mercoledì 28 novembre 2012

L'ENIGMA DI TURING




di Marco Tarozzi

Questa è la storia di un genio. Nato esattamente cent’anni fa, ma in incredibile anticipo sui tempi. Di uno studioso borderline, fuori dagli schemi, capace di guizzi inarrivabili e di dolorose solitudini. Di un visionario guidato dalla logica che ebbe chiaro, tra le mani, in mente, il concetto di computer molto tempo prima che diventasse realtà. Di un uomo solitario per scelta e alla fine emarginato dalla società, perseguitato dal suo stesso Paese a cui aveva reso un servizio che gli avrebbe dovuto valere riconoscenza eterna. Questa è (anche) la storia di un maratoneta. Per passione, per convinzione. Non un amatore della domenica: un uomo di scienza avvolto da progetti e impegni ma capace, nel 1947, di correre la sua seconda maratona in 2:46:03 e di coltivare un sogno olimpico, che avrebbe potuto trasformarsi in realtà se proprio nell’anno dei Giochi di Londra, quelli del ritorno alla normalità dopo le devastazioni della guerra, non fossero insorti problemi fisici che deviarono nuovamente la gran parte delle sue forze verso la ricerca scientifica.

Questa è la storia di Alan Mathison Turing. Il padre riconosciuto del computer. Un uomo che ci ha cambiato la vita. Talento puro, unico. Diverso. Un secolo dopo, è più fresca e viva che mai.


IN ANTICIPO SUI TEMPI
 
Alan Turing era un matematico. Uno dei più grandi del suo tempo. Ma per qualcuno doveva apparire quasi un visionario, quando nella primavera del 1936 si entusiasmava per quell’idea così rivoluzionaria che avrebbe aperto la strada al mondo moderno e alle sue conquiste cibernetiche: immaginava, Turing, che le macchine potessero pensare.

Lo scrisse, giovane ricercatore al King’s College di Cambridge dove era diventato fellow, dottorando, appena due anni prima, in un articolo che scosse la comunità scientifica internazionale. E inseguì per tutta la sua vita, breve e travagliata, quell’intuizione, lasciandoci in eredità con gli studi sulla “macchina di Turing” il moderno concetto di computer, così come lo intendiamo oggi.

Alan Turing era un uomo schivo, eccentrico. Un genio che stupiva senza volerlo, e talvolta imbarazzava. Come quando si presentava a lezione in pigiama, e comunque sempre trasandato e trasognato. O come quando andava a giocare a tennis coperto soltanto da un impermeabile. Comportamenti che all’inizio avevano addirittura spiazzato i suoi stessi insegnanti: prima del King’s College, ai tempi del liceo, quando la pulsione per le materie scientifiche era tale da fargli quasi dimenticare l’importanza di quelle letterarie, il preside della scuola in cui si diplomò arrivò a scrivere che era “il tipo di ragazzo condannato a rappresentare un problema in ogni tipo di scuola e comunità”.

Era strano, Turing. Non sempre decifrabile. Ma aveva addosso una pulsione per la libertà che lo portò a diventare un eroe di guerra, seppure dietro le quinte. Durante il dottorato di ricerca alla prestigiosa università di Princeton, guadagnato grazie alla sua intuizione, vedeva passare per i corridoi mostri sacri come Einstein, Von Neumann, Church, Weyl. Ma la maggior parte del tempo preferiva passarla chiuso nella sua stanza, a perfezionare una nuova e misteriosa macchinetta che avrebbe contribuito in maniera determinante, di lì a qualche anno, a cambiare le sorti della guerra e a spazzare via la minaccia del nazismo. Negli States, Turing sviluppò una passione e un’avversione: la prima nei confronti dei codici segreti da decrittare, la seconda verso il nazismo, che con lugimiranza considerava un crimine per l’umanità. Tornato in patria nel 1938, offrì il suo genio alla Government Code and Chiper School che stava battendosi per evitare al mondo di andare verso la catastrofe. Il problema da risolvere si chiamava Enigma: all’apparenza un’innocua macchina da scrivere, nata per scopi tutt’altro che bellici e fatta propria dai servizi segreti tedeschi perché permetteva alle forze dell’Asse di scambiarsi messaggi cifrati che nessuno avrebbe potuto comprendere e tradurre. Miliardi e miliardi di combinazioni: un’impresa impossibile.

 
UN EROE PERSEGUITATO

Per tutti, pensavano i tedeschi. Che non conoscevano Alan Turing. Con i suoi collaboratori, chiuso in una villetta di Bletchey Park, a un’ottantina di chilometri da Londra, partecipò alla più grande impresa di spionaggio della storia: costruì prima la “Bomba”, che già nel ’40 leggeva tutto il traffico segreto della Lutwaffe, poi un enorme colosso elettromeccanico chiamato “Colossus”, che nel ’43 fece prendere al conflitto mondiale una piega diversa, snidando soprattutto i “branchi di lupi”, i terribili sottomarini che tenevano sotto scacco le imbarcazioni alleate. Alla fine della guerra gli fu conferito l’Ordine dell’Impero Britannico in gran segreto, come segreta era stata la sua missione. Che Turing fosse stato un eroe la gente l’avrebbe saputo soltanto trent’anni dopo. E quel suo lavoro decisivo per le sorti del mondo occidentale non gli rese la vita più facile. Né gliela salvò.

Alan Turing era omosessuale. In un Paese, l’Inghilterra, che nel dopoguerra faceva ancora rispettare le stesse leggi che avevano portato in carcere Oscar Wilde. Lui ci finì dentro per un banale incidente: dopo aver denunciato due ladruncoli che erano entrati in casa sua, saltò fuori che con uno di loro aveva avuto rapporti sessuali. Fu imprigionato il 31 marzo 1952 per “atti osceni gravi” e solo il suo status di insigne scienziato e di eroe di guerra gli evitò il carcere duro. In cambio, dovette assoggettarsi a un trattamento ormonale che lo avrebbe reso impotente. Un “bombardamento” che ne minò le capacità fisiche e quelle mentali, mandandolo in depressione. Stanco, vessato dai pregiudizi e controllato dai servizi segreti, perché il suo passato al servizio dell’Inghilterra lo rendeva “scomodo” portatore di verità nascoste, Turing si isolò e preparò la propria uscita di scena. Teatrale, perché il teatro era sempre stata, fin dagli anni di studi a Cambridge, una passione. Amava la storia di Biancaneve, spesso si era fatto sorprendere mentre canticchiava il motivo della scena in cui la strega convince la principessa a mordere la mela. E decise di farla finita in quel modo: intingendo una mela nel cianuro e addentandola. Aveva quarantadue anni da compiere. Aveva fatto fare al mondo un cambio di marcia.

Anni dopo, qualcuno ha pensato che il logo scelto da Steve Jobs per la sua azienda destinata a diventare un’icona della modernità fosse un omaggio silenzioso ad Alan Turing. Storia o leggenda? Il guru di Apple, a quanto si dice, avvalorò la seconda ipotesi: “Non è vero, ma Dio, come vorrei che lo fosse”. A suo modo, comunque un omaggio.
 
 

 UN CUORE DA RUNNER

Alan Turing, infine, è stato un ottimo maratoneta. Per un breve periodo, ma mettendo nella corsa la stessa dedizione che metteva nelle sue ricerche, nei suoi progetti, nelle sue intuizioni. E scalando le graduatorie della specialità, in Inghilterra.

Aveva iniziato da ragazzo. Gli piaceva lo sport. Canottaggio, ciclismo, soprattutto corsa. Aveva praticato il running con buoni risultati, a Sherbourne, di solito quando il maltempo costringeva a cancellare le partite di calcio. Poi aveva abbandonato durante gli anni universitari a Cambridge, riprendendo con convinzione dopo la laurea. Uno dei suoi territori d’allenamento abituali era la strada che portava da Cambridge ad Ely, una cinquantina di chilometri tra andata e ritorno. Roba da maratoneti, appunto.

Bletchey, dimora da lui stesso definita “terrificante” e “orrenda”, non doveva essere il luogo adatto per tenere acceso il fuoco della passione. Ma nell’immediato dopoguerra Alan approdò al National Phisical Laboratory, dove con i mezzi messigli a disposizione si dedicò per qualche anno alla costruzione della sua macchina universale progettando un vero e proprio computer, l’Ace (Automatic Computer Engine). Ma i tempi di Bletchey Park erano ormai finiti, e Turing trovò intorno a sé scarso interesse e ancor meno collaborazione.

Fu in quel tempo, stressato dal lavoro e deluso dall’indifferenza, che riprese a coltivare la passione per la corsa. E fu in quei luoghi che fu notato dai futuri compagni del Walton Athletic Club, una società che aveva sede a Walton, nel Surrey. Un sobborgo a sud-ovest di Londra, non lontano dal luogo di lavoro dello scienziato.

“Più che vederlo arrivare, lo sentivamo”, ricordava l’allora segretario della società, JF Harding. “Faceva un rumore terribile, una specie di grugnito, quando correva, ma prima ancora che potessimo rivolgergli la parola ci aveva raggiunto e superato come un proiettile. Così una sera gli chiedemmo per chi corresse, e quando sapemmo che non era tesserato lo invitammo ad unirsi a noi. Lo fece e divenne il nostro miglior runner”.

