sabato 28 settembre 2013

GIGI, CHE NUOTAVA VERSO LA LIBERTA'




Addio a Salmi, promessa dell’atletica negli anni Sessanta e leggenda
del nuoto Master bolognese in tempi recenti. Era nato nel 1950


di Marco Tarozzi

Ci si sente sempre un po’ più soli, e più poveri, quando a lasciarci sono le persone vere. Quelle che hanno onorato la vita coltivando valori come la passione, il rispetto, l’armonia, il talento. Quelle che avevano (e hanno) qualcosa da dirci, e quel qualcosa ce l’hanno lasciato addosso come un’eredità.

Gigi Salmi era una di quelle persone. Ed era un grande uomo di sport, per quanto sconosciuto ai più, avendo passato la vita a minimizzare le sue imprese. Un po’ per un innato senso di orgogliosa modestia, un po’ perché non era il tipo da mettersi a sfogliare l’album dei ricordi: valicato il muro delle sessanta primavere, continuava a fare progetti e a mettersi in gioco, senza voltarsi indietro. Una quercia dritta che aveva passato anche momenti delicati, difficili, ma ti metteva addosso un’idea di “forza dentro” meravigliosamente spaventosa, roba che niente e nessuno sarebbe riuscito a spezzare. Così credevamo, senza tener conto della bestialità di certi mali che agguantano subdoli e spazzano via senza lasciare il tempo di pensare, di far su la propria vita come una stanza da riordinare.

Pierluigi Salmi da ragazzo faceva atletica leggera. Da protagonista. Già lo chiamavano Gigi, era un talento in sboccio, giocava col cronometro con tempi eccezionali. Di lui si ricorda un 2:29 nei 1000 metri stampato ad appena diciassette anni, e un 3:54:6 nei 1500 ottenuto un anno dopo, nel lontano 1968 e su una pista in terra rossa. Sembrava destinato a chissà quale futuro, e aveva già iniziato a farsi notare su ribalte internazionali, quando un problema ai reni lo costrinse a dire basta alla corsa, alla pista, all’atletica.

Sportivo nell’anima, passò al nuoto e in età più matura ne divenne un’icona, a Bologna. Tra i primi a sposare la filosofia delle “acque libere”, oggi splendidamente rappresentata da un’altra bolognese felice e vincente, Martina Grimaldi. Gigi è stato una leggenda tra i Master, ha vinto tanto, è salito molte volte sul podio ai campionati italiani, ma nessuno ha mai sentito dalla sua voce l’elenco dei trionfi e dei trofei. A lui, del nuoto come dell’atletica e in generale dello sport, interessava il lato umano. Cioè la conoscenza di quelli che popolavano quel mondo, che era anche il suo. E’ stato un maestro per tanti, ma alla forza dei risultati ha sempre unito quella aggregante della sua umanità, che conquistava il prossimo. Non entrava nella vita altrui mostrando medaglie, era molto più facile che fosse lui a dichiarare ammirazione per gli altri, con una disarmante e serena sincerità. Con addosso la sicurezza spiazzante di un maestro zen, che ti spiega la vita facendoti credere di farsela spiegare.

Allegro, compagno di vita e di discussioni spesso profonde, a volte goliardico, sempre tenace nella sua dedizione a una disciplina, il nuoto, che lo faceva sentire libero e parte di un mondo che avvolge e compenetra, il mondo magico dell’acqua di cui si era innamorato. Lascia la moglie e due figlie ancora troppo giovani. Come in fondo sapeva essere lui, un ragazzo del 1950 che nel mare sembrava aver trovato un segreto per l’eterna giovinezza. Per questo oggi le vigliaccate del destino ci sembrano qualcosa di inimmaginabile, prima ancora che assurdo.

Renonews, 23 settembre 2013

martedì 6 agosto 2013

ADDIO A BALLACCI, IL "GUERRIERO" CHE TENEVA TESTA A DALL'ARA



di Marco Tarozzi

Dino Ballacci aveva fatto il partigiano. Brigata Osoppo. Combatteva per liberare la sua terra proprio come aveva imparato a combattere sui campi di calcio, fin da ragazzino. E come avrebbe fatto ancora per anni a guerra finita, vestendo per dodici lunghe stagioni la maglia del suo Bologna.
Aveva iniziato a tirar calci all’oratorio di Sant’Egidio, e lì l’avevano scoperto Biavati e Sansone. Trafila nelle giovanili rossoblù, poi appunto la guerra e un ritorno in campo non immediato, perché il presidente Dall’Ara si accorse che il ragazzo non era tornato dalle colline con la condizione dell’atleta. Qualche settimana a fare l’impiegato, poi finalmente (e di nuovo) una maglia rossoblù da indossare. Stando dietro, in difesa, a controllare gli avversari più pericolosi. Con una grinta e una tenacia che ne avrebbero fatto un titolare inamovibile di lì a un paio di stagioni. Un metro e ottanta di carica e “cattiveria” agonistica, un gladiatore quasi insuperabile sulla fascia sinistra. E un carattere altrettanto combattivo.
Restano nell’aneddotica rossoblù le estenuanti trattative con Dall’Ara per i rinnovi del contratto, col presidente che, narra una leggenda non molto lontana dalla realtà, lo riceveva con una pistola in bella mostra sul tavolo della scrivania, e allora Dino aveva preso l’abitudine di presentarsi anche lui con un revolver alla cinta, sai mai. Poi, comunque, alla fine l’accordo si trovava sempre…


