martedì 1 marzo 2016

IO NON HO PAURA



Quella mattina era splendida. Brillante. Una fantastica domenica d’estate. E Lopepe, con addosso il vestito della festa, era un bambino felice. Come poteva esserlo un bimbo sudanese che la famiglia aveva sempre cercato di tenere lontano dai discorsi sulla guerra civile che lacerava l’anima di una nazione. Una famiglia ricca, nell’economia e nell’ottica di un villaggio africano. Papà Awei curava una mandria di quasi duecento vacche. E la domenica c’era il rito della messa alla Chiesa della Riconciliazione, in uno spiazzo all’aperto al confine del villaggio.

“Ero il ragazzino più felice del Sudan. I miei genitori mi coprivano d’affetto. Giocavamo sempre. E non mi avevano mai detto nulla di ciò che stava accadendo intorno a noi”.

I genitori. Era insieme a loro Lopepe, quella domenica mattina. Con papà Awei e mamma Rita Namana. I fratelli e le sorelle sarebbero arrivati più tardi. “Per qualche motivo che ora non ricordo, Abraham che ha due anni più di me e gli altri più piccoli non vennero con noi. Avrebbero preso parte alla funzione successiva”.

Fu per questo che di tutta la famiglia Lomong soltanto lui, Lopepe, si trovò improvvisamente trascinato in un incubo. Che in qualche modo riuscì a lasciarsi alle spalle con il gesto che gli riusciva più naturale. Correndo.

IL DESTINO DI LOPEPE


“Nel mio villaggio, chiunque camminava per andare dove aveva bisogno di arrivare. Chiunque, eccetto me. Io non camminavo. Correvo. E così i miei genitori mi chiamarono Lopepe, che nella nostra lingua significa “veloce”. E da bambino tenevo fede al nome, non mi riusciva di fare qualcosa lentamente. Quando mamma mi mandava a prendere l’acqua, io correvo al fiume con la mia tanica da cinque litri e tornavo a casa più in fretta che potevo. Quando le occorreva del sale, correvo dai vicini a prenderlo in prestito e lo facevo così velocemente che sembrava quasi che lo avessi preso in qualche angolo della nostra capanna. Nonostante la mia abitudine a correre, pensavo che viaggiare su un’auto o su un camion fosse qualcosa di meglio. Finché non fui costretto ad affrontare quel viaggio. Su quel camion…”

Era una domenica radiosa. Il prete stava invocando il Signore quando arrivarono i soldati.

“I miei occhi erano chiusi, stavo pregando, quando i camion si fermarono e i soldati cominciarono a scendere dal retro. Erano nervosi, come chi deve fare un lavoro e vuole concluderlo più in fretta possibile. Sapevo che il mio paese era in guerra. Almeno una volta al mese i nostri genitori afferravano al volo me e i miei fratelli e correvamo insieme a rifugiarci mentre il rumore delle bombe sganciate da aerei in lontananza ci minacciava. Ma non avevo mai visto un soldato fino a quella luminosa, indimenticabile domenica d’estate”.

Urla, spintoni, ordini impartiti senza soluzione di continuità, volti impauriti. Gli abitanti del villaggio stesi a terra con modi bruschi. E l’attenzione rivolta ai bambini e ai ragazzi. Soltanto a loro. Il prete che cercava in tutti i modi di far ragionare quello che aveva tutta l’aria di essere il capo della spedizione. Ma lui non lo ascoltava nemmeno. “Prendiamo i bambini!”

“Non sapevo cosa volesse dire. Lo avrei imparato presto. I miei genitori si lasciarono cadere a terra, tenendomi stretto a loro. Mi rannicchiai acanto a mamma, e sentivo la sua stretta fortissima tanto da farmi male alle costole. All’improvviso sentii una mano sulla schiena. Mi voltai e vidi un uomo gigantesco davanti a me. Quando sei piccolo, qualunque adulto ti sembra un gigante. Il suo fucile era puntato sulla mia schiena. Mia madre lo implorò: “No, no! Non prendere il mio ragazzo!”. Lui la staccò da me e mi trascinò al centro dello spiazzo, dove era parcheggiato un camion. Mi fece salire, e altri soldati stavano facendo lo stesso con altri ragazzi del villaggio. Mentre uno teneva a bada i genitori con un fucile: “Provate a fare un passo e sparo!”. Non so cosa sia successo dopo. Mi sentii spingere dentro quel camion, atterrai sul pavimento interno bollente e sporco. Era pieno di bambini della mia chiesa. Un telo verde ci coprì la visuale, le portiere si chiusero, i camion partirono. Non potevo saperlo in quel momento, ma la mia infanzia felice era appena terminata. Avevo soltanto sei anni”.