Il mensile “Athletic”, poi destinato a diventare “Athletics Weekly”, lo menziona per la prima volta nell’agosto del 1946, quando vince la gara sociale del Walton sulle tre miglia. In 15:37:8, tempo niente male per un atleta trentaquattrenne praticamente debuttante, perché alle prime vere sfide con il cronometro. A fine ottobre Turing rispunta con un terzo posto, sempre nelle tre miglia, durante una sfida Walton-Thames Valley-Harriers Woodford Green a Cranford, a soli sei secondi dal vincitore Alec Olney, di dieci anni più giovane, destinato a correre i 5000 metri alle Olimpiadi di Londra.

Poi un autunno e un inverno passati a raccogliere buoni piazzamenti, improvvisamente riconosciuto dalla rivista “Athletic” che spiega che l’atleta del Walton è “lo stesso dottor Turing che ha creato la “macchina che pensa”.

“Non avevamo idea di chi fosse quando lo invitammo nella società, né di che grande uomo si trattasse. Non lo realizzammo finché non saltò fuori la faccenda di Enigma. E non sapevamo dove lavorasse, fino al giorno in cui ci chiese se i ragazzi di Walton avessero voglia di giocare una partita di calcio con quelli del National Phisical Laboratory. Era molto amato dai ragazzi, un leader silenzioso perché comunque non era uno di loro. Ma la volta che affrontammo la nostra prima trasferta a Nijmgen, in Olanda, e lui era impossibilitato a venire, mi consegnò cinque sterline, all’epoca una bella somma, dicendomi di comprare ai ragazzi qualcosa da bere da parte sua”.

 
UN MARATONETA SPECIALE

Nel 1947 Turing allunga decisamente le distanze. Secondo alle spalle di Peter Dainty, ufficiale della Raf ed atleta di spessore internazionale prima della guerra, in una gara di dieci miglia organizzata dal suo club ad aprile; terzo a maggio in una 20 miglia a Kent, a circa quattro minuti dal vincitore Ron Marley.

Già sta progettando, alla sua maniera, da logico matematico, il debutto in maratona. Che arriva il 12 luglio a Rugby: quarto posto in 3:01:23 nella gara vinta dal gallese Tommy Richards, futuro argento olimpico un anno dopo, in 2:43:03.

A fine agosto, a Loughborough, è in prima fila alla partenza della maratona valida per il titolo nazionale, dove finisce quinto migliorandosi di oltre un quarto d’ora, con il fantastico tempo di 2:46:03. La vittoria va a Jack Holden degli Harriers Tipton, anche lui destinato a correre la 42 chilometri olimpica nel 1948.

Per farla semplice: con un risultato per quei tempi fantastico, Turing è uno dei nomi che circolano per la squadra di maratona delle Olimpiadi della rinascita. A fine anno nelle graduatorie AAA compilate da Jack Crump, dirigente della British Amateur Athletic, il nome di Alan Turing è al nono posto. Fuori di un soffio dalla lista provvisoria dei “probabili olimpici”.

Ad aprile dell’anno olimpico, Alan corre la 15 miglia di Wigmore e chiude a nove minuti dal vincitore. Ma non torna ad affrontare una 42 chilometri, anche per sopravvenuti problemi fisici, e questo di fatto gli pregiudica una eventuale chiamata olimpica: nella lista degli “osservati speciali”, nei mesi di vigilia dell’evento, era finito comunque anche lui. E a Londra il tempo del vincitore, l’outsider argentino Delfo Cabrera, sarà appena undici minuti inferiore a quello di Turing. L’idea è che un runner che alla sua seconda maratona corre in 2:46:03 abbia notevoli margini di miglioramento. Nel caso di Turing l’età poteva essere un handicap, ma la determinazione era enorme: “un giorno gli chiesi perché si allenasse così duramente”, è sempre il ricordo di Harding, dirigente del Walton Athletic Club. “Mi rispose: ho un lavoro stressante, l’unico modo per non pensarci e liberare la mente è lavorare duro anche in campo”.

 

 
DAL SOGNO ALL’INCUBO

Alan Turing avrebbe continuato a gareggiare fino al 1950. A ritmi meno esasperati, perché gli infortunii (dovuti anche ad uno stile di corsa parecchio dispendioso) non lo avrebbero mai più abbandonato del tutto. Chiuse con la corsa dopo aver dato tutto, trasmettendo nel gesto sportivo le sue caratteristiche vitali: logica rigorosa, attenzione ai dettagli, capacità di costruire e portare avanti un progetto vedendone l’approdo, ma anche colpi di genio improvvisi che spiazzavano interlocutori e, in gara, avversari.

Finita la parentesi atletica, Alan sprofondò nella vergogna indotta da un’Inghilterra puritana e pronta a puntare il dito contro il diverso. A questa gogna non si sottrasse, nonostante non avesse mai ostentato la sua scelta.

“Noi della squadra non sapevamo che fosse gay. Nessun sentore, lui non lo lasciava trasparire. In spogliatoio c’erano sempre una trentina di giovani, lui non ne ha mai avvicinato uno, mai nemmeno invitato uno di noi a bere un drink. L’unica cosa che avrebbe potuto insospettirci fu un’uscita di gruppo nella quale andammo tutti insieme al teatro Prince of Wales. Era pieno di ballerine, e tutti i ragazzi avevano lo sguardo fuori dalle orbite e una certa agitazione addosso. Mi voltai verso Alan e vidi che stava dormendo…”

Sarebbe una storia divertente, per colorare un lieto fine. Invece quei tempi spensierati e felici della corsa erano già un ricordo appena due anni dopo, quando l’uomo che aveva salvato l’Occidente e aperto la coscienza della gente lottava contro l’oscurantismo, conosceva la prigione, accettava un trattamento micidiale che ne avrebbe vinto il carattere forte.

Alan Turing aveva ancora molto da dare. Negli ultimi tempi aveva allargato la sua ricerca a studi di neurologia, fisiologia e biologia. Era convinto che entro il 2000 i computer avrebbero potuto replicare completamente il funzionamento del cervello umano. Aveva un passo mentale che lo faceva vivere in vantaggio sui tempi. Ma fu punito per quel suo essere diverso, perché la sua nazione viaggiava, al contrario, molto indietro rispetto ai suoi tempi. Proprio quest’anno, in occasione del centenario della nascita, il primo ministro inglese Cameron gli ha rivolto le scuse ufficiali dell’intero Paese. Ma lui non c’è più da tempo. Per scelta o, come dicono certe teorie del complotto, per decisione di altri, perché certi segreti dei tempi della guerra avrebbero potuto accendergli un desiderio di vendetta. Per dirla semplice: qualcuno vede un omicidio dove è stato registrato un suicidio.

Ma ormai sono passati troppi anni da quel morso alla mela e da quella fine tragica. Noi sappiamo solo che in un giorno di giugno del ’54 se ne andò una delle più grandi menti del Ventesimo secolo. Avrebbe compiuto 42 anni pochi giorni dopo. Quarantadue. Come i chilometri di una maratona.
 
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QUEL TEST CHE ISPIRO’ BLADE RUNNER
Della grande eredità che Alan Turing ha lasciato all’umanità, esplorando il campo delle intelligenze artificiali, la più nota è certamente il test che porta il suo nome. Il “test di Turing” apparve nel 1950 sulla rivista Mind, stabilendo un criterio preciso per stabilire se una qualsiasi macchina potesse essere definita “pensante”. L’idea è semplice e perfetta: tre persone, in tre diverse stanze; le prime due (A e B) sono un uomo e una donna, la terza (che chiameremo C) è lì per stabilire, attraverso risposte dattiloscritte, chi delle altre sia l’uomo e chi la donna. In un secondo esperimento, una delle prime due persone viene sostituita da una macchina: se le conclusioni di C sono statisticamente identiche a quelle della situazione precedente, significa che la macchina può essere considerata “pensante”.
Ad oggi, nessuna macchina ha superato in maniera esauriente il “test di Turing”, che nel tempo è stato modificato e aggiornato. Ma l’idea resta piena di fascino, e c’è chi l’ha usata anche nella finzione cinematografica. Dice niente l’interrogatorio, fatto di domande apparentemente banali, cui il replicante Leon Kowalski (impersonato dall’attore Brion Howard James) viene sottoposto da Rick Deckard (Harrison Ford) che vuole capire se si tratti di un uomo o di un robot, nel film-culto Blade Runner di Ridley Scott? Non c’è tanto delle idee di Turing in quella scena?
 