E ancora, quello storico faccia a faccia con Gipo Viani, che gli agitava i pugni davanti alla faccia. E lui non arretrava un metro: “Come allenatore la rispetto, come uomo non provi a mettermi le mani addosso o la rovino…” Forte come una roccia, generoso come chi ha passione per quello che fa. 306 presenze in rossoblù, che gli valgono un posto tra i primi venti “fedelissimi” di tutti i tempi. Una presenza anche in azzurro, a Milano contro l’Egitto, subentrando a Cervato. Nel Bologna, nel suo Bologna, fino al 1957, prima di andare a chiudere la carriera passando da Lecco, Lucchese, Portogruaro. Dove avrebbe fatto anche l’allenatore-giocatore scoprendo ragazzini che si chiamavano Furlanis e Cimpiel, e segnalandoli subito al suo Bologna. Perché l’amore è tutto.

E poi una lunga trafila da tecnico, a Reggio Emilia, Prato, Catanzaro, Catania, Arezzo, Pistoia, Ancona, Massa, Isernia. La provincia profonda dove il pallone è un Dio minore che incanta e innamora. Ad Alessandria se lo ricordano bene: perché è stato il tecnico dell’ultima promozione in B, ormai quasi quarant’anni fa, e perché un giorno attaccò al muro un giovane piuttosto arrogante che aveva parlato male di lui, tale Luciano Moggi…

Dino Ballacci viveva da tempo nella campagna imolese, ma fino a un paio d’anni fa se ne stava spesso e volentieri in compagnia di chi amava gli stessi colori, tifosi e amici che non mancavano di invitarlo a feste a tema rossoblù. Se ne è andato a ottantanove anni, a raggiungere quelli della gloria e della storia, campioni che non incontreremo più e non dimenticheremo mai. E lì ci sarà posto anche per lui, il partigiano che non ha mai smesso di battersi per passione.

Renonews, 6 agosto 2013


mercoledì 31 luglio 2013

CIMPIEL: “IL MIO CALCIO TRA EUSEBIO E PELE’”


di Marco Tarozzi

Paolo Cimpiel non ha mai smesso di correre in mezzo alle praterie del calcio. Le attraversa tranquillo, con un sacco pieno di palloni e un altro stipato di ricordi. I primi li usa per insegnare il verbo ai ragazzi, a quelli che non l’hanno mai visto tra i pali ma sanno che il mister è un tipo in gamba, che ci sa fare. I secondi li tira fuori uno alla volta, con pudore e senza enfasi, e sono storie che arrivano da un altro calcio, da un altro mondo. Come le leggende: antiche, immortali. Lo ha fatto anche quella splendida sera di giugno in cui si sono aperti i cancelli del Dall’Ara per parlare di Bologna, di emozioni da stadio, di calcio vero sotto la luna. E i suoi aneddoti hanno stregato i fortunati che c’erano.
Paolo è stato un globetrotter del calcio, ma ha sposato una bolognese e alla fine è tornato a Bologna, o meglio a Casalecchio, per restarci definitivamente. In casa, in bella mostra come un trofeo, tiene la foto che vale una vita nel calcio: lui con la maglia dei Toronto Metros, Pelè con quella dei Cosmos. Belli fermi, in posa insieme, sorridenti. Da raccontare, ma una cosa per volta: prima ci sono i ragazzi.
“Mi piace lavorare con loro. Dico, lavorare: lo sanno che c’è un momento per il gioco e uno per fare sul serio, in campo bisogna fare la cosa giusta. Ora alleno insieme al “mitico” Villa, mi diverto sempre anche se i giovani non hanno più voglia di stare in porta, hanno quasi paura. Dei genitori, soprattutto… E’ destino, finirò col perdere il lavoro…”.
Intanto, però, imparano l’arte che Cimpiel ha insegnato a tanti. “Dieci anni alla Compagnia atleti, a crescere giovani talenti che si chiamavano Toldo, Seba Rossi. E poi il Bologna, prima dell’arrivo della dirigenza Gazzoni”.




Il Bologna, appunto. Parte da lì, la storia. Primi anni Sessanta: Paolo Cimpiel, classe ’40, è un portierino nato ad Azzano, provincia di Udine, e cresciuto nel Portogruaro. “Prima, nelle sfide di paese, incrociavo Zoff che abitava a pochi chilometri da me. Una volta giocammo in un posto che non aveva nemmeno le docce, e finimmo a sciacquarci in un lavatoio. Dino se lo ricorda ancora. Poi lui andò all’Udinese e io al Portogruaro dove mi vide Ballacci, ex rossoblù, spedendomi a Bologna nel ’59”.

Gavetta in Serie C, a Trapani. Poi il ritorno a Bologna e il lancio in prima squadra, con Bernardini. “Prima in Mitropa Cup, dove vincemmo. Poi in campionato, al posto di Santarelli. Era il ’62-63, l’anno del “così si gioca solo in Paradiso”. Eravamo forti, anche se spesso inciampavamo con le grandi. Avevo iniziato bene, ma poi arrivò la maledetta domenica contro la Juve.Presi un gol impossibile da metà campo e ciao… Allora un portiere di ventidue anni non dava sicurezza, si cercava il numero uno più maturo. Era la prassi. Non ebbi più chances, e l’anno dopo arrivò Negri. Iniziai a girare l’Italia, prima in prestito, poi a titolo definitivo dopo la morte di Dall’Ara. Brescia, Verona, Catanzaro. Ma intanto mi ero sposato con Marina, che è nata qui e non si sarebbe spostata per niente al mondo, e sapevo che a Bologna alla fine ci sarei tornato”.

Altre tappe. Cesena, con la promozione in B, tre anni fantastici a Taranto, il Pescara dove Cimpiel arrivò chiamato da Tom Rosati, guadagnandosi un’altra promozione. “Ma anche lì dopo un paio di stagioni arrivò Piloni dalla Juve e dovetti farmi da parte. Ormai avevo trentacinque anni, la catena era lenta. Dissi basta”.

Mentre sta appendendo i guanti al chiodo, Paolo riceve la telefonata che gli allunga la carriera. Da Toronto. “Chinaglia aveva già scelto l’America, e anche Bulgarelli e Perani l’avevano assaporata. Giacomo aveva giocato nell’Hartford, in Connecticut. E Marino, che aveva accompagnato Bob Vieri da dirigente rossoblù, finì per divertirsi un’estate laggiù in maglietta e calzoncini. Era il ’76, non è che pensassi di diventare miliardario, attraversando l’oceano. Ne parlai con mia moglie, decidemmo di andare a divertirci, a scoprire un mondo nuovo. A quell’epoca mica giravano i soldi di oggi, ma quell’esperienza mi ha arricchito dentro, questo posso dirlo. Ho coltivato amicizie che durano ancora, ho anche vinto un campionato. In squadra con un certo Eusebio, scusate se è poco. Certo, era a fine carriera, aveva giocato un paio di campionati in Messico, ma ai fuoriclasse il tempo non può togliere il talento. New York ho giocato contro Chinaglia e Pelè, a Toronto ho portato ‘O Rey e Beckenbauer nella comunità italiana, che è numerosissima. Organizzammo anche un’amichevole per raccogliere fondi per i terremotati del Friuli, e loro non mancarono”.

 
 
Due anni in Canada, il ritorno in Italia e figurarsi se Paolo Cimpiel dice basta. “Arrivo a trentotto anni e qui hanno appena riorganizzato la terza serie in C1 e C2. Mi chiama l’Osimana, per andare a fare la chioccia a un paio di giovani emergenti. Loro si infortunano e io torno tra i pali. Fino a quarant’anni suonati. E le sfide più belle erano quelle con l’Elpidiense. Lì c’era Ricky Albertosi, ci guardavamo e ci scappava da ridere. Era una bella rimpatriata tra nonni”.
Ma poi, certo, era destino chiudere la saracinesca prima o poi. Era destino ritrovare Bologna, il calcio con le stellette e una parentesi rossoblù troppo breve. Prima di mettere radici a Casalecchio, per insegnare il mestiere ai ragazzi. Che qualcuno, in campo ad ascoltare calcio, ci sarà sempre e comunque.

Bologna Rossoblù, agosto 2013
 


giovedì 27 giugno 2013

FIASCONARO E QUEL RECORD IN BIANCO E NERO


Marcello Fiasconaro
27 giugno 1973, Arena di Milano
800 metri in 1:43:7
Nuovo record del mondo

Avevo tredici anni. L’Arena era un catino in bianco e nero dentro la tv che trasmetteva il “Rischiatutto”, ma anche “Il Poeta e il Contadino” con due pazzi surreali e in anticipo sui tempi che si chiamavano Cochi e Renato. Era quella la mia tv, e l’atletica come altri sport (il pugilato di Benvenuti e Griffith appena qualche anno prima, quello del ritorno di Muhammad Ali sul ring, la pallanuoto della Pro Recco e di Eraldo Pizzo e Alberto Alberani, i documentari su Walter Bonatti) ci entravano ancora dalla porta principale.

Avevo tredici anni e “March” piombò nella mia vita a grandi falcate. Il tempo di correre 800 metri più veloce di chiunque al mondo. Il tempo di far soffocare un campione come Jozef Plachy, che aveva provato a stargli dietro, fino a trovarsi con le gambe di marmo e la disperazione negli occhi. “March” veniva dal Sudafrica, aveva ovviamente una passionaccia per il rugby e qualcuno lo aveva convinto a correre, vedendolo volare sul campo. Per questo era arrivato in Italia, posto della memoria: papà Gregorio era di Castelbuono, uno dei luoghi sacri della corsa nel nostro Paese. Lì ancora oggi il bar-pasticceria in piazza Margherita, cuore del paese, si chiama Fiasconaro. Un cognome comune, e parentele. Sono partiti in tanti, da lì, cercando un’altra vita.

Avevo tredici anni e mi incantai davanti a quella corsa scombinata e potente, a quel gesto atletico che mi ispirava libertà, come i capelli al vento e quella faccia un po’ così, da uno che non si prende poi troppo sul serio, o non prende sul serio la vita intorno. Marcello Fiasconaro, “Jet” per quelli che cercano per forza il nickname, a scapito dell’originalità, sembrava uno di quelli a cui tutto riesce facile. Ma non era esattamente così, e per arrivare là in alto si era messo anche lui, come Pietro Mennea, asceta della velocità, nelle mani di Carlo Vittori, uno che professava la religione del lavoro per i risultati. Lui, intanto, correva spingendosi sempre un po’ più in là, come quella sera all’Arena, dove giocò a “facciamo a chi ne ha di più”, e dopo raccontò che era arrivato a un passo dallo scoppiare, e invece scoppiò l’altro, il cecoslovacco.

Avevo tredici anni, e “March” era il capotribù di una stirpe guerriera, e gli altri avevano tutti capelli lunghi e baffi e facce donchisciottesche. E si chiamavano Pippo Cindolo, tra i grandi della maratona nel mondo, pioniere da queste parti, e Franco Fava, Gianni Del Buono. E Franco Arese, l’unico che ai capelli aveva dovuto rinunciare, e allora compensava col baffo. Era una bella Italia, una bella atletica. Talento e facce giuste, di quelle che ispirano un ragazzino. Dopo, nella mia vita sarebbero arrivati Pre, carisma assoluto, e John Walker e Rod Dixon, con le loro canotte nere e tutta quella classe. E ancora Bill Rodgers, Frank Shorter, Alberto Salazar. Fino a Henry Rono, il campione delle grandi salite e delle grandi cadute. Dopo. Il salto oltreconfine.

Avevo tredici anni e avrei sognato a lungo quella notte in bianco e nero. Quella corsa contro il tempo che mi avrebbe aperto le porte dell’atletica. E registrato la vita, in qualche modo, perché in pista impari cose che possono servirti anche fuori.

Avevo tredici anni, ne sono passati altri quaranta. Magari è il momento di ringraziarlo, quel sudafricano di Sicilia che sembrava correre sospinto dal vento. E invece era tutta roba sua. Era il talento di “March”.

lunedì 24 giugno 2013

EZIO, IL BOMBER CHE RESTO’ A BOLOGNA PER AMORE

di Marco Tarozzi
Quattro anni dopo. Tutto è cambiato, eppure tutto è come prima. E’ nuovo il calcio, che evolve a ritmi che un tempo erano impensabili, non  sempre nella direzione migliore. E’ rimasto l’affetto, uguale a sé stesso come in tutte le storie d’amore degne di questo nome. Quattro anni dopo Ezio Pascutti si è affacciato nuovamente dagli spalti del Dall’Ara, ed ha sentito la curva intonare il suo nome. Molti di quei ragazzi non l’hanno nemmeno visto giocare, ma le leggende non hanno bisogno di prove inconfutabili. Basta la parola dei padri, bastano i gesti tramandati. E lui, friulano un tempi schivo e spigoloso che da Bologna ha scelto di non separarsi più, è esattamente questo. Leggenda. Come Giacomino, come quel suo Bologna che incantava. L’anno prossimo sarà mezzo secolo esatto dall’ultimo scudetto, ma il nome di Pascutti è ancora una favola bella da raccontare, rievoca sogni di gloria e accende la passione. E i cori.
“E’ stata un’emozione, c’è poco da girarci intorno. E’ bello sentire che questa città e chi ama il calcio non ti ha dimenticato. Significa che ho fatto bene a restare qui. Certo, sono stato a un passo dal finire altrove. Potevo andare all’Inter in un giro di scambi che avrebbe dovuto portare qui Gigi Riva. L’ho saputo dopo, ovviamente. Allora non è che uno potesse ribellarsi più di tanto a un trasferimento, non era come adesso. Ma è andata bene. Da qui non mi sono più mosso, nemmeno dopo aver chiuso col calcio giocato. Quando mi è rimasta la casa di famiglia in Friuli ho deciso di venderla. Le radici restano, ma vivo qui da quasi sessant’anni e Bologna è la mia vita. Ci ho conosciuto mia moglie: passava tutti i giorni all’uscita da scuola a forza di vederla ho trovato il coraggio di farmi avanti ed è finita che ci siamo sposati. Lo scudetto? Beh, quello è servito ad ancorarmi ancora di più a questa città”.
Bandiera vera, come non ne esistono più. Totti a Roma, Del Piero a Torino finché ha retto. I tempi cambiano anche in questo. Al Dall’Ara, Ezio ha abbracciato il papà di Alino Diamanti, uno che bandiera potrebbe diventare, se non si farà rapire dalle sirene del calcio d’alta quota.
“Non posso biasimarlo. Le cose sono cambiate, rispetto ai miei tempi. Non solo: è cambiato anche il Bologna. Io ad andarmene non ci pensavo proprio, ma è vero che giocavo in una squadra di vertice. Oggi è dura dire di no, se ti cerca una squadra come la Juve. E se lui dovesse fare una scelta del genere, bisognerebbe essere contenti per quello che ci ha dato e non considerarlo un traditore”.
In quel Bologna da scudetto lui arrivò nella stagione 1954-55, ad appena diciassette anni. Per viverci un’intera carriera, fino al 1969: 294 partite e 130 reti, senza nemmeno calciare un rigore. E tra poco racconteremo il perché. Un ragazzo chiuso, grintoso, quello che arrivò a Bologna. Alle spalle un’infanzia dura, e due fratelli che stravedevano per lui, portati via troppo in fretta dal destino: Enea, il maggiore, costretto a emigrare in Canada per lavorare e poi rapito da un male incurabile; Paride annientato dalla guerra e dalla prigionia in Germania. Ezio, il ragazzino, mise in fretta gli aculei contro un mondo che cercava di dargli schiaffi. Cresciuto col pallone nella testa, capì subito che Bologna era la grande occasione e ci si buttò con coraggio.
“Ascoltai i consigli di Enea. Mi diceva: calcia di sinistro, impara perché dopo Carapellese in Italia un’ala sinistra vera non si è più vista. Strada facendo ho incontrato il mio mentore, Gipo Viani. Fu lui a volermi a Bologna. Mi ero fatto notare nel Pozzuolo e nel Torviscosa, ero veloce e segnavo a raffica. Arrivai qui e non dimenticai le buone abitudini. Anche se all’inizio non fu semplice, perché la mia rapidità mi portava anche a sbagliare occasioni ottime, e non fui subito capito”.
Ci mise poco, la piazza, a innamorarsi. Ed Ezio fece in fretta ad entrare nella mentalità dei bolognesi, pur mantenendo qualcosa del suo rigore e del suo orgoglio di “furlàn”. Gli restò quel carattere mai docile, per il quale ha anche pagato più del dovuto, in certe occasioni. Come il 13 ottobre del ’63, giorno in cui una semplice espulsione diventò un caso nazionale, e Bologna seppe stendere un’ala protettrice sopra il suo bomber.
“Quell’episodio mi ha perseguitato. Urss-Italia a Mosca. Finì 2-0 per loro, ma in quel momento avevano appena segnato il primo gol. Dubinski, il difensore che mi marcava, mi arrivò da dietro mentre ero lanciato a rete, con un falllo cattivissimo. Io mi ero appena ripreso da uno dei miei infortunii al ginocchio. Non ci vidi più e lo presi per il collo. Roba leggera, lui fece parecchia scena. Ma diventò un caso politico: era la prima sfida in trasferta coi russi, c’era una decina di parlamentari in tribuna, la stampa mi mise in croce. Non ci furono squalifiche dall’Uefa, ma da allora per anni in ogni stadio italiano venivo accolto a fischi, quasi come un traditore della patria. Dovevo mettermi i tappi nelle orecchie per non sentire. Ma i fischi non mi avrebbero mai piegato: sono stati gli infortunii a farmi dire basta, nel 1969”.
Di quei 130 gol ricorda il più bello, che per lui non è quello della famosa foto di Parenti in cui anticipa Tarcisio Burgnich in tuffo.
“Quello è un bel ricordo, perché Tarcisio è stato l’avversario più duro. Un compaesano, dal mio paese natale al suo ci sono meno di venti chilometri. In campo parlavamo in dialetto e litigavamo in continuazione. Però quando venne a Bologna da tecnico mi chiamò a fare l’osservatore. Il compagno più importante, invece, è stato Giacomo. Se ho segnato tutti quei gol, il merito è anche suo. Il più bello, però, lo feci contro il Genoa, su cross a rientrare dal fondo di Maraschi. Una meraviglia, solo che quel giorno non c’era nessuno a immortalare il momento. La storia dei rigori mai tirati? Ne sbagliai uno in Coppa Italia, contro l’Udinese: mi feci la nomea e non ne tirai più. Quando ti “battezzano” è brutto, è come la storia che sarei stato un attaccabrighe in campo: sono molte tredici espulsioni in quindici anni?”
E’ tornato “Pascòt” come lo chiamava da ragazzino Gianni Morandi, oggi presidente onorario rossoblù, che un giorno andò fino alla sede del Carlino per chiedere a Italo Cucci di aiutarlo a conoscere il suo eroe (e con lui c’era un meno conosciuto Lucio Dalla, che invece stravedeva per l’Onorevole Giacomino). E’ tornato e si è fatto un’idea del Bologna di oggi.
“Stagione positiva, e la salvezza anticipata è merito di Pioli, che ha saputo gestire un gruppo numeroso e superare i momenti difficili all’inizio. Spero che la società riesca a trattenere Gilardino. E’ un attaccante d’area come pochi in Italia, e questa stagione rossoblù per me lo ha rigenerato. Non è il primo a cui succede”.
Magari, chissà, anche il Gila non si allontanerà più da Bologna. Come hanno fatto in tanti. Come ha fatto Ezio, che di Bologna è diventato un pezzo di storia.
Bologna Rossoblù, giugno 2013

mercoledì 5 giugno 2013

UNA SERA IN CERTOSA, CERCANDO LA MEMORIA ROSSOBLU'


di Marco Tarozzi

“Il filo della memoria, quando si spezza, va sempre riannodato”. Bella, questa annotazione che i ragazzi del Centro Bologna Clubs (ragazzi di ogni età come si conviene a chi sa tenere acceso il canale della passione…) si sono appuntati, e dalla quale sono partiti per inventarsi un progetto di grande valore culturale. Il punto di partenza, e tutto sommato anche d’arrivo, è semplice: togliere la polvere ai ricordi, renderli nuovamente vivi, fruibili, accessibili. In questo caso sono i ricordi del Bologna Football Club, che in oltre un secolo di vita ha attraversato le vicende e condiviso i destini della città, nella gloria e nella tragedia.

Il risultato si chiama “Percorso della Memoria Rossoblu”, e la prima verifica di un viaggio nella storia che è soltanto all’inizio sarà la passeggiata serale che venerdì prossimo, 7 giugno, porterà oltre un centinaio di persone (numero chiuso per motivi logistici e organizzativi, prenotazioni già “bruciate”) a camminare in uno dei luoghi più suggestivi e meno conosciuti di Bologna, la Certosa, tra i luoghi dove riposano i grandi campioni che hanno vestito la maglia rossoblù. E’ un inizio, dicevamo, perché la ricerca anagrafica realizzata dal Museo civico del Risorgimento è in corso, e promette novità e probabilissime repliche. Ma intanto è il caso di ringraziare Cristian Ventura e Stefano Dalloli, che hanno avuto l’idea e l’hanno perseguita con determinazione. Perché ci aiutano a ritrovare le nostre radici e perché sfatano luoghi comuni sui tifosi beceri e relegati ai margini della società. Questa iniziativa parte da loro, dai tifosi del Bologna, ed è un’operazione culturale nuova, suggestiva, di grande valore. Oltre che un atto d’amore.

Venerdì verranno ricordati alcuni grandi del Bologna, dai pionieri come Cesare e Guido Alberti, Angelo ed Emilio Badini, Guido e Mario Della Valle, “Pirèin” Genovesi e “Teresina Muzzioli”, ai campioni che facevano tremare il mondo come Angelo Schavio, “Faele” Sansone, Amedeo Biavati, fino alla bandiera Giacomo Bulgarelli e al presidentissimo Renato Dall’Ara. Un viaggio nella gloria e nella tragedia, perché questa società ultracentenaria ha attraversato due guerre mondiali e scollinato un millennio, e la sua vita è la stessa di una comunità che ha festeggiato e sofferto, gioito e pianto.

La serata (inizio alle 21, ritrovo un quarto d’ora prima all’ingresso principale della Certosa) sarà condotta da un Virgilio petroniano che avrà sembianze e voce di Orfeo Orlando, attore e tifoso. I narratori saranno alcuni giornalisti bolognesi che si alterneranno lungo un percorso fatto di letture e contenuti multimediali: Carlo Felice Chiesa, Marco Tarozzi, Alberto Bortolotti, Luca Sancini e Piero Gasperini, e con loro Roberto Martorelli, referente nell’ambito del progetto di valorizzazione della Certosa e del Museo del Risorgimento, che ha collaborato alla realizzazione del progetto con il Centro Bologna Clubs. Regista della serata sarà Simone Barbuti, che realizzerà un video sull’evento.

Un viaggio di grande suggestione per il quale è richiesto un  contributo di 8 euro: due saranno devoluti per la valorizzazione del Cimitero (Bologna ha la struttura più antica d’Europa, ma pochi bolognesi lo sanno), i restanti per il completamento del progetto “Percorso della Memoria Rossoblù” che prevede altre tappe e altre emozioni.

Renonews, 5 giugno

lunedì 15 aprile 2013

BOSTON, LA GUERRA DOVE NON TE L'ASPETTI


 
Stasera l’orizzonte si allarga, e all’orizzonte si vedono solo fumo, fiamme e morte. Stasera è il caso di parlare di quanto è sporca la guerra, che si infila proprio dove sta andando in scena la festa. Succede quasi sempre così, la guerra non ha pietà per i bambini, per gli anziani, per i civili, non è roba che si risolve tra mestieranti del male ma invade le case e le vite della gente che non vorrebbe mai incontrarla.
Ora è successo a Boston, e ci vorrà un po’ di tempo per inquadrare le cose, per capire di chi sia la mente vigliacca che ha pensato questa barbarie, la mano criminale che l’ha messa in atto. Si può solo ragionare sul fatto che non è un caso.
Come sempre, in questi gesti maledetti, è stato preso di mira un simbolo. Non una maratona, ma “la” maratona. La più antica, la più gloriosa, la più affascinante. Quella delle sette vittorie di Clarence DeMar. Quella che consacrò la leggenda di Bill Rodgers, “Boston Billy”. Quella del “duello al sole” tra Alberto Salazar e Dick Beardsley. Quella in cui per la prima volta una donna, Katherine Switzer,  riuscì ad iscriversi di nascosto, ingannando gli organizzatori perché allora (e stiamo parlando del 1967, non di cent’anni fa) l’idea che le donne potessero correre per 42 chilometri sembrava ancora fantascienza.
Quando si vuole colpire al cuore, far male alla testa oltre che al fisico, si agisce così. E’ un’organizzazione del terrore, ispirata da una follìa scellerata, ma dannatamente lucida nel prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Colpire là dove non ci si aspetta il male. Come in mezzo a 27mila persone arrivate da 96 nazioni del mondo, che si lasciano coinvolgere e trascinare da una festa collettiva. Un giorno di sport globale, e lo sport (si sa) quando è ispirato dalla passione tende ad abbassare la guardia. Non ha difese perché non immagina di doversi difendere.
E’ il Patriots Day, a Boston. Altro simbolo, quasi certamente non secondario per chi ha scelto di colpire. Ed è da sempre il giorno della corsa. Della vita. Non riesco a pensare a qualcosa di più vigliacco che interromperlo così, questo inno alla vita. La maratona è pace, la corsa è un abbraccio al mondo. La maratona sa rinascere sulle ceneri, lo dimostrarono a New York nemmeno due mesi dopo l’11 settembre. Rinascerà anche Boston. Reagirà. Ma oggi sta contando i suoi caduti, i morti e i feriti. Ha lo sguardo perso nel vuoto e mille domande che non potranno avere risposta, nemmeno se e quando si saprà la verità. Perché sono domande sulla natura umana, sulle capacità del male, sui deliri che ispirano le menti malate della guerra.
Oggi la maratona è anche questo. Un posto dove si fa la guerra. E non l’avremmo mai immaginato.

 

lunedì 25 marzo 2013

BEPPEGOL? ALL’INIZIO ERA SOLO SAVOLDI



di Marco Tarozzi

Arrivarono in due, nella calda estate del Sessantotto rossoblù. L’attacco del Bologna doveva ripartire da loro, e all’inizio tutti puntavano sul più maturo dei due, Lucio Mujesan, che era stato capocannoniere in B col Bari e aveva già venticinque anni. L’altro, al confronto, era un ragazzino: ventun’anni, ma già una stagione in A da 12 gol, con l’Atalanta. Si puntava su Lucio e venne fuori Beppegol. Il ragazzino, appunto. Giuseppe Savoldi da Gorlago.

“Che dire? Lucio aveva talento, qualità, ma nel calcio non si può mai sapere come va a finire. Le punte eravamo noi due, finì che alla lunga scelsero me. Ma i primi anni al Bologna non furono semplici. Eravamo le facce nuove: noi due, Cresci, Gregori. La società aveva deciso di “svecchiare”, di rinnovare una volta finito il ciclo del gruppo dello scudetto. Soffrimmo parecchio, rischiammo anche la retrocessione. Forse Lucio aveva addosso troppe pressioni, chissà. Io superai il momento duro e sì, divenni Beppegol”.

Non era cominciata bene, l’avventura. In un Bologna da rifondare, Savoldi arrivò con i suoi bei problemi da risolvere.

“Nell’Atalanta avevo messo in evidenza un buon gioco aereo, una notevole elevazione. Mi vollero per questo, a Bologna. Ma arrivai con un grosso problema alla schiena, e a un certo punto la mia carriera sembrava addirittura in discussione. Piano piano, invece, iniziai a stare bene e le cose presero ad andare per il verso giusto. Buoni campionati, due edizioni della Coppa Italia. Ecco, anche questo lo devo a Bologna e a chi in quei momenti continuò a credere in me”.

A Bologna, tra fine anni Sessanta e metà anni Settanta, i bambini nel cortile, dove ancora il calcio era allegria, volevano essere semplicemente Savoldi. Pensare che lui, bambino, pensava ad altro. O meglio, non solo al pallone. Per di più, quando scendeva in campo lo faceva da portiere.

“Sì, perché per me le mani erano una componente fondamentale del gioco. Non a caso mi dividevo tra pallacanestro e calcio. Amavo il basket, lo amo ancora. Ero un giocatore alla Caglieris, e arrivai fino alla Serie C. Ma ho fatto buone cose anche nell’atletica, a 14 anni ero campione provinciale di salto in alto, e anche da questo si spiega la mia capacità di elevazione. Insomma, per me contava semplicemente muovermi, fare sport. In una delle squadrette della mia gioventù mi tolsero dalla porta perché era venuto a mancare il centravanti. Cominciai a fare qualche gol e non mi tolsero più di lì. Poi arrivò l’Atalanta, e mi scelse. Fu allora che presi coscienza del fatto che potevo diventare un giocatore, fare del calcio una professione. E mi ci misi d’impegno”.

Tre stagioni in prima squadra, l’ultima con cifre giuste per farsi notare e acquistare da una squadra come il Bologna. Non più quello di quattro anni prima, ma società e città giuste per viverci un calcio migliore.

“Erano tempi belli. Andavi in centro e ti ritrovavi in mezzo alla gente. Eri parte della città. Io ero diventato un bergamasco bolognese, dopo qualche annata in rossoblù. E avevo ritrovato anche la pallacanestro. Dopo la partita si correva al Palasport, e io ero uno di qulli. Su quale sponda? Diciamo che frequentavo di più quelli della Fortitudo perché ci giocava Arrigoni, mio compaesano. Ma a me interessava semplicemente vedere del buon basket, e a Bologna si poteva. La gente mi ha amato, da voi. Beppe Savoldi, sì, quello con la maglia numero nove. Lo confesso, nel calcio si vive anche di questo. Tutte quelle attenzioni mi hanno fatto stare bene. E sette stagioni sempre nello stesso posto sono tante, per un calciatore. Un terzo della carriera. Quando finii a Napoli non dimenticai Bologna. Tant’è che ci ritornai appena finita l’avventura laggiù”.

Una storia che era iniziata col botto: Savoldi dal Bologna al Napoli per un miliardo e quattrocento milioni, più Rosario Rampanti e Sergio Clerici. In pratica, un affare da due miliardi: all’epoca, nessun giocatore al mondo era stato pagato una cifra simile.

“Eppure non mi sentii particolarmente sotto pressione, in quei giorni. Del resto, quei soldi mica li avevo messi in tasca io. Non c’entravo. Però avevo detto di sì, dopo esser stato vicino alla Roma e a un passo dalla Juve, perché per me era un salto in avanti nella carriera. Il Napoli era finito secondo dietro alla Juve nell’ultimo campionato, io avevo chiuso la stagione con 15 reti in 28 partite. Sembrò il matrimonio perfetto, e si fece. Con buona pace di tutti”.

Beppegol continua ad attraversare le praterie del calcio. Dopo i gol (tanti, 168 su 405 presenze, davanti nella storia del calcio italiano ne ha soltanto dodici…) ha fatto l’allenatore, il motivatore, il commentatore in tv. E persino l’attore, nel film “Il posto”, sceneggiato da Altan. Guarda al calcio di oggi e lo vede evoluto, naturalmente, rispetto al suo.

“Ma soprattutto sotto l’aspetto fisico, della velocità. La tecnica non è cambiata da allora, è soltanto più “allenata”. Giocatori come Mazzola, Rivera, Claudio Sala, come il povero Gigi Meroni non avrebbero avuto nulla da imparare da quelli di oggi. Vogliamo paragonare Rivera a El Shaarawi? Vince Gianni, è una spanna sopra. Tecnicamente, