martedì 10 dicembre 2019

200 MIGLIA PER LA GLORIA



Checco Costa, anima instancabile della rinascita del motociclismo in quella terra magica ai confini tra Emilia e Romagna, non aveva mai avuto dubbi. Lui le gare americane riservate alle moto di grossa cilindrata, quelle di Daytona e Ontario per intenderci, le aveva studiate bene. Era certo che l’ennesima creatura partorita dalla sua mente fervida e appassionata, la “200 Miglia di Imola”, avrebbe colpito nel segno, e dritto al cuore degli innamorati dei motori. Ma la mattina di quel 23 aprile 1972, anche gli scettici si inchinarono alla sua idea meravigliosa: le strade che portavano all’autodromo erano intasate, lo stesso Paul Smart che quella corsa l’avrebbe vinta di lì a poche ore ricorda “la difficoltà ad arrivare alla zona dei box per la partenza”.
Un successo annunciato, insomma. Anche perché Costa, organizzatore eccelso (la “Coppa d’Oro Shell”, nata nel 1954, fu per anni la gara italiana col montepremi più ricco, e lo stesso circuito imolese aveva visto i natali grazie al suo impegno e alla sua lungimiranza) aveva fatto le cose per bene, convincendo tutte le principali case costruttrici a non mancare all’appuntamento. Lo schieramento era da grandi occasioni: 42 piloti in pista, sette Honda e altrettante Kawasaki, e poi Triumph, Norton, Suzuki, BMW, BSA, Moto Guzzi, e certamente non poteva mancare la MV Agusta, che aveva preparato in fretta una 750 per Sua Maestà Giacomo Agostini.
E c’era la Ducati, che per l’occasione aveva fatto le cose in grande, mobilitando la squadra corse e proponendo la guida delle sue moto a fortissimi centauri. Per primi furono interpellati pezzi da novanta come Saarinen, Pasolini, Grant, ma dopo il loro rifiuto la casa di Borgo Panigale decise di affidarsi a una “bandiera”, un fedelissimo come Bruno Spaggiari, ormai sulla soglia dei quarant’anni, ad Ermanno Giuliano e Alan Duscombe. Infine, grazie all’intermediazione della moglie, sorella di Barry Sheene, disse sì anche l’inglese Paul Smart, a cui oltre all’ingaggio fu promesso che in caso di vittoria avrebbe potuto portarsi via anche… la moto.
DALLA STRADA ALLA PISTA – La gara venne ribattezzata entusiasticamente “Daytona d’Europa” e raccontata alla vigilia come una sorta di sfida del secolo. Ed in effetti il parterre era imperiale: oltre ad Agostini, Smart e Spaggiari c’erano Phil Read, Ron Grant, Tony Jeffries, Jack Findlay, Roberto Gallina, Don Emde che aveva trionfato alla Daytona originale, Vittorio Brambilla che poi avrebbe scelto la strada della Formula Uno.
Prova riservata alle derivate di serie, e così da Borgo Panigale uscì in poco tempo
la 750 Imola Desmo sulla base di alcuni esemplari prelevati dalla catena di montaggio, praticamente delle 750 Sport dotate di testate desmodromiche. Per l’occasione fu adottato un albero a camme più spinto, poi battezzato Imola, un motore che erogava 84 cv a 8800 giri. La livrea, ripresa dalla 500 GP, era ispirata a quella color argento delle GP anni ’50, un meraviglioso effetto “vintage”.



CAVALCATA TRIONFALE – Fu una sfida memorabile. Un pomeriggio di gloria per la Ducati, che infilò una indimenticabile doppietta in fondo a un’interminabile corsa lunga 320 chilometri, ovvero 62 giri. A onor del vero, Agostini ci provò subito partendo a razzo, ma la sua fuga durò pochi giri, e la sua corsa finì dopo appena 42 tornate, con la sola consolazione di aver stampato il giro più veloce del tracciato.
Dopo, fu un trionfo di lampi d’argento davanti alla folla galvanizzata. Un duello tra Smart, l’inglese arrivato senza troppa convinzione, stanco dopo una gara disputata ad Atlanta, e caricatosi giorno dopo giorno, e Spaggiari, grande cuore Ducati, vecchio campione probabilmente all’ultima grande occasione. Che a tre curve dal traguardo, sembrava aver realizzato il sogno. Quando la moto iniziò a perdere colpi alla Rivazza. Serbatoio a secco, benzina finita.
SPAGGIARI, CHE JELLA “Smart rallentò con me, mi guardò. Poi andò, che altro avrebbe potuto fare? Io avrei fatto la stessa cosa”, ha sempre raccontato il grande centauro reggiano. Che in folle, e a motore spento, andò a prendersi il secondo posto, e a completare la doppietta Ducati.
“Dopo, fu l’apoteosi”, ha ricordato Smart. “Io e Bruno tagliammo il traguardo,
e per la prima volta da quando ero salito su quell’aereo ad Atlanta, sentii la tensione allentarsi. Mi resi conto di quello che era successo solo quando rientrai ai box, vedendo l’espressione sul volto dei componenti del team, e in particolare di Taglioni e Spairani. Esaltazione pura. Avevano scommesso, e avevano vinto. Poi ci fu il ritorno a Bologna, ci caricarono con le moto su un autocarro che aveva una parete di vetro, attraversammo la città in parata e ci fermammo davanti alla stazione, c’era una folla incredibile ad aspettarci. Avevo ancora la tuta addosso, ero stanchissimo, ma di andare a dormire con quella festa in corso non se ne parlava. Sembrava che la città si fosse riversata in strada, a celebrare la gloria della Ducati. Quel giorno compivo ventinove anni, fu un compleanno indimenticabile”.
Al vecchio Spaggiari restò la soddisfazione di aver preso parte da protagonista ad un evento memorabile, davanti a 150mila persone. Onorando una volta di più la Ducati, cosa che faceva dal 1958, quando con la 125 Desmodromica aveva colto il suo primo e unico successo nel Mondiale, sul circuito di Monza. Ed un secondo posto che avrebbe bissato nel 1973, alle spalle di Jarno Saarinen ed a quarant’anni compiuti. La Ducati, del resto, ha trovato il modo di onorare lui, dedicandogli un modello, la Scrambler Café Racer, nel 2016. E bene ha fatto, perché se oggi tutti hanno negli occhi il capolavoro di Dovizioso al RedBull Ring, in Austria, e un passato recente fatto di gloria tra MotoGp e Superbike, pochi forse ricordano che fu proprio Spaggiari uno dei primi piloti a far brillare la stella della casa di Borgo Panigale, di cui ancora ragazzino fu collaudatore prima ancora che pilota ufficiale.
Così come vale la pena ricordare una corsa mitica come la “200 Miglia di Imola” che poi, spalmata su due manches, infilò nell’albo ‘oro i nomi di Saarinen, Agostini, Cecotto, Baker, Roberts, Lucchinelli, Lawson, e che in qualche modo accese la scintilla che qualche anno dopo avrebbe portato alla nascita del Mondiale Superbike.