Runner's World, novembre 2012

domenica 21 ottobre 2012

TERZO TEMPO - Un pallone per ripartire




di Marco Tarozzi

Pensare al calcio quando intorno c’è da ricostruire quasi tutto. Assurdità. Spreco di tempo ed energie. Ma sì, liberi di pensare anche questo, se vi piace. Perché su quelle terre lì, a due passi da casa nostra, è passato un terremoto e ha spazzato via muri, storia, speranze. Vale la pena di preoccuparsi per un campionato, minore per giunta, che rischia di non ripartire?
Vale eccome, l’idea dei ragazzi dell’ “Hic Sunt Leones Football antirazzista” di Bologna. Perché ci regala un attimo di normalità, un vento di serenità in una situazione che è ancora lontana dall’essere normale e serena. Loro hanno adottato una squadra, ecco tutto. Hanno aderito al progetto “Senza campionato mai” dell’Uisp nazionale e si sono ricordati di quei ragazzi. Quelli della “5 Ponti Canaletto” di Massa Finalese, una frazione di Finale Emilia. Erano andati lì pochi giorni dopo le prime scosse, annusando incertezza e paura, cercando di portare sostegno, e qualche sorriso ai bambini organizzando attività ludico-sportive. Avevano visto i campi inagibili, quello “della domenica” occupato dalla tendopoli di chi aveva perso tutto. Ed erano partiti da una donazione, un sostegno economico. Gesto enorme per una squadra fatta da migranti, studenti universitari, lavoratori precari. Non gli è bastato, perché ormai tra quella gente avevano trovato amici, legami.
Così gli “Hic Sunt Leones” hanno portato i fratelli di Massa Finalese sui loro campi, per giocare un’amichevole dove il terzo tempo ha contato più dei due tempi di gioco. Fratelli, finalmente e veramente. Non finirà qui, ormai è chiaro. “Anche se per noi era già un impegno, ci sembrava sterile portare un pugno di euro e andarcene”, spiega Roberto Terra, allenatore e (sempre meno) giocatore dei Leoni bolognesi. “Così abbiamo scelto di passare del tempo insieme, di dare una mano provando a sviluppare un progetto concreto di sostegno”. Coinvolgendo le altre squadre che in Italia hanno scelto di “adottare” società delle zone terremotate, come il San Precario di Padova e la polisportiva Assata Shakur di Ancona. “A metà ottobre ci rivedremo, insieme costruiremo qualcosa. Andremo avanti. Quello che è successo nelle terre colpite dal terremoto poteva capitare a noi”.
Ecco, pensare a un campionato da far ripartire, al pallone, allo sport significa esattamente questo. Per la gente di Finale è un “dopoguerra” difficile: ripartire dalle cose normali, da un calcio senza rabbia o vizi, riaccende il canale della speranza. E’ il messaggio dei Leoni, e ce lo teniamo stretto come un dono prezioso.

Piazza Grande, ottobre 2012

mercoledì 17 ottobre 2012

ASSENZE


Universidad de la Calle, ma una cultura che ciao, averne...
Tra via Lomella e il bar Gattuso, l’ippodromo e San Siro. A raccattar storie folli, strampalate, umanissime, disperate e piene di ironia.
Trent’anni esatti che ha chiuso l’Ufficio Facce. All’improvviso. E manchi sempre, Beppeviola…

venerdì 12 ottobre 2012

HALLER, BRASILIANO DI GERMANIA

L'ultima volta che intervistai Helmut. Per "La Voce del Campione", il libro con le interviste a 25 grandi stelle dello sport a Bologna. Era il 2007. Non chiamai Giacomino perché sapevamo tutti come stava e non volli disturbarlo. Anche Haller aveva avuto problemi notevoli di salute. Provava a riprendersi, e fu gentilissimo. Disse che quando lo chiamava qualcuno da Bologna era contento, perché gli riportava alla mente anni felici.
Ciao campione, eri la fantasia nel calcio...

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di Marco Tarozzi
 
Più di quarant'anni dopo, il vecchio ragazzo di Augsburg ha ancora nella memoria, nitidissimi, quei primi istanti della sua avventura bolognese. La città così nuova e così impossibile da capire in quella prima camminata di studio, durata pochi minuti. Più di quarant'anni dopo, Helmut Haller ha ancora un filo di allegria nella voce, mentre accende il canale dei ricordi.

 “Arrivai in treno dalla Germania, scesi in stazione e c'era Lele Sansone ad attendermi. Mi portò nella mia nuova casa, in via Amendola, e la mia prima passeggiata bolognese finì lì, più o meno trecento metri. Non si può dire che sia stata molto approfondita”.

Il tempo, del resto, non sarebbe mancato. Sei lunghi anni, passati a coltivare un amore che avrebbe resistito nel tempo, a giocare in Paradiso e ad alta quota, a regalare emozioni con quello stile divertente e divertito, da sudamericano più che da tedesco.

“Il problema, appunto, è che sono passati tutti questi anni dalla prima partita che giocai con la maglia rossoblù addosso. Il tempo vola, purtroppo. Era l'estate del '62, di lì a poco avrei iniziato il mio primo campionato italiano, stagione '62-63, e ci misi poco a capire che quel gruppo sarebbe andato lontano. Ero un ragazzino, ventitrè anni appena compiuti. Sansone mi aveva notato durante una partita della Nazionale tedesca contro l'Uruguay, in cui avevo fatto davvero ottime cose. Si era segnato il mio nome e al ritorno a Bologna aveva tanto detto e tanto fatto da far innamorare il presidente Dall'Ara”.

Già, il presidente. Il primo cittadino rossoblù, e anche il primo a invaghirsi di quel ragazzo tedesco che in campo si divertiva a far impazzire i diretti avversari, e quando proprio voleva strafare li metteva direttamente a sedere, ubriachi di finte e di dribbling. Brasiliano di Germania, appunto.

“Forse aveva ragione Italo Cucci, che una volta scrisse su “Stadio” che il sottoscritto era un napoletano nato per pura combinazione nel Nord Europa. Beh, io a fare amicizia con la gente ci mettevo davvero poco. E con Dall'Ara fu una specie di colpo di fulmine, per entrambi. Lui venne a vedermi tre volte in Germania, e in un paio di occasioni gli capitarono anche incidenti con l'auto sulla via del ritorno. L'ultima volta fu storica: avevamo chiuso da poche ore il contratto che mi legava al Bologna, Dall'Ara uscì dalla macchina ammaccata e gli chiesero se andava tutto bene. Nessun problema, rispose lui, il contratto di Haller non è andato perduto e questa è la cosa più importante. Era favoloso, Dall'Ara. E' vero che mi aveva preso a ben volere, ma le stesse attenzioni le aveva per Nielsen, per lo stesso Demarco. Nei confronti degli stranieri aveva la sensibilità di chi non vuole farti sentire la nostalgia di casa. Se ne andò troppo presto, non fece in tempo a vedere il capolavoro di Roma, ad accarezzare quello scudetto che era suo. Ma all'Olimpico giocammo davvero pensando a quello che aveva fatto per noi, e fu una forza in più, come se lui ci guidasse in campo”.

Il settimo sigillo, l'ultimo. E per molti è come se il tempo si fosse fermato lì, regalando paragoni scomodi a chi è venuto dopo. “Quella fu davvero una grande squadra, irripetibile credo. Eravamo tutti giovani, ragazzi tra i ventidue e i venticinque anni, e sembrava giocassimo a memoria. Tecnicamente ci superavano in pochi, e poi Bernardini ci dette tantissimo dal punto di vista tattico. Per me, così giovane, fu il massimo arrivare allo scudetto dopo appena due stagioni in Italia. In quel modo, poi, con quello spareggio e tutto il clamore che c'era stato per il presunto caso di doping. Fu emozionante, il più bel momento della mia carriera”.

Dopo nacquero certe storie metropolitane, magari ingigantite ma evidentemente alimentate da “fatti realmente accaduti”. Ma si sa, quando dentro un gruppo ci sono campioni di razza i dualismi diventano un prezzo da pagare. Haller e Nielsen, per esempio.

“Io e Harald avevamo caratteri diversi. Questo l'hanno capito tutti, direi. Ma in campo ci rispettavamo e ci capivamo al volo, poco ma sicuro. Il faro, comunque, era Bulgarelli, che già allora in campo si muoveva da leader riconosciuto. E personalmente ho amato molto il gioco di Fogli. Lui sì che sembrava un brasiliano, quando toccava la palla. Davvero, giocavamo un football formidabile, tecnicamente eccezionale. Ma non ricominciate con quella storia. Io Nielsen non l'ho mai odiato”.

Qualche anno fa, il Bologna si è ritagliato di nuovo un po' di spazio in Europa, anche se i tempi e le ambizioni sono cambiate. D'altra parte, quel Bologna che faceva tremare il mondo non ebbe troppa fortuna europea. “Penso a quelle sfide stregate contro l'Anderlecht. Perdemmo 1-0 a Bruxelles, al ritorno vincevamo 2-0 e loro segnarono il gol del 2-1 nei minuti finali. Andammo a giocarci lo spareggio a Barcellona e ci capitarono non so più quante occasioni. Niente, il pallone non voleva saperne di entrare in porta. Avremmo potuto giocare tre ore in fila e mi sa che saremmo rimasti inchiodati sullo 0-0. Alla fine ci condannò una maledetta moneta. Ma resto convinto che quella squadra, in quegli anni, avrebbe potuto fare strada in Coppa dei Campioni”.

L'antico ragazzo guarda avanti, ma ha ricordi così belli che non può evitare di sfogliarli, ogni tanto. “Ma cerco di evitare troppi paragoni tra il calcio di allora e quello di oggi. Dico solo che adesso è tutto molto più rapido, e la tecnica è un dono sempre più raro. E si gioca troppo, aumentano gli infortuni e non è un caso. Sessanta partite all'anno sono troppe, non ci sono i tempi giusti per il recupero. Noi potevamo giocare tranquillamente fino a trentotto, trentanove anni, ora ci si consuma più in fretta. Del resto, ai miei tempi ci si allenava molto meno. Ma eravamo più eleganti, non vedo più il gusto del dribbling, dell'uno contro uno”. Helmut Haller ci andava matto, e con lui il popolo rossoblù. “Ero molto sentimentale nei confronti del pubblico. Ma con giudizio, s'intende: guardavo sempre prima al risultato, ma se poi si poteva regalare un po' di spettacolo alla gente, perché negarsi?”

