trovato la formula in sei parole magiche.

(Più Stadio, Stadio-Corriere dello Sport, 13 giugno 2021)