Più Stadio, settembre 2019




PETER SNELL, DUE GIRI DI GLORIA



E’ stato l’uomo delle “100 miglia a settimana”. Negli anni Sessanta, quando nessun mezzofondista veloce si sottoponeva ad allenamenti di resistenza così “estremi”, Peter Snell aveva sposato con convinzione il metodo di Arthur Lydiard, maestro che come spesso succede non fu da subito profeta nella sua patria, la Nuova Zelanda, e anche dopo aver portato tre suoi atleti sul podio olimpico di Roma, nel 1960, continuò a lungo ad essere considerato un outsider. In parole semplici, Lydiard fu l’allenatore che introdusse la periodizzazione nell’allenamento di mezzofondisti e fondisti, e di fatto la fase di “marathon conditioning” che per lui era alla base di qualunque preparazione specifica, anche quella di ottocentisti e millecinquecentisti. Un rivoluzionario, che nel 1960 predicava, per dire, la necessità di praticare attività motoria per i malati di cuore, e qualche anno più tardi fu pioniere del jogging applicato alle masse.
Peter Snell veniva da Opunake, borgo di nemmeno 1500 abitanti sulla costa sud-occidentale di Taranaki, nell'Isola del Nord della Nuova Zelanda. Da ragazzo era uno sportivo a tutto tondo. Giocava a rugby, a cricket, a golf, correva in pista. Era stato una promessa nel tennis, arrivando a disputare, da junior, i campionati neozelandesi. Fu proprio Lydiard a riconoscerne il talento nella corsa, quando il ragazzo aveva già 19 anni. Era il 1957, Peter correva forte ma era goffo, dispersivo, stilisticamente imperfetto. Ma aveva una dote che si adattava perfettamente ai metodi di allenamento del guru di Auckland: la determinazione che gli faceva sopportare qualunque carico di lavoro.
A diciannove anni, era già pronto per correre per la prima volta il circuito di Waiatarua, un trail di 22 miglia (35,5 chilometri) che era un banco di prova per i runners locali, e per un atleta che in allenamento bruciava già un centinaio di miglia a settimana. Chiudere quell’impegno intorno alle due ore e mezza, e dedicarsi alla stagione del cross durante l’inverno del 1958 fu il primo passo verso le ribalte internazionali. Quando alla resistenza il programma di Lydiard fece seguire i lavori specifici su pista, la progressione risultò fulminea. Tra il ’58 e il ’59, Peter portò i personali a 5’15”8 nei 2000, a 1’51”6 nelle 880 yards, a 4’12”4 nel miglio. Vinse i primi titoli statali, e all’inizio della stagione successiva fu quarto ai nazionali di cross, dove appena un anno prima si era classificato 55mo.
All’inizio della stagione che portava alle Olimpiadi di Roma, era già in grado di correre il consueto “test” del circuito di Waiatarua in 2.12’45”. Quando arrivò la convocazione per i Giochi Olimpici, non restava che tradurre in ritmi veloci tutta quella base di resistenza. Certo, per conquistare il Grande Sogno serviva altro. A Roma, Peter avrebbe dovuto superare i propri limiti. Andare di gran lunga oltre sé stesso.
LA GRANDE IMPRESA – Alle Olimpiadi, Snell si presentava con un personale di 1’49”2 sulle 880 yards. Non aveva ancora compiuto ventidue anni, e non aveva mai corso fuori dai confini nazionali. Un perfetto sconosciuto, un outsider vero. Sotto l’ala protettrice di Murray Halberg, altro allievo di Lydiard che avrebbe in quei giorni conquistato l’oro nei 5000 metri, prese coraggio e sicurezza. Il programma era tosto: batterie eliminatorie e quarti di finale nella stessa giornata, il 31 agosto, semifinali il giorno successivo e finale dopo altre ventiquattro ore. Quattro sfide sul doppio giro di pista in tre giorni, contro tutti i migliori al mondo. Snell iniziò vincendo col personale, 1’48”1, la prima batteria eliminatoria, Nei quarti finì alle spalle del belga Roger Moens, primatista mondiale, ma in semifinale lo precedette con un altro primato personale, 1’47”2, mentre nell’altro turno brillava un’altra nuova stella dei Giochi, il giamaicano George Kerr (1’47”1, record olimpico).
In finale, ognuno si portò la fatica di tre gare in poco più di quarantotto ore. Moens, il più esperto, tentò di mettere d’accordo tutti con una prova di forza, attaccando all’uscita dell’ultima curva. “Avevo un muro di atleti davanti, scelsi la via più breve restando all’interno e poco alla volta iniziai a pensare a una medaglia, vedendo gli altri che si piantavano in rettilineo. Non pensai più a niente, guardai dritto davanti a me. Dopo il traguardo, mi si avvicinò Moens. Chi ha vinto, gli chiesi? Tu, fu la risposta”. Così Peter Snell, ventunenne neozelandese, era campione olimpico. Correndo in 1’46”3, nuovo record dei Giochi. In tre giorni di gare, aveva polverizzato il proprio limite, e all’improvviso si trovò puntati addosso tutti i riflettori. La grande atletica aveva un nuovo fuoriclasse di cui occuparsi, la Nuova Zelanda un campione da ammirare ed applaudire.
DOPPIETTA A TOKIO – Per quattro anni, Snell fu il dominatore assoluto sulle distanze di 800 e 1500 metri. Nel 1962 stabilì il primato mondiale nel doppio giro di pista (1’44”3), quello delle 880 yards (1’45”1). Nello stesso anno abbattè quello del miglio in 3’54”4, limandolo due anni più tardi e portandolo a 3’54”1. Collezionò due ori ai Giochi del Commonwealth, sempre fedele al metodo di allenament di Lydiard, sempre sottoponendosi a lunghe e durissime preparazioni invernali e alla regola delle “100 miglia a settimana”, prima di trasformare tutta quella benzina in brillantezza da spendere in pista. Quando accettò un lavoro fisso da geometra, faceva andata e ritorno da casa al posto di lavoro per aggiungere chilometri alla razione quotidiana, che spesso completava nel buio della sera.
Alle Olimpiadi di Tokio, ovviamente, non era più uno sconosciuto. Era un top runner, e l’appuntamento lo stava preparando da un anno esatto. Le ultime sei settimane in altura lo avevano caricato psicologicamente, e soltanto un’influenza alla vigilia dei Giochi ne aveva appena scalfito le certezze, perché anche John Davies, suo compagno di squadra, sembrava più in forma di lui. Ma a una settimana dall’appuntamento, in allenamento, stampò un 1’47”1 negli 800 che lo rassicurò.
E fu, in effetti, una marcia trionfale.  Nella semifinale degli 800 fecero scintille il solito Kerr e il keniano Wilson Kiprugut, astro nascente della specialità, entrambi abbassando a 1’46”1 il limite olimpico. Ma in finale Snell li sistemò tutti, uscendo all’inizio dell’ultima curva e seminando gli avversari nel rettilineo finale e chiudendo in 1’45”1, davanti al canadese Crothers e a Kiprugut. Nella gara dei 1500, il dominio fu ancora più incontrastato: all’imbocco del rettilineo, Snell aveva già la medaglia d’oro in tasca, e sul traguardo rifilò un secondo e mezzo al cecoslovacco Odlozil, mentre Davies andava a conquistare un altro bronzo per la causa del mezzofondo neozelandese.