Il calcio di oggi regala anche contratti miliardari, impensabili quarant'anni fa. Rimpanti? “E perché? Undici anni d'Italia, tra Bologna e Torino, mi hanno regalato tre scudetti e mi hanno fatto crescere anche come uomo. Ho una scuola calcio, ho allenato i ragazzini, ho fatto lezioni anche a Cuba e in Giappone. Se stai in mezzo ai giovani resti giovane. Beh, a dirla tutta un rammarico ce l'ho: ho pensato per anni a una bella partita con i compagni di allora, magari da giocare in Riviera contro la Nazionale cantanti, per beneficenza, qualcosa di bello che ci accendesse anche il canale dei ricordi. Sì, è un sogno che non sono riuscito ad avverare. Ma le occasioni per girare intorno a Bologna le ho avute, anzi me le sono create. Quando vengo lì è sempre un po' come tornare a casa”.

HELMUT HALLER è nato ad Augsburg, in Germania, il 21 luglio 1939. Regista votato all'attacco, arrivò a Bologna dalla squadra della sua città nel 1962. Restò in rossoblù per sei stagioni, collezionando 179 presenze e 48 reti, e vincendo lo storico settimo scudetto, nel '64. Nel '68 passò alla Juventus, dove avrebbe vinto altri due scudetti nel '72 e nel '73. Con la Nazionale tedesca ha debuttato a 19 anni, nel '58, e ha partecipato a tre Mondiali: Cile '62, Inghilterra '66 (suo il gol d'apertura della finale vinta dagli inglesi), Messico '70.

venerdì 10 agosto 2012

PADRE COLM, IL MAESTRO DI RUDISHA



“Il segreto? Sta nel fatto che tu pensi ci sia un segreto”. No padre Colm, così è troppo facile. Non può essere così che si diventa leggenda, che si coltivano leggende.
Niente da fare. Non lo smuovi, quel missionario irlandese che ha vissuto in Kenia trentasei dei suoi sessantatrè anni, aiutando i ragazzi ad esprimere il loro talento attraverso la corsa.
Pensare che Colm O’Connell era arrivato alla scuola di St. Patrick, a 2400 metri d’altezza, per insegnare geografia. E’ finita che ha insegnato atletica a Peter Rono, il suo primo gioiello, oro a Seul negli 800 metri, e poi a Wilson Kipketer, Matthew Birir, Reuben Kosgei, Ibrahim Hussein, via via fino a questo fenomeno chiamato David Rudisha.
“Avevo ventisei anni, mi appassionava il calcio e dell’atletica avevo una conoscenza da bar”. Ma una cosa, dell’atletica, la capì al volo. La sua forza aggregatrice, la capacità di portare sorrisi a bambini in cerca di serenità. Così, quando Peter Foster, il fratello del grande Brendan, gli chiese di portare avanti un progetto che lui aveva lanciato, non ci pensò due volte. “Non sapevo niente, ho imparato guardando il talento di questi ragazzi”.
E studiando, naturalmente. Perfezionandosi. Diventando coach a tempo pieno e a tutti gli effetti. La prima gioia gliela portò Peter Chumba, oro ai Mondiali juniores dell’86 nei 10mila metri. Ne sono arrivate a decine, dopo. Tutte emozioni forti, tutte indimenticabili.
La missione non è solo quella di insegnare tecnica e tattica di corsa. E’ dare a questi ragazzi una possibilità di riscatto, è costrure campioni senza abbandonare per strada quelli che non arrivano in alto. E’ anche organizzare il dopo, ovvero la gestione del successo e soprattutto dell’inatteso benessere, qualcosa di unico in un paese in cui il reddito medio è di 100 dollari al mese.
Padre O’Connell non si sente un guru: “Ho studiato libri che mi facevo spedire dall’Europa, e ho avuto la fortuna di veder correre questi ragazzi che hanno un dono…”
L’ultimo si chiama David Rudisha, e quel dono lo ha srotolato sulla pista olimpica di Londra. Due anni fa, a Rieti, padre Colm diceva “questo ragazzo è maturo per correre gli 800 metri in cento secondi. Sarà il primo a riuscirci”.
Adesso sappiamo tutti che è la pura verità.





Marco Tarozzi


lunedì 16 luglio 2012

BENSI, IL RAGAZZO CHE ODIAVA IL NUOTO



di Marco Tarozzi

Non gli piaceva, il nuoto. Proprio non lo digeriva. In vita sua, Nicolò Bensi di sport ne aveva masticato parecchio. Undici anni di basket giocato a buoni livelli, tanto motocross con gli amici, una passione per il calcio. Ma il nuoto, lasciamo stare. Meglio non parlarne.

«Stavo a galla, ecco tutto. Ma non mi prendeva. Per me nuotare significava andare a mollo quando il caldo si faceva insopportabile, d’estate».

Questa, però, era l’altra vita. Prima dell’incidente. Quel sabato di settembre del 2004 Nicolò era un ragazzo felice. Aveva 19 anni e due giorni prima aveva superato il test di ammissione alla scuola di fisioterapista. Mentre sognava il futuro, si trovò a fare i conti col presente. Una caduta, proprio su una pista di motocross, gli cambiò di colpo la vita. All’ospedale gli fecero capire che avrebbe dovuto passare tutta la vita su una carrozzina.

«Buio, naturalmente. I primi giorni avevo un senso di spaesamento, più che di rabbia. Il primo passo in avanti lo feci quando mi dissero che per diventare fisioterapista non tutto era perduto. Ne parlai col professor Gasbarrini, lo specialista che mi aveva operato dopo l'incidente. Mi disse: si può fare. E non lo faceva per tenermi su di morale. Ci credeva davvero, cominciò subito a organizzare le cose perché questa strada restasse aperta. Mi riaccese l'entusiasmo».

Nove mesi a Montecatone, per la riabilitazione e per imparare a usare la carrozzina, poi altri cinque persi per un’operazione all’anca. E finalmente la rinascita. La scuola, che lo aveva aspettato, gli riaprì le porte. “Un'emozione, all'inizio. Ma tutti mi hanno aiutato a sentirmi a mio agio. I professori, I compagni. Rotto il ghiaccio, è stato facile”.

Nell’estate del 2009 la storia di Nicolò è diventata di dominio pubblico. In tanti si sono interessati a questo ragazzo, quando è diventato il primo disabile laureato in Fisioterapia in Italia. «Oggi lavoro al centro regionale di Corte Roncati. Mi accorgo di entrare in fretta in empatia coi pazienti. Forse li aiuta sapere che il loro dolore lo conosco, che ci sono passato anch’io. C'è quasi sempre un senso di rabbia, di impotenza quando la vita cambia all'improvviso. Impari che non potrai muoverti con le tue gambe e ti crolla il mondo intorno. A un mio collega che cercava di spronarlo, un ragazzo ha detto: non sai cosa si prova. Poi  mi ha guardato, forse è stato lì lì per dirlo anche a me. Ma non lo ha fatto. Perché si è reso conto che io so benissimo cosa si prova».

Il nuoto è tornato in scena proprio nei giorni della riabilitazione. «Ho visto che in acqua tutto andava meglio, senza la gravità sono come gli altri. Recuperavo fisicamente, la schiena non mi faceva più male. L'ho affrontato sotto un'ottica diversa. E poi, all’improvviso, è scoccata la scintilla».

Passione pura. Cresciuta dentro una società, l’Atletico H, che a Bologna si prodiga per dare opportunità ai suoi atleti. Alimentata da un tecnico preparato come Daniele Naldi. «Un appassionato vero, che sa trasmetterti quello che prova per questa disciplina. Non puoi non sentire quelle vibrazioni. Ora ci sono dentro, coinvolto completamente, e ho raggiunto traguardi che un paio di anni fa nemmeno avrei immaginato».

La finale mondiale dei 50 rana a Eindhoven 2010 , per esempio. Lì, per la prima volta, Nicolò, che a livello nazionale ha già messo in bacheca parecchi titoli, si è trovato faccia a faccia con i migliori della specialità. «Sono arrivato ottavo, e magari pensavo a qualcosa di meglio. Ma è stata una grande esperienza, che mi servirà. In quella piscina ogni volta che mi guardavo intorno mi veniva la pelle d’oca. Intorno c’erano tremila persone, c’era la tv a riprenderci. Una cosa nuova e enorme, per me».

Eppure, questa rassegna iridata è stata solo una tappa. Ormai Nicolò ha alzato il tiro, e l’obiettivo è più lontano nel tempo. «Dovrei nascondermi, fare finta di non pensare alla Paralimpiade di Londra? Sarei bugiardo. Certo che punto a quel traguardo, e non voglio arrivare là solo per partecipare. Ho imparato ad allenarmi duramente: otto allenamenti a settimana d'inverno, fino a tredici d'estate. Non mi pesa, perché ho un obiettivo davanti. E i miglioramenti sono continui. Per uno che odiava il nuoto, non mi sembra poco...»



