giovedì 31 marzo 2011

GRAZIE CARLTON, QUANTE EMOZIONI...


di Marco Tarozzi

San Patrignano
Un attore consumato. Si prende il palcoscenico alla sua maniera, Carlton Myers. Come lo conosciamo da sempre, ma se possibile un po’ più ricco dentro. Per l’età, che proprio nel giorno dell’addio diventa quella della maturità, quarant’anni portati splendidamente. Per la luce incontrata sul cammino, quella che lo ha avvicinato a Dio. Per il contesto, probabilmente. Perché Carlton ha scelto San Patrignano per dire addio al basket giocato e svoltare, per inaugurare la sua nuova vita da manager in cerca di talenti da sviluppare, e possibilmente da educare alla vita.
«Il basket mi ha fatto divertire, mi ha regalato emozioni. Mi ha permesso di condurre una vita agiata, a Dio piacendo. Cosa mi ha tolto? I capelli, direi...».
Sorride, scherza, fa battute e tiene il palco. È la sua festa. Ottocento invitati per un addio allegro, e un compleanno fuori del comune. «E adesso, Milly, per i prossimi quarant’anni non chiedermi più con chi festeggiamo», dice alla moglie che lo ascolta e lo applaude in prima fila con i figli Joel e Nigel, con papà Carlton senior arrivato a sorpresa dopo avergli fatto credere che sarebbe rimasto in Giamaica. Tra gli invitati loro, i ragazzi di Sanpa.
«Sono stato a un passo dal giocare per questa squadra, in C regionale. Ma non mi divertivo più, e se non ti diverti è dura. Invece, mi affascina il nuovo mestiere che vado ad affrontare. Però questi ragazzi c’erano rimasti male, così mi è venuto in mente che la festa d’addio avrei potuto farla qui, in mezzo a loro. Frequentando questa comunità, una cosa mi ha colpito. Tutte le volte che arrivavo, mi salutavano. Normale, pensavo, sanno chi sono. E invece poi ho scoperto che non lo sapevano. Mi salutavano per rispetto, educazione verso il prossimo. Molti ormai non ti salutano più, per strada. Questi giovani manifestano attenzione nei confronti degli altri. Sono felice di essere tra di loro». E l’attenzione per i giovani muoverà anche l’attività di “B-Side Management”, la sua agenzia, che lancia il progetto “Sport High School”, con lo scopo di dare una possibilità a giovani talenti. «Ogni ragazzo, ogni atleta, ma anche ogni uomo, hanno bisogno di punti di riferimento. Il mio basket era fatto di sacrificio, voglia di crescere, cuore. Noi non ci giustificavamo, i ragazzi di oggi tendono a farlo». Viene spontaneo pensare a uno come Balotelli, talento nell’occhio del ciclone. «In lui rivedo un po’ me da piccolo. Un ragazzo pieno di rabbia e voglia di rivincita. Giovane. E nero: un dato di fatto che può creare difficoltà. Mi sarebbe piaciuto raggiungerlo, non solo col pensiero. Ma sono convinto possa uscire da questo momento difficile».
Guarda avanti, il campione. Ma in una giornata come questa, uno sguardo al passato è d’obbligo. Non vede partite della vita, ma un anno di svolta sì. «Il 2000. Il momento più difficile arrivò dopo gara1 di finale, in casa contro la Benetton. Avevamo dominato il campionato, e iniziammo male. La fede iniziò forse ad aiutarmi allora, seppure ancora da non convertito. “Ho gridato aiuto ed egli mi ha sollevato”: ecco, andò così. Il peggior avversario di un atleta è sè stesso. Ma fu anche l’anno delle Olimpiadi vissute da portabandiera, in una cerimonia d’apertura con 120mila persone allo stadio: camminavo sentendo tutti quegli occhi addosso, cercando di capire le responsabilità enormi che avevo».
C’è tutto, in questa giornata del re che dice addio. Gli amici, i fans, la fede e l’emozione. E gli avversari, anche. Da rispettare, nella loro nobiltà. «Ho voluto Sasha, certo. È stato un esempio. Io credo che terminata la partita, la sconfitta non vada rifiutata nè giustificata, e la vittoria vada accolta ma non esaltata. Mi restano addosso quei cinque minuti di applausi del popolo virtussino, quando giocai i playoff con la maglia della Scavolini. Li ho graditi. Un giocatore può uscire da un campo vittorioso anche nella sconfitta».
Sipario. E applausi per un talento rarissimo. Che fortuna, per noi, averlo visto all’opera.