Per quattro anni, Peter Snell aveva affrontato carichi di lavoro impensabili per ogni altro specialista di 800 e 1500 al mondo. Aveva raccolto i frutti, dimostrandosi il migliore per un lungo periodo di gloria e onori. Nel 1965, ad appena ventisette anni, si ritirò dalla scena internazionale. Nel 1970 si trasferì negli Stati Uniti, per approfondire i suoi studi e conseguire il Bachelor of Science in Human Performance all’Università di California, e quindi laurearsi in Exercise Physiology  alla Washington State University, diventando quindi direttore dello Human Performance Centre” all’Università del Texas . Non ha mai smesso di correre per la propria salute, diventando anche negli anni Novanta un quotato veterano nell’orienteering. Si è cimentato in maratona, terminando in 2:41.
I suoi record (allora mondiali) su 800 metri (1’44”3, nel 1962) e 1000 metri (2’16”6, nel 1964) sono tuttora primati nazionali neozelandesi. La sua bacheca è piena di riconoscimenti: Member of the Order of the British Empire dal 1962, Officer of the Order of the British Empire dal 1965, infine Knight Companion of the New Zealand Order of Merit. Dal 2007, nel Cooks Garden della piccola città di Opunake c’è una statua di bronzo che raffigura il campione che per bruciare due giri di pista più forte di tutti arrivò a correre fino a 100 miglia a settimana.

Runner's World, agosto 2018


lunedì 9 dicembre 2019

REGUZZONI, IL BOMBER DIMENTICATO DALLA NAZIONALE




Questa è la storia di un caso irrisolto. E non saremo certo noi a trovarne la soluzione, perché intanto il tempo e la storia hanno fatto il loro corso. Però possiamo almeno cercare di capire, o se non altro farci un’idea del perché uno dei più grandi giocatori di calcio della sua epoca, uno che era stato definito da un tecnico di prima grandezza come Hugo Meisl “la migliore ala d’Europa”, abbia collezionato nella sua lunga e proficua carriera soltanto una maglia azzurra, per di più molto avanti negli anni. Del perché a Carlo Reguzzoni, ancora oggi secondo cannoniere della storia del Bologna con 145 reti segnate in maglia rossoblù, sia rimasto quel grande ed inspiegabile rimpianto.



A Bologna avevano imparato ad amarlo, questo campione arrivato da Busto Arsizio, dove si era fatto le ossa indossando i colori della Pro Patria, altra gloria del calcio italiano. Lo chiamavano Carletto, ma non di rado anche “Rigoletto”. Lo aveva soprannominato così la “torcida” rossoblù, perché col passare degli anni aveva accentuato quella andatura leggermente curva che lo caratterizzava. Senza rancore, anche perché in rossoblù questo bustocco dal talento unico ci restò quattordici lunghe stagioni, diventando un beniamino dei tifosi. A suon di gol: quando se ne andò, ne aveva regalati al Bologna 145, in 378 partite. Ancora oggi, nel pantheon rossoblù, secondo soltanto ad Angiolino Schiavio. E ancor più entusiasmante fu il ruolino di marcia sui campi d’Europa, in partite che si giocavano nella sua stagione preferita, dalla primavera in avanti: 23 presenze, 18 reti, poco meno di una a gara.



Aveva il gol nel sangue, “Rigoletto”. Ma c’era appunto un momento dell’anno, uno in particolare, in cui diventava davvero inarrestabile. A primavera, quando l’erba si faceva più verde, lui si faceva ancor più pericoloso del solito. In società si erano stampati bene il suo nome in testa nel 1929, quando Carletto, che indossava i colori della Pro Patria, fece letteralmente impazzire un mastino esperto come Pierino Genovesi. “Pirèin”, a fine partita, andò dritto dal “mago” Felsner, che lui chiamava molto più prosaicamente “l'umàz”, e gli parlò schietto, com'era sua abitudine. “Quello è un fenomeno, ma perché non lo facciamo venire a Bologna da noi?”. Felsner non aveva bisogno di prendere nota: aveva già pensato la stessa cosa.

Il grande tecnico si mosse personalmente un anno dopo. Nell'estate del 1930, prese un treno per andare a Busto Arsizio a parlare col giocatore. Il destino gli fece risparmiare ore di viaggio. Alla stazione di Milano, mentre si accingeva a cambiare treno, si trovò davanti Carletto in persona. “Dove va di bello, Reguzzoni?”, gli domandò. “Mi hanno chiamato quelli del Milan. Sto proprio andando in sede, hanno detto che si può chiudere il contratto in giornata”. “Ma che ci va a fare al Milan? Io stavo venendo proprio a casa sua per convincerla a venire da noi. Mi dia retta, a Bologna starà benissimo. La squadra è forte, i ragazzi non vedono l'ora di averla nel gruppo, la città è splendida. Cosa vuole di più?”.

Felsner era Felsner. Ma anche Leandro Arpinati, gerarca in auge nel Partito Fascista e allora grande capo della Federcalcio, era Arpinati, e ci mise del suo per far approdare il giocatore a Bologna e per far digerire al Milan un rifiuto a fronte di un precontratto già in essere. Insomma, Reguzzoni si convinse. Certo, a margine ci fu anche una superofferta alla Pro Patria: 80mila lire, la prima vera cifra-record di un calcio che stava diventando sempre più popolare e di conseguenza muoveva interessi sconosciuti appena una decina d’anni prima. Al Milan, quel giorno non lo videro. E quando lo sentirono, dovettero prendere atto della scelta.



Da quell'estate del 1930 fino al 1946, Carlo Reguzzoni non levò più la maglia rossoblù. Vinse quattro scudetti, due Coppe dell'Europa Centrale, il famoso Torneo dell'Esposizione di Parigi. In quella finale allo stadio di Colombes, in cui il Bologna rifilò un 4-1 e una lezione di calcio ai “maestri” inglesi, segnò una leggendaria tripletta. Era il 6 giugno 1937. Al rientro in città, la squadra del grande Arpad Weisz fu accolta nel piazzale della stazione centrale dai tifosi. C’è una foto che spiega meglio di mille parole il carattere di “Rigoletto”. Folla festante e un gruppo di giocatori a salutare dal tetto di una Balilla. Il più spaesato, forse intimidito da tutto quell’affetto, è lui. Il signore della finale, Carlo Reguzzoni.



Ma allora, appunto, perché? Come mai l’unico gettone di presenza in azzurro è datato 14 aprile 1940, in un’amichevole di basso profilo contro la Romania giocata a Roma, con i venti di guerra che spiravano tutto intorno e un Reguzzoni ormai trentaduenne che ormai aveva perso le grandi occasioni mondiali del ’34 e del ’38? Si è parlato di una sorta di voluta dimenticanza del Ct azzurro, Vittorio Pozzo, perché Carletto era un antifascista in tempi in cui essere contro non andava di moda. Voci, non certezze. Reguzzoni era un uomo taciturno, riservato. Alberto Brambilla, uno dei maggiori studiosi del rapporto fra letteratura e  sport, pur non avendolo visto giocare fu a lungo suo vicino di casa, e lo descriveva così: “Era schivo, non amava parlare di sè, rispondeva a monosillabi, senza aggiungere alcun particolare”. Più che di opposizione al regime, insomma, si potrebbe parlare di indifferenza. Di fatto, Pozzo gli preferì nel ruolo l’oriundo Mumo Orsi, l’unico giocatore a cui un campione corretto come Angelo Schiavio aveva giurato eterna inimicizia, dopo che l’argentino in un Juventus-Bologna aveva più volte tentato di azzopparlo. Pozzo viveva a Torino, poteva osservare Orsi da vicino, e questa potrebbe essere una spiegazione. Finita l’era di Orsi, toccò anche a Gino Colaussi indossare la maglia che sembrava fatta apposta per uno come Reguzzoni. Uno con una regolarità impressionante, una progressione fantastica e un sinistro micidiale. Uno che aveva l’istinto del gol, ma amava anche alimentare i compagni, con cross pennellati dopo inarrestabili scatti sulla fascia. Per dire: se Ettore Puricelli a Bologna divenne “Testina d’oro”, tanto si deve anche all’altruismo del preziosissimo Rigoletto.

Prima di chiudere la sua lunga avventura in rossoblù, Reguzzoni vinse anche la Coppa Alta Italia del '46, primo accenno di una pace ricostruita sulle macerie, per poi tornare dopo quattordici stagioni rossoblù definitivamente alla vecchia Pro Patria e restarci, da protagonista, fino a quarant'anni suonati.



Lasciò molto al Bologna. Immagini indimenticabili di quelle sgroppate sulla fascia, retaggio di un'adolescenza passata a costruire fughe solitarie in quello sport che sembrava avergli aperto una strada da protagonista, il ciclismo. E un po' di salute: il ginocchio cigolò spesso, negli ultimi anni, ma lui stringeva i denti e andava avanti, perché l'idea di fermarsi non gli apparteneva. E poi, quando arrivava la primavera, lui e il Bologna esplodevano insieme. Difficile non accorgersene, eppure qualcuno in Nazionale voltò sempre la testa dall’altra parte.



Bologna Rossoblù, novembre 2018



HO RIVISTO IL FILM


E’ passato un po’ di tempo, ma io son fatto così, alle cose ci devo pensare e ripensare. Poi, questa era più delicata, perché ascoltavo quelle parole e sapevo bene cosa volevano dire. Sono gli stessi pensieri che mi hanno attraversato, le stesse sensazioni che mi hanno riempito i giorni, che altrimenti sarebbero stati tutti uguali, quando ero dentro quella storia sbagliata. Sveglia alle sei e mezza, che nemmeno quando ero in caserma; pioggia fuori dalla finestra; visita pastorale del primario, con i suoi aficionados, come li avevo ribattezzati; freddo nelle vene e nel cuore, libri letti a metà perché tutto era fatica; cena all’ora dei polli, e poi la lunga notte per far girare le rotelle nel cervello, per spaventarsi del buio o passeggiare in un corridoio livido.

Di quelli di Sinisa, uno in particolare, mi ha colpito. Il mio più grande desiderio era prendere una boccata d’aria fresca, ma non potevo: ora poterlo fare è bellissimo.

A me era venuta così, ma credo sia la stessa sensazione: Il senso del tempo che corre, che fugge, che non tornerà. Ogni istante, ogni emozione, ogni goccia di pioggia, ogni maledetto e benedetto raggio di sole. Ogni mano da stringere, ogni sorriso, ogni incertezza…”


Alla fine, le piccole cose sono le grandi cose che restano. Quando sono tornato nel mondo di prima, non era cambiato per un cazzo. Ci ho trovato nuovi e vecchi amici, belle persone come le conoscevo, naturalmente anche stronzi che credevo di conoscere e invece erano diventati anche più stronzi di prima. Gente che ha voglia di ascoltare, altra gente che ha voglia di specchiarsi nelle proprie parole. Tutto normale, tutto come prima. Ma ero io, sono io ad essere cambiato. Sono io che non ho più voglia di lasciare un discorso a metà, né di seminare la mia vita di rimpianti. Sono io, che guardo tutto questo dibattersi con occhi diversi.

Così Sinisa, credo. Che riparte da una certezza. “Non mi sento un eroe, sono un uomo. Dal carattere forte, ma con tutte le sue fragilità”. La certezza dell'incertezza in cui siamo immersi, nella quale nuotiamo, ci sbattiamo, affrontiamo il presente, ci strafoghiamo di domande sul futuro.


Si inchioda tutto il meccanismo, quando improvvisamente qualcuno ti ricorda che non sei immortale. E’ un calcio in mezzo al petto, che ti blocca il respiro. E’ un calcio nelle palle, che non avresti mai pensato a un dolore così. Quando riparti, perché a un certo punto riparti, sei un altro. Hai fatto i conti con la paura, sai che dovrai conviverci, sai che arriverà il tempo delle lacrime, che ci saranno sensi di vuoto, solitudine che non si può raccontare. Sei un uomo più vero, proprio perché sai di essere più fragile. E ti escono fuori frasi così: “non c’è da vergognarsi ad aver paura, piangere o essere disperati.

No, davvero non c’è da vergognarsi. Anzi, è una ricchezza che ci porteremo dentro per tutta la vita.


domenica 3 novembre 2019

LE TASTIERE DEL CIV



Gianfranco mi dette appuntamento all’edicola di piazza Azzarita, nel pomeriggio dello stesso giorno in cui gli avevo chiesto il pezzo. Era il mio primo libro, quello che quando lo giri e rigiri tra le dita è emozione pura, ma finisce tutto il giorno dopo. Il Civ lo sapeva bene e mi mise in guardia da subito. Della storia della Sala Borsa lui era un testimone prezioso, poteva accendere la luce su quei giorni di gloria, di “par la mi bèla bàla”, di un pavimento a losanghe in cui le linee di fondo si confondevano. Lui come Achille Canna, Carletto Muci, Larry Strong, Gigi Rapini, Nandone Macchiavelli. A tutti chiesi un contributo, tutti splendidamente contribuirono. Né uscì una bella cosa, con le foto di Walter Breveglieri, un altro gigante, ad arricchirla.