Da “Liberi di Sognare”
Marco Tarozzi, Paolo Genovesi
Minerva Edizioni

* foto di Paolo Genovesi

mercoledì 27 giugno 2012

BILLY MILLS, UN CUORE DIVISO A META'



di Marco Tarozzi


“Look at Mills! Look at Mills”. Quell’urlo improvviso, incredulo, ripetuto più volte da Dick Bank, commentatore della tv statunitense NBC alle Olimpiadi di Tokio del 1964, resterà nella storia delle telecronache sportive, e dell’atletica. Esattamente come quella finale dei 10mila metri affascinante e pazza, quella volata nell’ultimo rettilineo impossibile da descrivere a parole che premiò un ragazzo cresciuto nella riserva indiana di Pine Ridge, nel Dakota del Sud. “Guardate Mills”, urla Bank dentro al suo microfono (senza sapere che quella reazione gli costerà il posto al ritorno in patria – altri tempi… -) mentre Billy semplicemente prende il volo quando ormai tutti lo davano per spacciato. Andando a riprendere l’australiano Ron Clarke, favorito della vigilia ed eterno sconfitto nelle occasioni importanti, e il tunisino Mohammed Gammoudi, ultimo ostacolo da superare prima di conquistare un oro unico, indimenticabile, inimmaginabile.

Billy Mills, il mezzosangue, correva contro tutto e tutti. E correva molto al di là del proprio limite: quando piombò sul traguardo, primo tra l’incredulità generale, aveva migliorato di qualcosa come quarantasei secondi il proprio personale. A quei livelli, in una finale olimpica, un salto di qualità impensabile. La gara della vita. La gara irripetibile.

“E’ come se ai miei piedi fossero spuntate le ali”, confessò raggiante il nuovo campione olimpico, a caldo. Lo avrebbe ripetuto da allora ai giorni nostri, tutte le volte (e sono tante) che lo hanno chiamato a parlare, a ricordare. Non lo fa per il puro gusto di ammirare il proprio passato, Mills. La sua è una missione. “Dopo l’oro di Tokio, e già mentre ascoltavo l’inno americano sul podio, mi ricordai gli insegnamenti di mio padre: era come se lo sentissi, da lassù, mentre diceva “ora sei uscito dal circolo, figlio mio. Ora puoi iniziare il tuo viaggio per aiutare e dare forza al prossimo”. A cominciare dai nativi americani, il popolo delle radici, a cui il campione ha dedicato per quasi mezzo secolo le sue attenzioni con tante iniziative concrete e importanti. Non ha mai dimenticato i deboli, gli oppressi, quelli che vivono ai margini e non hanno saputo o potuto sfruttare un’opportunità.

LE ALI AI PIEDI

Perché Billy Mills è stato uno di loro. Ha sofferto, si è battuto, è caduto e si è rialzato. Da solo. E sempre con quel peso sulle spalle, quell’incapacità di sentirsi completamente parte di un popolo. Bianco e indiano insieme, due anime in cerca di tregua dentro lo stesso cuore. Spesso messo in disparte nel mondo dei bianchi, al contempo non di rado accettato a fatica dalla gente della riserva. Non è facile essere un ragazzo, e poi un uomo, che cresce senza capirsi dentro fino in fondo. Si rischia di sbandare, e Billy arrivò anche sull’orlo del baratro. Non solo metaforicamente. Una finestra aperta, una sedia pericolosamente traballante, mille pensieri in testa. Chissà quante volte, oltre a quella, lo salvò la sua forza interiore. Come quando partiva dalla sua casa di Pine Ridge e iniziava a correre, come per allontanarsi. Con un obiettivo in testa: l’Olimpiade, e una medaglia d’oro immaginata da bambino.

“La prima volta che ho sognato quel traguardo che poi si è avverato avevo nove anni. Mi avevano regalato il mio primo libro sule Olimpiadi, e l’avevo divorato. Mi piaceva l’idea che esprimeva: che i campioni olimpici fossero uomini scelti dagli dei. Pensai che se un giorno fossi diventato uno di loro, avrei potuto anche salire in cielo a vedere la mia amata mamma, che era volata via un anno prima…”

Poi, quel giorno a Tokio gli spuntarono magicamente quelle ali ai piedi. 28.24.4, nuovo primato olimpico dei 10mila metri. Lasciando impietriti Clarke e Gammoudi, che si sapevano migliori, che ai trecento metri finali si erano sentiti infastiditi da quell’outsider sempre in mezzo ai piedi e lo avevano spintonato per fargli capire che non era aria. La legge del più forte, pensavano. E invece il più forte era lui. Lui che da quel giorno saltò il cerchio, iniziando a prendere coscienza, fino a urlare al mondo la sua sicurezza. Lui che quel giorno a Tokio trovò il senso del proprio cammino.



UN CUORE DIVISO A META’

Dentro quel circolo, William Mervin Mills era entrato il 30 giugno 1938. Figlio di un indiano Sioux degli Oglala, uno dei sette sottogruppi (i Sette Fuochi del Consiglio) dei Lakota. Oglala, nella lingua madre, significa “coloro che si disperdono”. Mentre Billy era Makoce Te’Hila, “colui che rispetta la Terra”. Crebbe nella riserva di Pine Ridge, in South Dakota, ma ben presto si trovò a camminare da solo sui sentieri della vita. Mamma Grace, bianca, se ne andò quando era ancora un bambino di otto anni, il padre Sidney appena quattro anni dopo.

“Li amavo in modo assoluto. Papà mi veniva a prendere a scuola e mi portava a pescare. Per lui era necessario andarci con qualcuno. Aveva già avuto un infarto, non poteva avventurarsi nei boschi o lungo il fiume da solo”. Fu proprio per aiutare il padre in difficoltà che Billy toccò con mano per la prima volta la fatica di convivere con chi non aveva considerazione per il suo popolo. “Dovevo fare la Comunione, mi ero preparato al meglio. Più di chiunque altro. Speravo di essere in prima fila, quel giorno. Occorreva un vestito bianco e pulito, e papà mi portò in città per comprarmene uno. Ma quella mattina ebbe un malore e dovetti portarlo, a piedi per un miglio, fino all’ospedale più vicino. Quando si riprese, pensò al vestito che non avevamo potuto comprare. Mi disse: Gesù non si preoccupa se fai la Prima Comunione con un abito semplice, metterai la casacca di tua sorella. Così feci, ma quando arrivai in chiesa una suora si lamentò col prete per il mio abito. Le spiegai la situazione, ripetendo le parole di papà. Mi misero in fondo, per ultimo”.

Dopo la morte dei genitori, Billy crebbe a Pine Ridge accudito da fratelli e sorelle maggiori. Senza mai dimenticare l’insegnamento di Sidney: “Inseguire i tuoi sogni ti aiuterà a rimarginare le ferite”. La vita in riserva cominciò a diventare un peso, prendere coscienza del suo essere metà indiano e metà bianco lo dilaniava. Sentiva forte l’appartenenza a un popolo che aveva fatto del movimento, del rispetto per la natura, della mentalità guerriera la sua ragion d’essere. Ed ecco cosa era diventato il mondo degli Oglala: senza più cavalli, senza più bufali da cacciare, bloccati in uno spazio delimitato e dipendenti dal Governo. Farina, zucchero e lardo elargiti in cambio della rassegnazione. La famiglia Mills non se la passava male a Pine Ridge, ma tante altre famiglie non avevano la stessa fortuna. In riserva l’ottanta per cento dei giovani era senza lavoro. Fosse stato indiano al cento per cento, probabilmente Billy non avrebbe trovato la forza di andarsene. Ma la sua metà bianca lo portò a “strappare” con quel mondo. Era deciso a uscirne, ma non sapeva esattamente come. A metà tra due mondi, due culture, due modi di vita, non sapeva nemmeno chi fosse veramente Billy Mills.

IL SANTONE SBAGLIATO

La corsa lo aiutò a capire e a scegliere. Correva, Billy: intorno a Pine Ridge, tra i canyons e le praterie più spoglie. Correva senza sentire la fatica. “Mi sentivo vicino alla Terra e al Cielo, in quei momenti”. Era bravo anche negli studi, e a quindici anni finì all’Haskell Institute, una scuola esclusiva per nativi americani, in Kansas. Lì si mise in luce anche nell’atletica, correndo una campestre sulle due miglia in 9:08 e fissando il personale indoor sul miglio a 4:23 nel primo anno da senior. Lo chiamarono due università, Oklahoma e Kansas. Scelse la seconda, rinomata anche per la sua tradizione sportiva (lì erano cresciuti i “milers” Glenn Cunningham e Wes Santee), e ben presto si trovò a fare i conti, una volta di più, con il muro dell’incomunicabilità.

Il muro si chiamava Bill Easton. Il coach della squadra di atletica dell’istituto, famoso per aver vinto tre titoli NCAA di cross-country di fila con Drake University. Modi da duro, certezze granitiche, perfezionismo portato all’eccesso. Non il massimo, per un ragazzo arrivato per capire e farsi capire. Billy gli parlò del suo sogno di bambino, ed Easton lo smontò senza riguardi. E quando il ragazzo disse che gli sarebbe piaciuto sviluppare i lavori di velocità, il coach fu ancora più sferzante: “Lascia che a fare i velocisti ci pensino i neri. Tu sei un indiano, e gli indiani devono sempre e solo correre”.

Nonostante tutto, Billy migliorava. Si faceva notare. Nel 1960 finì quinto nelle tre miglia ai campionati NCAA. Ma spesso era costretto a masticare fiele.

“Nel 1961, il mio anno da senior, alla vigilia dei campionati NCAA di cross, chiesi a Easton se poteva dispensarmi dall’alzataccia delle sei del mattino, una sua regola, perché la notte prima avevo dormito male e volevo arrivare riposato alla gara. Mi rispose: fatti guidare dalla tua coscienza. Decisi di dormire un po’ di più, ma quando mi presentai mi mise fuori squadra. Salvo cambiare idea poche ore prima della corsa, quando mi disse: abbiamo buttato soldi per portarti fin qui, puoi correre… Poi, durante la gara, continuò a urlare “stai in testa, oppure ritirati!”. Una, due, tre volte. Finché non mi fermai davvero. Ricordo che Pat Clohessy, che correva per Houston, mi disse: “come hai fatto a sopportare quel tizio per tre anni?”

SENZA CERTEZZE

Billy era senza appoggi. Sradicato dal passato, immerso in un presente fatto di incomunicabilità. Non voleva tornare in riserva, dove non avrebbe avuto prospettive, ma nemmeno sapeva dove andare. Pensò anche al suicidio, in un momento in cui si sentiva più debole e solo del solito. Un giorno, nella sua stanza, si ritrovò in piedi su una sedia, davanti alla finestra aperta.

“Pensavo: su, andiamo e sarà tutto finito. Ma poi sentii la voce di mio padre, come sottopelle. Mi diceva “Non farlo. Stai inseguendo un sogno, figliolo. E raggiungerlo ti guarirà”. Capii che non potevo arrendermi senza combattere. Morire sarebbe stato troppo facile. Scesi da quella sedia e scrissi sul mio diario: “Medaglia d’oro alle Olimpiadi. Credici, credici, credici!”. Dovevo guarire il mio spirito spezzato a metà”.

Ad aiutarlo, una persona e un cambiamento. La prima: Patsy Harris. “Easton mi chiese di portare in giro un mezzofondista che dovevamo reclutare, e pensai di chiamare qualche ragazza che conoscevo. Feci diverse telefonate, ma erano tutte fuori. Alla sesta chiamata, la ragazza del centralino mi chiese se intendessi andare avanti a lungo. Finì che ci conoscemmo, e me ne innamorai al punto che insieme ci dimenticammo del mezzofondista”.

Billy aveva bisogno di essere capito, accettato. Pat era la persona giusta. “Quando mi aprii con lei, mi resi conto che credeva in me. Non aveva dubbi che io potessi conquistare il mondo. Era la prima persona di cui potevo fidarmi…”

Pat e Billy si sposarono nel gennaio del 1962. Ovviamente, col parere negativo di Easton. Ma quello era il meno: entrambi sapevano di fare un passo che sarebbe stato difficilmente compreso, sia nella comunità bianca che in quella indiana. Ma andarono avanti, completandosi a vicenda. Pat era, e ancora oggi è, uno spirito libero. Un’artista, da tempo tornata alla sua grande passione, la pittura, nella grande casa in cui vivono a Fair Oaks, a poche miglia da Sacramento. In quei mesi di avvicinamento al grande sogno olimpico, per Billy fu tutto: moglie, fisioterapista, segretaria, confidente, persino la madre che Billy non aveva potuto tenere vicino a sé.

L’altra svolta arrivò con l’uscita dall’Università. “Pat aspettava Christy, la nostra prima figlia. Dovevo lavorare e avevo davanti tre strade: aprire un negozio di abbigliamento, diventare agente dell’Fbi o entrare nei Marines, che avevano una squadra di atletica che mi avrebbe permesso di inseguire il mio sogno. Scelsi l’ultima via”.

E trovò ad attenderlo Tommy Thompson. Un allenatore con un approccio ben diverso da quello di Easton. “Mi chiese quali fossero i miei obiettivi e gli risposi: vincere una medaglia a Tokio e fare 28:50 sui 10000. Mi rispose: con 28:50 l’oro te lo scordi, devi correre in 28:25. E aggiunse: perché vuoi vincere una medaglia? Se corri per una medaglia, puoi finire quinto. Devi correre per l’oro. Dai tempi della high school, era il primo coach che non mi diceva di volare basso Era il primo bianco di cui mi fidassi davvero...”

CORSA ALL’ORO

Il resto è storia. Billy Mills cresce a dismisura, nell’anno e mezzo che lo separa dalle Olimpiadi. Non al punto da diventare un favorito, ma abbastanza per far lievitare autostima e coscienza di sé. Ai trials Usa è secondo nei 10.000 dietro Gerry Lindgren e si guadagna la convocazione. Per portare con sé Pat, presenza indispensabile, chiede un prestito a una banca. “Restai sveglio notti intere a pensare a come avrei saldato il debito al ritorno. Alla fine ci ragionai durante una lunga corsa. Avevo bisogno di lei? Sì. Dunque, lei doveva esserci. Punto e basta”.

La gara, e quel “Look at Mills!” che lo ha consegnato alla storia mentre andava incontro a un destino sognato da bimbo. “Quando Clarke per farsi strada mi spostò all’esterno, a trecento metri dall’arrivo, e pochi metri dopo anche Gammoudi mi spintonò, realizzai che su quella pista di cenere, l’ultima rimasta ad alti livelli in tutto il mondo, la corsia esterna dava più stabilità rispetto a quella interna, consumata e polverizzata. Me ne ricordai sul rettilineo d’arrivo”.

La vittoria gli cambia la vita. Lo consacra campione. Persino Easton, coach pervaso da un amore-odio nei confronti del campione, lo onora: “Ho visto la più grande corsa della mia vita. Sei il migliore. E’ stato un onore allenarti”. “Piansi dopo quelle parole”, ricorda Billy. “Lui si era ammorbidito, io ero maturato. E finalmente ci rispettavamo reciprocamente”.



IL DONO DA RESTITUIRE

Una medaglia d’oro olimpica è qualcosa di infinitamente grande. Ma per qualcuno può essere addirittura qualcosa di più. Il segno tangibile di un’armonia ritrovata, di un equilibrio raggiunto. Per Billy Mills non è stata un punto d’arrivo, ma un’occasione per ripartire con una mentalità nuova. Rimarginando la frattura tra le sue due anime, da allora il campione si è dedicato a una nuova missione. “Una delle cose che mi ha reso orgoglioso è che i Lakota mi hanno dichiarato guerriero della nostra nazione. Ma io ero in debito verso il mio popolo. Nella nostra tradizione è buon uso omaggiare le persone che ti hanno aiutato a diventare forte”.

Billy non ha mai dimenticato il messaggio. Pochi mesi dopo aver mancato la convocazione alle Olimpiadi di Città del Messico, nel 1968, si è ritirato dalle competizioni. Ha lavorato per crescere una famiglia numerosa, ma quando ha potuto dedicare tempo alla sua missione non si è tirato indietro. Da oltre un quarto di secolo spende il suo nome, la sua forza interiore, la sua passione per la causa dei nativi americani. Nel 1986 ha fondato Running Strong for American Indian Youth, riempiendo la sua vita di progetti per le nuove generazioni del suo popolo. Dal primo pozzo d’acqua potabile inaugurato a Pine Ridge nel 1987 alla costruzione di alloggi per anziani nella riserva, fino alla nascita del primo centro per dializzati (una struttura che Mills, a cui furono diagnosticati prediabete e ipoglicemia già prima dell’appuntamento di Tokio, ha voluto fortemente) di proprietà dei nativi. Da allora, grazie ai contributi della fondazione ne sono nati altri due.

Insieme ai suoi collaboratori, Billy si è occupato del tragico problema dell’alta percentuale di suicidi tra i giovani del suo popolo. E in diverse occasioni ha raccontato la sua esperienza di giovane atleta sradicato dalla propria cultura che ha trovato la forza di reagire. Sull’argomento ha scritto un libro, “Lessons of a Lakota”, insieme all’amico scrittore Nicholas Sparks. Quello precedente, “Run for the Red Willow”, ha ispirato nel 1983 il film “Running Brave”. Ancora oggi Mills viaggia trecento giorni all’anno, tenendo conferenze, raccontando la sua vita, portando ad esempio quella frattura risanata di cui ora può parlare con serenità. “Quella vittoria mi ha permesso di realizzare qualcosa di importante negli anni seguenti. E di passare attraverso i valori e le virtù della cultura Lakota anche dentro il mondo dei bianchi”. Parola di Billy Mills. Che seguendo il suo sogno è guarito. Come aveva previsto suo padre.


William Mervin Mills, detto Billy,  è nato nella riserva indiana di Pine Ridge, South Dakota, il 30 giugno 1938, da padre indiano (un Oglala Sioux) e madre bianca. Ancora oggi è l’unico atleta degli Stati Uniti ad aver conquistato l’oro nella gara dei 10000 metri alle Olimpiadi. Accadde a Tokio, nel 1964, quando con una volata mozzafiato sorprese Mohammed Gammoudi e il favorito Ron Clarke, migliorando di ben 46 secondi il proprio personale e tagliando il traguardo in 28:24:4, nuovo primato olimpico. In Giappone fu anche 14° nella maratona, in 2:22:55. Mills aveva frequentato la University of Kansas: nominato per tre volte NCAA All-America cross-country runner, contribuì ai successi del team ai campionati nazionali su pista del 1959 e 1960 prima di entrare nel Corpo dei Marines. Dopo il trionfo di Tokio, stabilì il record statunitense dei 10000 metri (28:17:6) e nel 1965 finì spalla a spalla con Gerry Lindgren ai Campionati AAU sulle sei miglia, con la miglior prestazione mondiale (27:11:6). Ai trials per le Olimpiadi messicane del 1968 non si qualificò, e di lì a poco si ritirò dall’agonismo.  Nel 1976 è entrato nella National Track and Field Hall of Fame statunitense, otto anni dopo nella US Olympic Hall of Fame. E’ l’anima di Running Strong for American Indian Youth, organizzazione che sostiene il popolo degli Indiani d’America, con una particolare attenzione nei confronti delle problematiche giovanili.

Runner's World, maggio 2012

domenica 4 marzo 2012

SHORTER, IL SEGRETO DEL MARATONETA




Solo un anno fa Frank Shorter, campione olimpico di maratona a Monaco 1972 e padre del running moderno, è riuscito a raccontare una verità che nascondeva dai tempi dell'infanzia: la violenza subìta da un padre che tutta la comunità esaltava come un uomo onesto e generoso, e quel rifugiarsi nella corsa per scappare dalla realtà e rimuoverla...

di Marco Tarozzi

Vie di fuga. Ecco quello che sono state l’atletica, la corsa, la maratona. Un modo per uscire da una quotidianità fatta di gesti e parole pesanti e opprimenti, da una verità nascosta impossibile da accettare e tanto più da raccontare. Per fuggire da quella grande casa in stile vittoriano conosciuta e amata da tutta la comunità, simbolo di una famiglia felice e di un mondo perfetto agli occhi della gente, custode ammaliante di una realtà inimmaginabile e dannata.
Ecco, c’è un ragazzo che questa dannazione se l’è portata dietro fin dall’infanzia, insieme a sua madre e ai suoi fratelli. Anche quando ha conquistato il mondo, anche quando è diventato famoso. Un’icona della corsa. Ha vinto un’Olimpiade, ne ha sfiorata una seconda, si è fatto uomo correndo, è diventato un grande saggio del running, ha combattuto e ancora combatte una lunga battaglia contro la piaga del doping nello sport. Ma solo poco più di un anno fa quell’uomo è riuscito a liberarsi del macigno che fin da quando era bambino gli pesava sulle spalle e sul cuore. O almeno a provarci, pur sapendo che questo avrebbe aperto ferite e causato nuovo dolore.
Quell’uomo si chiama Frank Shorter. Un mito dello sport e dell’atletica, negli Stati Uniti e nel mondo. Oro nella maratona olimpica di Monaco nel 1972, argento in quella di Montreal nel 1976. Da quei giorni un simbolo del running in tutto il mondo, e semplicemente il personaggio più famoso e rappresentativo per la gente di Middletown, la sua città natale nella valle dell’Hudson, circa 60 miglia a nordovest di New York City. Una comunità di 22mila anime che già aveva imparato ad amare suo padre, il dottor Samuel Shorter, medico generico che faceva della professione una vocazione, sempre sensibile alle problematiche dei suoi concittadini, sempre pronto a “dimenticare” di presentare il conto dopo aver curato i malati meno abbienti. Un uomo eccezionale che ancora oggi i più vecchi abitanti di Middletown ricordano con affetto.
Ecco, immaginate cosa deve essere stato per Frank Shorter, il campione riconosciuto, rendersi conto che oltrepassato il muro dei sessant’anni era arrivato il momento di abbattere quella specie di monumento alla menzogna e alla vergogna. Di uscire allo scoperto per ammettere, a sé stesso prima ancora che a chi lo stava ad ascoltare, che quel padre così benemerito per la sua gente si trasformava tra le mura di casa. Che diventava un uomo rigido, violento, abbietto, assetato dalla voglia di punire e di imporre la sua supremazia, più ancora che la sua autorità. A Frank come ai suoi dieci fratelli, altri quattro maschi e sei femmine, così come alla loro madre. Tutti incapaci di rivelare una verità nascosta dalle mura di quella casa vittoriana su Highland Avenue. Tutti impauriti da quell’uomo esteriormente così buono e gentile con tutti. Molto più di un segreto: qualcosa che loro stessi cercavano di rimuovere inconsciamente, inventando una sorta di realtà parallela più colorata e felice. Nel caso di Frank, anche semplicemente correndo. E quella verità da cancellare era crudelmente semplice. Quel padre era un tiranno, un sadico, in qualche modo un malato. La storia del dottor Jeckyll e di mister Hyde vissuta giorno dopo giorno tra le mura di casa.

LA FORZA DELLA VERITA’

La maratona come via di fuga è un concetto spesso affascinante. Correre via dalla quotidianità, dalla routine, dallo stress. Liberarsi, in fondo. Per Frank Shorter era ben altro. Era scappare, in tutti i sensi. Una liberazione, certo, ma soprattutto una questione di sopravvivenza. Era imparare a convivere con la solitudine, piuttosto che affrontare i problemi familiari. Ci ha messo tanto, a raccontare. A dirla tutta ci aveva quasi provato vent’anni fa, intervenendo con la consueta padronanza di linguaggio e di contenuti a una corsa benefica in Florida, il cui ricavato sarebbe stato devoluto a un centro per minori vittime di violenza. “Una causa che sento molto vicina”, confessò Shorter a un giornalista del Fort Lauderdale Sun Sentinel, “perché ho subito io stesso atti di violenza da mio padre”. Il campione non entrò nei dettagli della questione, e l’articolo fu ripreso dopo qualche tempo anche dal New York Times, ma senza un’enfasi particolare. D’altra parte, Shorter senior era ancora vivo e si affrettò a smentire quelle dichiarazioni. Nessuno ebbe la forza (o la voglia) di andare a scavare nel passato.
Quella forza Frank l’ha trovata poco più di un anno fa, nel novembre 2010. Era stato invitato a una corsa su strada a Springfield, Missouri, insieme ad altre due leggende americane di maratona, Bill Rodgers e Dick Beardsley. L’evento era benefico, in favore di una scuola locale che si occupava di reindirizzare giovani che avevano avuto problemi con la giustizia. “Ci chiesero di parlare con qualcuno di quei ragazzi”, ricorda Shorter, “per dar loro motivazioni per il futuro. Guardai la platea, tutti quei giovani venuti su con problemi esistenziali, e realizzai che anch’io ero uno di loro”. Così, invece di impostare un discorso “prefabbricato” sulla volontà, la forza interiore che aiuta a superare gli ostacoli, Shorter si mise a scavare nella memoria.

CORRERE PER SCAPPARE



“Cominciai a raccontare di quando ero un bambino e me ne stavo a letto in camera mia, e tremavo sentendo i passi di mio padre mentre saliva le scale. Spiegai come cercavo di giocare d’anticipo sugli umori e sui movimenti di papà, e di come trovarlo sulla mia strada alimentasse ogni giorno il mio timore e quello dei miei fratelli. E parlai di come avessi cercato fuori da quelle mura una salvezza, e alla fine l’avessi trovata nella corsa. Sì, quella sera ammisi che io ho corso per scappare. E che mi sentivo in colpa per il mio egoismo, per non aver potuto in qualche modo salvare il resto della mia famiglia”.
Fu, ovviamente, un incontro memorabile. Intorno a quelle parole scese una cappa di silenzio, e chi ne è stato testimone non riuscirà facilmente a dimenticare quegli attimi. “Ero choccato”, ricorda Beardsley. “Conoscevo Frank da una vita, e non gli avevo mai sentito rivelare nulla di quel passato. E improvvisamente misi a fuoco cose che mi avevano sempre incuriosito sulla sua personalità. Lo avevo sempre sentito piuttosto distaccato, a volte sembrava mi guardasse senza riconoscermi; me la spiegavo col fatto che io ero un tipo nella media, mentre lui era un ragazzo brillante, diverso da me. Gli amici mi dicevano: non prendertela, Frank è fatto così. Quella sera, mentre raccontava di suo padre che saliva le scale pensando a quale dei suoi figli avrebbe preso a botte, beh, capii da dove veniva quell’apparente distacco”.
Non è stato facile, per Shorter, aprire quel baule di ricordi terribili. Ha dovuto attendere, farsi forte, superare quel senso di colpa che lo immobilizzava. Portare alla luce quella vecchia e bruttissima storia lo esponeva a rischi. Qualcuno avrebbe potuto pensare a un modo per mettersi al centro dell’attenzione, per alimentare il proprio ego. “Qualcosa in me, quella sera, mi diceva di andare avanti fino in fondo. Alla fine venne da me una ragazza e mi disse: La storia che hai raccontato è la mia storia. Tutte quelle cose sono successe a me. Il modo in cui cercavi di anticipare le mosse di tuo padre, di proteggere le tue sorelle e i tuoi fratelli, la rabbia per non esserne capace; stasera hai parlato di me. Allora ho capito che raccontare la mia storia può essere utile a quella ragazza, e a chi è nelle sue condizioni”.

UN UOMO DAI DUE VOLTI

Alla base di questa confessione ci sono anche due lutti familiari. Samuel Shorter, il padre-padrone di Frank, se ne è andato da questo mondo nel giugno del 2008. Proprio nel giorno in cui a Middletown si tiene l’annuale gara su strada di dieci chilometri a cui Frank raramente è mancato. L’ultimo incontro avvenne in una camera d’ospedale, la sera prima dell’evento. Shorter senior aveva già 86 anni ed era in fondo alla sua corsa terrena, afflitto da una grave insufficienza renale. “Quello che sentii, guardandolo negli occhi, fu come un senso di liberazione. Non poteva più colpirmi, ora. Non poteva picchiare mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle. Non poteva più far male a nessuno. Non avrei mai più dovuto pensare a lui”.
Parole che danno i brividi. E il senso di quello che un ragazzino deve aver passato in quell’infanzia rubata, trovandosi a crescere prima del tempo e a desiderare di essere in qualunque altro posto. L’altra morte, più recente, è quella di mamma Katherine, a cui Frank era profondamente legato. Con lei in vita sarebbe stato impossibile pronunciare quella verità. Lui sapeva che le avrebbe riaperto una ferita mai completamente rimarginata.
Ma chi era Samuel Shorter, il dottore che una comunità di ventiduemila anime ha amato per la sua dedizione, senza conoscere l’altra faccia della sua personalità?
Nato e cresciuto a Middletown in una famiglia benestante, figlio di un oculista noto per il motto nel quale pubblicizzava il suo mestiere attraverso il cognome (“See Longer, See Shorter”), Samuel sposò molto giovane la classica ragazza “della porta accanto”, Katherine Chappel. Laureatosi alla Temple University School di Philadelphia, finì durante la seconda guerra mondiale a prestare servizio come medico in un ospedale militare in Germania. E infatti Frank, suo primogenito, nacque a Monaco, proprio dove venticinque anni dopo avrebbe vinto l’oro olimpico. Lasciato l’esercito nel 1948, il dottore tornò negli States, prima lavorando nel villaggio minerario di Cow Hollow, in West Virginia. Fu in quegli anni, durante un viaggio in Florida, che Samuel Shorter mise per la prima volta le mani addosso a suo figlio. “Avevo sporcato il pannolino, e mio padre mi prese a cinghiate. Ricordo che correvo via urlando sull’asfalto bollente…”. Quel momento è cristalizzato nella memoria, molto più di tanti che vennero dopo, e che Frank ha cercato di rimuovere. “Ma succedeva spesso, a me e ai miei fratelli”.
Poi ci fu il ritorno a Middletown, nel 1950. E il dottore iniziò la sua vita da buon samaritano della comunità. Le chiamate a casa a qualunque ora del giorno o della notte, anche al posto degli altri medici se dovevano andare in vacanza o via per il weekend. Quando se ne andò in pensione, nel 1996, gli organizzarono il “Dr. Samuel Shorter Day”. Ormai Frank se ne era andato da tempo a vivere a Boluder, tagliando i ponti con quel padre che gli aveva segnato l’esistenza. Il distacco vero e proprio era avvenuto nel 1967, quando Frank studiava all’Università di Yale e il padre si trasferì a Taos, in New Mexico, per lavoro. Fu lì che Katherine ebbe finalmente la forza di ribellarsi a quel marito che ora se la prendeva anche col figlio più piccolo, affetto da una disabilità progressiva. La coppia divorziò nel 1978, un anno dopo il dottore tornò nella sua città natale.

QUELLE NOTTI D’INFERNO

Frank non ha dimenticato tutte le volte che Samuel lo portava con sé sulla sua Buick per le visite in giro per la città. In quei momenti il dottore non alzava le mani sul figlio. Non voleva rischiare di essere visto. Ma erano monologhi sull’incapacità e sulla negligenza dei figli, che preludevano a serate da incubo. E in quei momenti Frank doveva semplicemente cercare di non fare nulla per contraddirlo.
Frank non ha dimenticato neppure le volte in cui suo padre, rientrato tardi dal lavoro, discuteva al piano di sotto con la madre, la interrogava sul comportamento dei figli, alzava la voce mentre lei cercava di arginarne la violenza. Poi Samuel saliva di sopra e decideva quale fosse il figlio da punire. “E la cosa più straziante era essere costretto a giacere nel letto sentendo piangere uno dei miei fratelli. Era anche peggio di quando toccava a me”. Sono ricordi atroci, drammatici. “A volte puzzava di alcool ed era ancora più violento, ma almeno in quei casi capitava che si confondesse e usasse la cinghia dalla parte dove non c’era la fibbia… A volte mi colpiva così forte da sbuffare come un sollevatore di pesi. Sento ancora i lamenti della sua voce mentre prendeva fiato dopo ogni colpo…”
Le rivelazioni di Frank hanno dato coraggio anche ai suoi fratelli. Non tutti. Qualcuno ha preferito non tornare sull’argomento. Ma le testimonianze sono inequivocabili. “Era un film dell’orrore”, conferma Barbara du Plessis, sorella cinquantaduenne del campione. “Ricordo mia madre mentre mi disinfettava una ferita all’inguine provocata dalla cinghia di mio padre. Avevo sei anni”. “La prima volta che mi prese a cinghiate”, racconta un’altra sorella che ha chiesto di restare anonima, “avevo quattro anni. Avevo rovesciato dell’acqua dalla vasca mentre facevo il bagno…” “Era un maestro nel far venire a galla la nostra insicurezza”, continua Barbara, “evidenziando i nostri difetti fino a farci perdere qualsiasi forma di autostima. Da bambina avevo un lieve strabismo, e lui mi ridicolizzava per questo”.
E sono proprio le sorelle di Frank ad alzare il tono delle accuse. Due di loro giurano che il padre sia andato ben oltre le punizioni corporali. Affermano di aver subito violenza da lui.
“Mi ha cambiata per sempre”, racconta Nanette, sessanta anni. “Mi disse che mi avrebbe ammazzata se l’avessi mai detto a qualcuno, e io ero certa che l’avrebbe fatto”. “Avevo sei anni quando mi usò violenza”, afferma Mary Shorter-King, oggi cinquantacinquenne. “Credo che l’abuso sessuale facesse parte del suo desiderio di dominare. Faceva parte di un suo personale programma di controllo su di noi. Mi sembrava di vivere sotto il controllo di un orco”.

RABBIA E INCREDULITA’

“Sono convinta che mio padre avesse un disordine della personalità con una base di narcisismo” continua Barbara. “Era anche una persona carismatica, brillante. Credo fosse duro anche per lui tenere in piedi questa doppia vita, ma era un maestro nel farlo. Se i suoi comportamenti sono da considerare abusi? Di sicuro. Oggi verrebbe arrestato in un minuto. Vorrei che chi dubita dei crimini di mio padre avesse vissuto un giorno nelle mie condizioni. Una bambina di sei anni con segni di cinghiate sul corpo non è un esempio di “disciplina”, non lo sarebbe nemmeno tornando indietro agli anni Sessanta”.
Ecco, quelli che dubitano si appoggiano anche sul passato. E sono soprattutto i cittadini di Middletown che hanno mitizzato il dottor Samuel Shorter. Che ne hanno conosciuto il lato nobile e non quello nascosto. "Il dottor Shorter era un uomo meraviglioso”, dice Bill Bright, 59 anni, ancora oggi residente a Middletown. “Ha fatto nascere e tirato su me e i miei gemelli. Lo andai a trovare quando era in punto di morte, aveva gli occhi chiusi, lo salutai e credevo non mi avesse nemmeno sentito. Stavo per andarmene quando li aprì e disse: Bill, la tua visita significa tanto per me. Non lo dimentico. Era un grande uomo”.

SOPPORTARE IL DOLORE



Ma Frank ha deciso di raccontare tutta la sua storia. Non si fermerà, ora. “So che questo può essere spiacevole per molti. Soprattutto a Middletown. Ma non è la “loro” storia, è la storia di mio padre. Io voglio bene a quella gente, non sarei sopravvissuto in quel posto senza gli amici che avevo là. Non voglio far del male a nessuno, ma la verità può aiutare”.
E’ una storia dannata e faticosa anche da ascoltare, che racconta molto anche del campione che ne è uscito fuori. “Dalla mia infanzia ho imparato a essere costantemente vigile, e questa attenzione estremizzata si è evoluta in coerenza. Ho imparato il conforto della programmazione. Ho sviluppato un modo per sfuggire alle mie pene”. Improvvisamente, un sorriso malinconico gli illumina il viso. “Lo so quello che pensate: è il contesto perfetto per un maratoneta… Anche nella vittoria olimpica di Monaco, quando me ne andai tra il nono e il decimo miglio, restando solo al comando fino al traguardo, c’è un po’ di quel passato. Avevo la capacità di uscire dal gruppo, restarmene da solo in un frangente simile e sopportare il dolore. Lo capii guardando in faccia Derek Clayton e Ron Clarke, ma era anche qualcosa che mi portavo dietro dall’infanzia”.
Samuel, il padre che per anni Frank ha volutamente rimosso, è una storia finita. Lontana. Ma non per questo il vecchio campione rinuncia alla riflessione. Anzi: togliersi dalle spalle quel segreto ingombrante gli è servito anche in questo senso. “Ripenso a quel giorno del 2008, quello della corsa su strada a Middletown, in cui vidi per l’ulitma volta mio padre vivo. Il giorno dopo tornai in aereo a Boulder, e quando atterrai seppi che era morto proprio mentre ero in volo. Non tornai per il funerale. Non ne sentivo il bisogno. Vorrei soltanto che mio padre avesse chiesto aiuto".

Runner's Wolrd Italia, febbraio 2012