m.tarozzi@linformazione.com

L'Informazione di Bologna, 31 marzo 2011

venerdì 25 marzo 2011

CARLTON, ILTALENTO DICE ADDIO


di Marco Tarozzi

Se è vero che anche le favole più belle sono destinate a finire, Carlton Myers ha scelto di chiudere la sua in modo tutt’altro che scontato. Le parole d’addio le pronuncerà a San Patrignano, in casa dell’amico Muccioli, dove c’è gente che pensa allo sport e alla vita. Dove nell’ultimo anno si è spesso fatto vedere in palestra per allenarsi con la squadra della comunità, aspettando di sapere se nel mondo dei canestri ci fosse ancora un posto degno per uno come lui, che ci è passato da protagonista assoluto. Chiusa l’avventura nella sua Rimini, dove ha in effetti giocato l’ultima gara ufficiale il 2 maggio dello scorso anno, Carlton si è guardato intorno. Non gli sarebbe dispiaciuto nemmeno chiudere a Bologna, in quella società che sta gettando le basi per raccogliere l’eredità della Fortitudo. La sua Fortitudo, la squadra che gli ha segnato la carriera, e in qualche modo la vita.
L’Aquila e Bologna. Una città amata e vissuta su una sponda precisa, diventandone bandiera, icona, capopopolo. Fino all’apoteosi del primo storico scudetto, sollevato da capitano dopo anni di tentativi andati a vuoto, battendo tutti gli avversari e anche un destino che sembrava avverso per definizione. “Non abbiamo mai vinto un...”, urlavano i suoi tifosi, ma impararono in fretta ad aggiungere quel “Carlton Myers numero uno” che tante volte lo trascinò in serate ispiratissime, che restano nella storia del basket. Come ci resta quel record, scritto con la canotta di Rimini, in A2, all’inizio di una carriera sfavillante, di ottantasette punti segnati in una sola partita. Con addosso la frenesia di chi ha una missione da compiere, e vuole lasciare il segno nel mondo in cui ha scelto di eccellere.
Carlton Myers ha raggiunto traguardi importanti, e avrebbe potuto raggiungerne molti altri, ma spesso ha preferito scegliere mettendo avanti il cuore, e questo non sempre ripaga in termini statistici. Ha sprigionato energia per le squadre di cui ha difeso i colori, e per quella Nazionale che ha servito con orgoglio, ripagato da un titolo europeo nel ‘99. Un’esplosione di talento, potenza atletica. Un fenomeno unico.
Mercoledì, a San Patrignano, nel giorno del quarantesimo compleanno, a fargli festa ci sarà anche il rivale numero uno della Città dei Canestri, quel Sasha Danilovic che finalmente può essergli sinceramente amico, dopo che le bandiere sono state ammainate.
«E così hai scelto il basket», gli disse un giorno papà Carlton senior. «Peccato, suonavi bene il flauto. Avresti potuto essere un bravo musicista». È stato un grande della pallacanestro. E alla pallacanestro mancherà.