Arrivò brandendo un foglio scritto a biro, “è leggibile, non dovresti avere problemi a ribatterlo, dovrebbero essere 50 righe”. Aveva la misura in testa, dopo tanti anni in barricata, dopo tanti pezzi dettati “a braccio” al telefono, destinazione Ufficio Dimafoni. Erano 51, scarse. Cinquanta e mezzo. Non era la prima volta, non ho mai capito come facesse.
Nel secondo che pubblicai, fece di più. Siccome parlava di tanti campioni bolognesi del passato, pensai che una sua prefazione sarebbe stata perfetta. Me la regalò, fu un grande regalo. Me la consegnò alla nostra maniera: edicola all’angolo di piazza Azzarita, foglio scritto a mano. Anzi, due. Dentro, parole di stima che mi commossero.


Ripenso ai giorni, mesi, anni passati in quella redazione di Stadio, da metà degli anni Ottanta. Per dieci lunghi anni, prima di lanciarmi tra le colonne del “verde” da collaboratore fisso, fui il segretario di redazione di “quella redazione”, che allora splendeva. In via Mattei, guidata da Vittorio Piccioli, una truppa indimenticabile: Gianfranco Civolani, Ermanno Mioli, Dante Ronchi, Gibì Marcheggiani, Stefano Biondi che poi scese un piano e andò al Carlino, Maurizio Roveri, Giuliano Musi, Giorgio Comaschi che si trasferì a Repubblica e infine scelse il mondo dello spettacolo, restando “giurnalèsta” nell’animo, e ancora Raffaele Zanni, Fausto Fortuzzi, Nino Borgatti, Daniela De Blasio, Roberto Montuschi, l’elegantissimo professor Franco Quartieri, e Marione Mongiorgi che abitava la scrivania dell’ufficio archivio. E poi i giovani, accanto ai quali sono cresciuto. Giuliano Riva, Andrea Malaguti, Roberto Zanni, Franco Caniato, più avanti Alessandra Giardini, Matteo Della Vite, Matteo Marani.


Il Civ le ha passate tutte. Persino la “rivoluzione” dei computer, quando da Roma ci rifilarono il sistema Atex, già obsoleto sul nascere, i cui pezzi di ricambio si trovavano probabilmente solo a Porta Portese. Il Civ picchiava sui tasti che lo sentivo da tre stanze più in là, come se quelle macchinette fossero vecchie Olivetti, e infatti ogni due settimane mi portava una tastiera da rispedire a Roma, finché laggiù non decisero che poteva bastare, lui e solo lui poteva rimettersi a scrivere a macchina, che poi qualcuno avrebbe riscritto ma intanto quel giro di computer da rappezzare si sarebbe fermato. Mi resta ancora il dubbio che se la fosse studiata…


Il Civ mi ha regalato molte cose. La voglia di scrivere, prima di tutto, una roba che fai per te stesso, certo, ma se mentre la fai pensi anche al piacere di chi deve poi leggerla, hai già raggiunto un bell’obiettivo. Mi ha insegnato a coltivare la memoria, che è il bene più prezioso di cui fare tesoro. Mi ha insegnato che dietro a un carattere burbero, a volte scostante, fondamentalmente solitario e malinconico, si può nascondere una persona generosa e leale, sincera e poco incline ai compromessi. Mi ha trasmesso, insieme ad altri fantastici maestri, il piacere di stendere le parole in fila, cercando di dar loro una brillantezza, un guizzo, una fiammata capace di renderle diverse ogni volta, anche quando capita che si ripetano. Perché il vocabolario è limitato, ma la creatività non ha confini.


Il Civ lo chiamavamo tutti “maestro”, e lui sapeva che non era un modo per tagliare corto e allontanarsi. Era spigoloso da vivere, dicono, ma era un generoso per chi non si ferma alla superficie. Ed era bello, magnifico da leggere. Mai banale, sempre nuovo ogni giorno. Mi mancano da tempo quelle botte che tirava sulla tastiera del computer. Fino a ieri pensavo fosse solo perché mi ricordavano la mia gioventù. E’ altro: mi ricordano il posto dove ho imparato un mestiere, accanto a giornalisti veri. Giornalisti dentro, cercatori di storie. Gente come il Civ. Che stavolta ha staccato le medaglie davvero, non ci sorprenderà più. Ma intanto, ci resta addosso per sempre.


giovedì 7 marzo 2019

DAVE WOTTLE, IL BERRETTO A SORPRESA



di Marco Tarozzi
A guardarlo così, Dave Wottle avrebbe potuto tranquillamente essere catalogato nella categoria “improbabili”. Non che il cronometro gli fosse nemico, anzi. Ma in quella finale olimpica degli 800 metri all’Olympic Stadium di Monaco, nel 1972, non aveva certo l’aspetto dell’uomo da battere. Intanto perché l’uomo da battere era un altro, il sovietico Jevhen Aržanov, campione europeo in carica, “eroe del lavoro socialista”, insomma una leggenda dello sport in patria. Poi, per il suo modo di correre: sempre attendista, per usare un eufemismo; per dirla tutta, abituato a risalire le gare dalla coda del gruppo.
Anche se il segnale, forte e chiaro, era arrivato dai trials americani, dove Dave aveva addirittura eguagliato il primato mondiale correndo in 1’44”3, lui stesso considerava il doppio giro di pista come una prova di passaggio verso quella che sentiva più nelle corde, i 1500 metri. E quel cappellino, poi? Un berrettuccio da golfista che aveva preso l’abitudine a indossare quando portava i capelli più lunghi, da bravo figliolo dei “Seventies”, e alla fine era diventato una specie di portafortuna da cui non era più possibile separarsi. L’effetto visivo, però, era quasi comico: uno spilungone allampanato che temporeggia in fondo al gruppo rischia di non essere preso abbastanza sul serio, soprattutto in una finale olimpica. Soprattutto se a un certo punto esce addirittura dall’inquadratura delle telecamere, mentre i primi sembrano volare verso la gloria. Nessuno, a quel punto, avrebbe immaginato di assistere ad una delle più incredibili e leggendarie gare della storia dell’atletica.
L’IMPROBABILE. David James Wottle, ventiduenne di Canton, Ohio, quei Giochi se li era guadagnati. Scoperta la vocazione da runner alla Lincoln High School, nella sua città, era diventato campione statale del miglio nell’anno da senior, prima di trasferirsi alla Bowling Green State University e diventare campione NCAA dei 1500 proprio nell’anno olimpico, dopo aver colto un secondo posto nel 1970. Avrebbe conquistato anche il titolo nel miglio, nel 1973, correndolo in 3’57”1.
Ai trials aveva conquistato il pass per Monaco sia negli 800 che nei 1500, e su consiglio del coach di BGSU, Mel Brodt, decise di utilizzare le prove sul doppio giro di pista per velocizzare i ritmi. Corridore istintivo, Dave si spendeva nelle gare di avvicinamento con quell’idea fissa: “Mi sentivo pronto per i 1500, non ero un ottocentista. Non mi consideravo all’altezza degli specialisti europei, su quella distanza. Non avevo un’idea precisa di come avrei orientato il futuro prossimo…” A chiarirgli le cose, quel crono ai Trials, che lo proiettò all’improvviso in cima alla lista mondiale.
UN MATRIMONIO CONTRASTATO. C’erano altri motivi per non puntare su una vittoria di Wottle a Monaco, oltre alla presenza di Arzhanov, dei keniani Mike Boit e Robert Ouko, del tedesco dell’est Dieter Fromm, e ancora del britannico Carter e del tedesco occidentale Kemper. Tutta gente che aveva numeri per provarci.
Per prima cosa, l’americano era arrivato all’appuntamento in cattive condizioni fisiche, a causa di una tendinite alle ginocchia che non gli dava tregua e non gli aveva permesso di svolgere nel migliore dei modi il lavoro di avvicinamento ai Giochi Olimpici. Poi, c’era la questione del matrimonio, che aveva fatto storcere il naso al guru in persona. Proprio così, a Bill Bowerman, il leggendario coach che coltivava il talento di Steve Prefontaine, che guidava l’area tecnica della squadra Usa dell’atletica leggera alle Olimpiadi di Monaco, non era andato giù il fatto che Dave avesse deciso di sposare la sua Jan due mesi prima dell’appuntamento olimpico, e di portarla con sé nel suo viaggio in Germania. “Non sono un moralista”, aveva spiegato Bowerman in un’intervista al Register Guard di Eugene, “Sono interessato all’altro sesso come chiunque. Ma la cosa più importante in questo momento, per questi ragazzi, è gareggiare ai Giochi Olimpici”.
Il ragazzo non era certamente un ribelle, anzi. Semmai, la testa gli finiva spesso tra le nuvole. Ma non tornò sui suoi passi, sulla faccenda del matrimonio. A luglio portò Jan sull’altare, e si fece anche una breve luna di miele. Scendendo nelle quotazioni dei tecnici della squadra nazionale. “Dave dovrà ritenersi fortunato se passerà il primo turno degli 800”, chiosò Bowerman. Per la serie: anche i santoni possono sbagliare.
“Ero un ragazzo di ventidue anni”, ha commentato il campione olimpico negli anni, “non avevo la personalità di un Prefontaine, dunque non parlerei di ribellione. Semplicemente, riuscii a dire chiaramente che non avrei lasciato la mia fidanzata ad attendere, e che mi sarei comunque sposato. Ma posso capire anche la posizione di Bowerman, adesso. Probabilmente era certo che quella di rimandare fosse la scelta giusta per me”.
Altra scelta contrastata, quella di portare a Monaco l’allenatore di Bowling Green, Mel Brodt, per aiutarlo nella fase di avvicinamento alle gare. Situazione mal digerita dai capi della delegazione statunitense.
“Coach Brodt mi ha aiutato molto, nei giorni di Monaco. I problemi alle ginocchia mi avevano abbattuto moralmente, lui mi ha tranquillizzato. Se credi nel tuo coach, impari a credere anche in te stesso. Quanto a Jan, mia moglie, è sempre rimasta fuori dal villaggio olimpico, ma ci incontravamo ogni giorno. Mi ha sostenuto, mi ha caricato. Era lei a ricordarmi ogni volta che avrei vinto la mia sfida”.
LA VOLATA. Le parole di Jim McKay, storico commentatore sportivo della ABC, pronunciate durante quegli ultimi duecento metri della finale di Monaco, restano vive nell’immaginario collettivo. “Guardate lo scatto di Dave Wottle… sta arrivando… Dave Wottle tenta di andare a prendere la medaglia d’oro!”.
Nessuno, ormai, se lo sarebbe aspettato. C’era stata subito quella partenza ad handicap, Dave e il suo berretto fuori dalle inquadrature, con almeno dieci metri da recuperare sulla coda del gruppo. In una finale olimpica lunga due giri di pista. “Fui pervaso da un senso di terrore, quando mi resi conto di come si erano messe le cose. Mi trovai subito così indietro e pensai che ero fuori dai giochi…”
All’inizio dell’ultimo giro, l’americano si rese conto che il suo ritmo restava regolare, mentre davanti iniziavano a spegnere la fiamma. “Avevo ripreso il contatto con il gruppo. Ero di nuovo in corsa”. Tutto negli ultimi 200 metri: la risalita, saltando uno a uno gli avversari. Ancora quarto, all’imbocco dell’ultima curva. Il primo a cedere all’allungo imperioso del runner col cappellino fu il keniano Ouko. Nemmeno Dave immaginava di poter andare molto oltre: “A quel punto, pensavo di poter provare a prendermi la medaglia di bronzo. Ma niente mi avrebbe fermato fino al traguardo. Così passai anche Boit, poi io e Arzhanov ci buttammo sul traguardo e lui inciampò e cadde”.
Mai successo. E irripetibile. Tre centesimi a dividere il primatista del mondo e il campione europeo. 1’45”86 per Wottle, 1’45”89 per Arzhanov. Dopo aver alzato le braccia sul traguardo, lo statunitense si rese conto che quella caduta del sovietico, che tanto assomigliava a un tuffo disperato, metteva qualche dubbio sul suo successo: “Solo quando vidi il mio nome apparire sul tabellone luminoso mi resi conto che ero davvero il nuovo campione olimpico”.
L’UOMO DISTRATTO. Era destino che Dave facesse parlare di sé. Dopo le controversie dei giorni di vigilia, dopo quella cavalcata folle e vincente, ne combinò una anche al momento della premiazione. Sul podio, mentre risuonava “The Star-Spangled Banner” accendendo il patriottismo di tutti gli americani in mondovisione, lui se ne stava immerso nei suoi pensieri. Con quel buffo cappellino da golf in testa. Immediatamente, partì ogni sorta di congettura. Erano anni difficili, e quello, si pensò, era certamente un qualche atto di protesta. Ma contro chi o che cosa?
“Solo dopo, quando in conferenza mi chiesero perché l’avevo fatto, mi resi conto che… l’avevo fatto. Insomma, mi ero semplicemente dimenticato di averlo ancora in testa. Iniziai a scusarmi in tutti i modi. Per fortuna, più tardi mi arrivò un telegramma del vicepresidente Spiro Agnew, che anche a nome del presidente Nixon scriveva questa frase: che tu tenga o meno in testa il cappello, sei il tipo di americano di cui ho rispetto”. Caso chiuso.
NELLA STORIA. Non andò altrettanto bene nei 1500 metri, la corsa sulla distanza più amata. Wottle si fermò alle semifinali. “Dopo il successo, peccai di eccesso di autostima. L’umore era completamente cambiato, rispetto ai giorni della vigilia, quando lottavo coi miei malanni. Ero il campione olimpico degli 800 metri, mi sentivo in grado di battere chiunque. Non andò così, e fu un enorme dispiacere perché il mio obiettivo, quando ero arrivato a Monaco, era proprio fare qualcosa di grande nei 1500”.
Tra la vittoria del 2 settembre e la semifinale perduta del 9 settembre, era cambiato ben altro che l’approccio mentale di un campione alla gara. I Giochi avevano perduto la loro innocenza. Il concetto di neutralità olimpica era stato disintegrato dall’assalto dei terroristi di Settembre Nero alla palazzina degli atleti israeliani al villaggio olimpico, che portò in seguito alla morte di undici di loro, oltre che di cinque fedayyn e un poliziotto. Dave Wottle visse il dramma da vicino: la sua stanza, che condivideva con Frank Shorter, che a sua volta avrebbe conquistato l’oro in maratona, era a un centinaio di metri in linea d’aria da quella degli israeliani.
Tre anni dopo il giorno della gloria, la carriera di Dave Wottle era già ai titoli di coda. Colpa, ancora una volta, di quei tendini così fragili. Diventato un dirigente amministrativo scolastico, ha chiuso la carriera lavorativa al Rhodes College di Memphis nel 2015. Insieme alla sua Jan ha cresciuto tre figli e cinque nipoti. Non ha mai negato la sua presenza a chi gli chiedeva di raccontare quei due giri di pista incredibili, destinati a restare nella storia dell’atletica leggera. “In un modo o nell’altro, quella gara riaffiora alla memoria ogni giorno. Una medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi è qualcosa che si ricorda con piacere, perché dovrei negarmi? Chi la dimentica più, quell’emozione?”

Runner's World, marzo 2018

martedì 26 febbraio 2019

PERCHE' AMMIRO QUEST'UOMO...



E’ anche un fatto generazionale. Al di là dei meriti tecnici e umani, che mi sembrano evidenti. Perché un conto è vincere dove c’è una tradizione, dove le risorse non mancano davvero mai, un conto è farlo dove parlare di pallacanestro è come insegnare una lingua nuova, sconosciuta fino a poco prima. Vincere in posti come Sassari o Cremona. Mica dimenticati da Dio, per carità, ma lontani anni luce da quelli che da sempre sono considerati i salotti buoni del basket.
Ma è anche un fatto generazionale, appunto. Sarà che mi ci sento frullato dentro, a questo mondo del lavoro che ti guarda storto se mostri la carta d’identità, che ti esamina partendo dai dati anagrafici. Senza pensare alla ricchezza che sta dentro a quei dati. All’esperienza, alla consapevolezza, alla solidità, allo spessore umano. Alle mille cose vissute che possono diventare certezze da spendere.
Invece, è un mondo che “rottama”. Oggi i sessantenni, forse già i cinquantenni. Domani, anche i trentenni saranno roba passata. Una corsa a perdifiato, pazza, sregolata, venduta a una squilibratissima idea di “progresso”. Senza capire che ci si arricchisce mettendo insieme le risorse, la freschezza dei giovani e la conoscenza dei “vecchi”, se proprio volete chiamarli così.
Io uno come Meo lo amo anche per questo. Perché va dritto per la sua strada, e ha uno spirito ragazzino che fai fatica a rincorrere.
In qualche modo, devo ringraziarlo. A nome di una generazione.