IL VIAGGIO DELLA PAURA


Era iniziato un viaggio senza ritorno per Lopepe Lomong. Era diventato uno dei “Lost Boys” sudanesi, bambini costretti a diventare adulti in fretta, perché l’unica alternativa era la morte. Figli e vittime innocenti di una guerra fratricida.

Ore e ore di camion, chiuso in quei pochi metri quadrati dove non passava un filo d’aria nel caldo dell’estate africana. In silenzio perché come tutti gi altri aveva finito le lacrime e gli restavano solo mille domande su quello che lo aspettava. E poi una lunga marcia, bendato, senza mangiare né bere “perché a nessuno di quei soldati venne in mente di darci qualcosa. Ma noi eravamo così spaventati che non sentivamo né fame né sete”. In fila indiana con la paura di perdere il passo. Se qualcuno rallentava erano botte.

“Mi sentivo come una delle vacche di mio padre quando le portavamo al pascolo. Ne avevamo duecento, il che ci rendeva molto ricchi al villaggio. Non capivo che era una ricchezza effimera, che in realtà eravamo solo meno poveri degli altri. La gente ricca in South Sudan mandava i bambini a scuola in Kenia, lontano dalla guerra civile che era iniziata anni e anni prima che io nascessi. E non doveva temere che i propri figli venissero rapiti e portati chissà dove. La guerra è sempre più vicina ai poveri che ai ricchi”.

Lopepe finì in una minuscola stanza senza finestre, insieme a un’ottantina di ragazzini spaventati quanto lui. Gli tolsero la benda dagli occhi. Le ragazze rapite insieme a loro al villaggio erano scomparse. Erano volti non del tutto noti, perché alla chiesa ogni domenica arrivava gente da diversi villaggi della zona.

“Non riuscivo a parlare ma captai una conversazione. “Sono soldati ribelli”, diceva qualcuno. “Ma come? I ribelli non dovrebbero combattere per noi? E allora perché ci hanno rapiti?” si chiese qualcun altro. “Non lo capisci? Non ci hanno rapiti. Siamo stati reclutati a forza per diventare soldati”. Quei ragazzi avevano tutto chiaro, io ancora no. Come avrei potuto diventare soldato a sei anni senza aver mai toccato un fucile?”

Nel dramma, una luce. Lopepe venne riconosciuto da tre ragazzi più grandi che conoscevano la sua famiglia e gli promisero di proteggerlo. “I miei tre angeli” li avrebbe chiamati. Fu insieme a loro che appena tre settimane dopo il rapimento, già provato per gli stenti e la malnutrizione, tentò una fuga nella notte approfittando di un buco nella recinzione del campo di addestramento. Quei ragazzi lo presero di peso e se lo portarono dietro.

“Era una notte senza luna. Ma vedevamo i bagliori delle sigarette che fumavano i soldati. Quando loro parlavano, ci muovevamo con attenzione. Quando tacevano, ci inchiodavamo. Si accorsero dei nostri movimenti che eravamo già fuori. Un ragazzo mi prese la mano destra, un altro la sinistra. E corremmo via”.

Corsero tre giorni, quasi senza sosta, tra sentieri pieni di rovi, in mezzo agli alberi. Gli amici nascosero Lopepe alla notte, lo fecero bere da foglie d’alberi, cercarono sempre di tenere la strada giusta per non ritrovarsi al punto di partenza. Corsero senza sapere dove stavano andando. Ma era la direzione giusta. Si ritrovarono oltre il confine, in Kenia. Vennero catturati e portati in un campo profughi parecchio a Nord di Nairobi. Uno dei più vecchi quasi una città, abitata da settantamila profughi di nove nazionalità. Lopepe ci restò per i successivi dieci anni. Senza ricevere troppi aiuti dai keniani, che sapevano bene che quel poco che serviva per far vivere a un livello di sussistenza i rifugiati arrivava dai volontari delle Nazioni Unite.


UNA VITA NUOVA


Il ragazzo che correva veloce avrebbe potuto restare lì per il resto dei suoi giorni. Giocando a calcio per dimenticare i suoi incubi, mangiando poco e male una volta al giorno, vivendo appena sopra al limite. Ma lui aveva qualcosa dentro. Si sentiva un sopravvissuto, ma con ancora addosso la curiosità di provare a costruirsi una vita migliore. Lo scrisse in un componimento, che venne letto da alcuni volontari della Catholic Charities. Raccontò anche di quel giorno d’estate del 2000 in cui girò per tutto il campo per trovare l’unico televisore in bianco e nero della zona, soltanto per capire cosa fossero queste Olimpiadi di cui tanti parlavano. E che lì davanti si era ispirato a Michael Jordan e alle sue imprese decidendo di diventare un corridore. E di tutti i giorni spesi ad allenarsi senza un’idea di allenamento, su quelle strade sterrate. Qualcuno si incuriosì e andò a intervistare quel ragazzo che ormai al campo profughi tutti chiamavano Lopez, al punto che un giorno lui stesso avrebbe fatto di quel nickname il suo nuovo nome rendendolo ufficiale. E dagli Stati Uniti arrivò la chiamata di una famiglia che aveva già adottato e aiutato altri rifugiati sudanesi. Fu con Robert e Barbara Rogers che Lopez Lomong attraversò per la prima volta l’oceano nel 2001, “dentro il più grande aeroplano che avessi mai visto. E appena arrivai là mi portarono al McDonald e mi comprarono un sandwich di pollo. Non riuscivo a mangiarlo perché ero incantato a guardarlo. Mi dissero che era tutto okay, che se avessi voluto avrei potuto portarlo a casa. Al campo ci davano il pollo due volte all’anno, a Natale e a Pasqua. Ma era un pezzo piccolo ogni dieci persone, così lo tagliavamo a pezzetti, lo bollivamo nell’acqua e mangiavamo la zuppa. Se ci trovavi dentro un pezzetto era un Natale felice. E ora ero lì con un sandwich al pollo tutto per me, e mi stavano dicendo che avrei potuto anche portarmelo a casa. Non ci credevo…”

Lopez andò a vivere con la sua nuova famiglia a Tully, nello stato di New York. Frequentò la high school locale, raggiungendo il decimo livello e diventò un runner. Tanto forte da entrare a far parte del team di cross della scuola, e diventandone la colonna in grado di fargli vincere titoli interzonali e statali. Poi scelse la Northern Arizona University e nel 2007 diventò campione indoor dei 3000 metri nella Division I della NCAA, e campione dei 1500 metri all’aperto. E quello è stato un anno davvero speciale per Lopez. Quello in cui ha giurato fedeltà alla Costituzione degli Stati Uniti d’America. “Da quel momento non sono più un “Lost Boy”. Sono un americano”.


IL PORTABANDIERA

 
Lo è al punto da diventare un simbolo. Un anno dopo aver preso la cittadinanza, si è assicurato un posto per le Olimpiadi di Pechino qualificandosi nei 1500 metri ai Trials Usa. E poco tempo dopo gli è stata comunicata la decisione del Comitato Olimpico del suo paese: sarebbe stato lui il portabandiera degli Usa alla cerimonia inaugurale dei Giochi del 2008. Un gesto simbolico di una grande potenza nei confronti di un’altra. Niente di meglio per gli States che mettere sotto i riflettori un membro del Team Darfur, uno che ha sempre stimolato il prossimo a prendere coscienza delle violenze perpetrate in quei territori, proprio nel momento di sfilare sotto gli occhi di un paese organizzatore, la Cina, da tempo sotto accusa per gli aiuti concessi al governo sudanese ritenuto colpevole di quel genocidio dimenticato. Lomong ha fatto la sua parte con diplomazia. Senza mai chiamare direttamente in causa il paese ospitante, lanciando messaggi di fratellanza universale: “Le Olimpiadi sono considerate una grande occasione per portare la gente, tutta unita, verso la pace. Io ho questo obiettivo e per questo vado in pista, indosso questi colori e rappresento il mio Paese”.


TORNANDO A CASA


C’è un momento di grande emozione, in questa storia già così unica. Arriva nel 2003. Quando Rita Namana, sua madre, alza per la prima volta la cornetta di un telefono per chiamare quel figlio che improvvisamente è balzato agli onori delle cronache. La famiglia, anni dopo il rapimento, credendolo ormai morto ne aveva celebrato un funerale virtuale. E anche Lopez pensava che i suoi cari fossero finiti schiacciati dalla violenza della guerra civile nel Sud del Sudan. Il primo incontro è stato così intenso da strappare le lacrime. Lopez e Rita si sono riabbracciati a ottanta miglia da Nairobi, dove i suoi genitori si sono trasferiti, dopo che quella mano li aveva divisi dodici anni prima. Nel dicembre del 2006, esattamente quindici anni dopo quella giornata d’estate che gli rubò l’infanzia, Lopez è tornato a Kimotong, il suo villaggio natale. Ha voluto ritrovare le sue radici. E fare qualcosa per la sua terra: nel 2008 con l’organizzazione Sudan Sunrise ha dato il via alla costruzione della Lopez Lomong School and Reconciliation Church. E all’inizio del 2009 ha portato negli States i fratelli minori Alex e Peter, mentre il resto della famiglia si è stabilito definitivamente in Kenia.

La sua terra, le sue radici. E il sogno di veder crescere bambini che possano vivere da bambini, senza i traumi che lui è stato costretto ad affrontare. Tutto questo ha portato Lopez Lomong a lavorare duro per far nascere il progetto “4 South Sudan”, una partnership tra la Fondazione che porta il suo nome e World Vision, che ha l’obiettivo di incontrare le necessità della gente del South Sudan attraverso diverse iniziative: facilitare l’accesso alle fonti d’acqua e alla sanità pubblica, offrire alle famiglie condizioni di vita accettabili, assicurare un futuro ai bambini attraverso un’educazione solida e una adeguata nutrizione. Il campione ci ha messo la faccia, e la sua storia incredibile e irripetibile. Ha coinvolto altre stelle dello sport americano, come le maratonete Kara Goucher e Shalane Flanagan, la quattrocentista Sanya Richard Ross, il primatista americano dei 50 km, Josh Cox.

Non dimentica, Lopez. Non vuole dimenticare. Anche se quegli incubi ricorrono, anzi proprio per questo. “Nessun bambino deve diventare grande prima del tempo”. A lui è successo. Farà di tutto perché ad altri non succeda.

“Quando eravamo in Africa, non sapevamo quale sarebbe stato il futuro per noi ragazzi, correvamo per fuggire e basta. Dio stava pianificando il mio futuro e io non lo sapevo. Ora sto usando la corsa per tirar fuori le parole e raccontare quante cose orribili ho visto in Sudan durante la guerra. Non sempre queste cose si trovano sulla CNN, e io spero che le mie parole servano a informare la gente. Cose altrettanto terribili accadono in Darfur. La gente scappa dal Darfur, e io mi metto nelle loro scarpe e corro con loro”.

 

 

LOPEZ LOMONG è nato nel villaggio di Kimotong, in South Sudan, il 5 gennaio 1985. A sei anni fu rapito dalle milizie che si ribellavano al governo del Sudan. diventando uno dei tanti Lost Boys destinati a trasformarsi in bambini-guerrieri per la guerra civile del paese, ma riuscì a fuggire e a rifugiarsi in Kenia, dove rimase per dieci anni in un campo profughi. Adottato da una famiglia statunitense, ha varcato l’oceano nel 2001 ed è diventato uno dei migliori mezzofondisti degli Stati Uniti d’America, di cui è diventato cittadino nel 2007. Nel 2003, dodici anni dopo il rapimento, ha ritrovato i suoi genitori: lui li credeva morti nella guerra civile, loro avevano addirittura celebrato il suo funerale anni dopo la sua sparizione forzata. Ha vinto il titolo statunitense dei 1500 metri nel 2009 e nel 2010. E’ stato scelto come portabandiera Usa alle Olimpiadi di Pechino 2008, nelle quali ha raggiunto le semifinali dei 1500 metri. Sulla stessa distanza è giunto ottavo in finale ai Mondiali 2009. Alle Olimpiadi di Londra 2012 ha raggiunto la finale dei 5000 metri, classificandosi decimo. Ha personali di 3:32:20 nei 1500, 3:53:18 nel miglio, 13:11:63 nei 5000 metri.