L'Informazione di Bologna, 25 marzo 2011

giovedì 17 marzo 2011

BORINI, LO SWANSEA PER RINASCERE


di Marco Tarozzi

Fabio Borini in prestito allo Swansea, di qui a fine stagione. Doveva finire a Parma, si ritrova in Galles.
«Sì, nella città natale di John Charles. Spero che sia di buon auspicio...»
Come è finito da quelle parti?
«Il tecnico è Brendan Rodgers, che mi ha allenato nella squadra riserve del Chelsea. Ha un bel gruppo, in corsa per la promozione in Premier, e da un po’ di tempo insisteva per avermi in prestito».
Un bel gesto di fiducia.
«Infatti. Sono terzi in classifica e vogliono fare di tutto per salire di categoria. Hanno pensato a me, la cosa mi dà stimoli».
Sarà Championship e non più Premier. Ma il fascino non manca.
«Sicuro. Già sabato giocheremo contro il Nottingham Forest, che è nella top 6 della classifica. Poi sfideremo squadre come Hull City, Barnley, Portsmouth che sono scese proprio dalla prima lega inglese. Ma la mia scelta è dettata da altre motivazioni».
Ce le racconti.
«L’idea di poter giocare con continuità in una categoria comunque importante, di qui a fine stagione. Ne ho bisogno. Sono tornato dopo un lungo infortunio e ho dimostrato di saper trovare ancora la strada del gol, proprio come facevo prima. Se vado in campo, posso dimostrarlo meglio».
Con Ancelotti era dura.
«Sì, ma il fatto che la strada della prima squadra fosse più chiusa non intacca il rapporto col tecnico. Se qualche incomprensione c’è stata, l’ho avuta con la società».
Nove partite a Swansea e una porta mai chiusa a Parma. Sarà comunque lì il futuro, l’anno prossimo?
«Il discorso non è chiuso, è vero. Ma oggi non posso pensare a questo. La stagione non è finita e devo pensare a me stesso. In questo momento sono un giocatore in cerca di un posto per il prossimo anno. Devo dimostrare qualcosa. Tutto qui».
Sta seguendo il campionato del suo Bologna?
«Eccome. Ho vissuto con preoccupazione i problemi societari, ed è stato bello vedere un gruppo capace di lasciarli fuori dal campo, anche nei momenti più difficili. Nei tre mesi di riabilitazione ho frequentato Isokinetic, ho visto i giocatori, ho parlato con loro. Sono felice per quello che hanno fatto».
Il suo amico Casarini si sta specializzando nel ruolo di terzino.
«Fede può coprire molti ruoli. E del resto, anch’io pur di giocare starei anche in porta...»
Anche allo Swansea?
«Forse. Ma è meglio pensare a far bene davanti»
Come faceva John Charles.
«Magari».

L'Informazione di Bologna, 18 marzo 2011

giovedì 3 marzo 2011

MAZZANTI, 15 ANNI DA "PRO"


di Marco Tarozzi

Luca Mazzanti, ci racconti questa rivoluzione. A trentasette anni cambia squadra e prospettive.
«Il Team Katusha è una grande squadra, con un budget stellare. Per il ciclismo di oggi, un posto da favola. Ma io non mi ci trovavo più. Volevo restare vicino a Pozzato, che per me è un amico vero. Ma a settembre ho capito che un altro anno lì non sarebbe stato la scelta giusta. Ne ho parlato con Pippo, ha capito. E mi sono messo sul mercato».
Un po’ tardi. Ha rischiato.
«Vero, ed è stata la prima volta in carriera. Pensavo: non chiedo la luna, ho esperienza, uno come me non avrà problemi a sistemarsi. Invece, non fosse stato per Luca Scinto, che mi ha voluto a tutti i costi alla Farnese Vini-Neri Sottoli, forse avrei dovuto chiudere davvero».
Scinto le ha dato una bella carica di entusiasmo.
«È sicuro che io possa essere molto utile a Visconti. E anche che possa ritagliarmi un ruolo importante, in certe corse».
Come ai tempi della Panaria.
«Ho qualche anno in più, ma ammetto che vorrei tornare indietro alla stagione 2007. Sento di avere dentro quella forza, altrimenti avrei smesso. Non ho cambiato squadra per soldi, anzi: alla Katusha avrei preso di più. Ma lì avevo chiuso un ciclo, e se a trentasette anni inizi a trascinarti da una corsa all’altra sei finito».
Questo è il suo quindicesimo anno tra i professionisti. Ne ha viste di cose cambiare, in carovana.
«Cambiamenti a livelli esagerati. E anche brutte storie. Purtroppo gli ultimi casi ci dicono che non tutti hanno capito come funziona oggi il ciclismo. C’è ancora qualche kamikaze che gioca con la vita, ed è la cosa più grave. E vedo gente, non serve fare nomi, che ha grandi doti e si rovina con le sue mani, superando i limiti».
Come la considera?
«Sono un danno per tutto il movimento, devono smetterla. Il mercato è triste, c’è la crisi e l’ho sperimentato personalmente, cercando la nuova squadra. Dobbiamo evitare di contribuire facendo cazzate».
Racconti di questo nuovo entusiasmo che la pervade.
«Mi hanno fatto sentire importante. Mi piace, mi stimola. In allenamento sento che la grinta è quella dei tempi migliori. In squadra ho davanti Visconti e Sinkevitz, ci sono giovani velocisti promettenti come Gatto e Guardini. Ma ci sono anch’io, e ho carte da giocarmi».
Un anno di contratto?
«Uno solo, sì. Economicamente mi andava bene tutto, per fortuna ho alle spalle anni di carriera che mi permettono delle scelte. Mi interessava il progetto e questo mi piace. La gente mi prenderà per matto, ma io ho ancora una gran voglia di correre, e la stessa determinazione di qualche anno fa. Perché sprecarla?»
Obiettivi, allora.
«Intanto mi attacco il numero. Inizio il 22 marzo, alla Coppi e Bartali. Più tardi del solito, ma credo che sarà un vantaggio in prospettiva Giro. Ci arriverò più fresco. Poi, l’ho detto, magari arriva anche qualche soddisfazione personale».
Tanto per allontanare il momento del ritiro.
«Se vado forte, non mi vergogno a dirlo, punto a festeggiare i quarant’anni tra i pro. Se uno fa vita da atleta, si può fare. Se invece vedo che non ho più nulla da dare o chiedere, alzo il braccio».
Quattordici stagioni di grandi capitani. Chi le ha lasciato il ricordo più bello?
«Quando hai corso accanto a Marco Pantani, non hai dubbi. Il capitano più grande è stato lui. Al nostro sport certi personaggi mancano. Ci sono campioni con ottime gambe, ma non con quella personalità».
Nibali, in prospettiva, potrebbe arrivare a quei livelli?
«È un ottimo corridore. Non so se può diventare un grande personaggio».
In quanto a carisma, Pozzato ne ha.
«Ma deve fare di più l’atleta. Posso dirglielo, sa che lo faccio da amico».
Si guardi indietro. Cosa è stato il ciclismo, per lei?
«Una parte fondamentale della mia vita. Io voglio restare in questo ambiente, anche dopo che avrò smesso. Ma finché posso, continuo a pedalare”.

LUCA MAZZANTI è nato a Bologna il 4 febbraio 1974. Professionista dal 1996, ha corso per Refin, Cantina Tollo, Fassa Bortolo, Mercatone Uno, Ceramiche Panaria, Tinkoff, Team Katusha e da questa stagione gareggia per i colori della Farnese Vini-Neri Sottoli di Angelo Citracca e Luca Scinto. Ha collezionato dieci vittorie tra i “pro”, la prima al Giro del Lago Maggiore nel ‘98, quando vinse anche il Grand Prix de Fourmies. Con la Panaria ha vissuto le annate migliori, vincendo una tappa della Coppa e Bartali (2003), il Giro d’Oro e il Fred Mengoni nel 2005, una tappa del Giro del Trentino nel 2006 e il GP di Lugano nel 2007. Soprattutto, ha vinto nel 2004 la tappa Giffoni-Frosinone del Giro d’Italia, dopo la squalifica di Paolo Bettini penalizzato per aver ostacolato Baden Cooke. In Nazionale ha partecipato alle edizioni 2004 e 2006 del Mondiale, ed è stato riserva nel 1998 e nel 2003.

L'Informazione di Bologna, 28 febbraio 2011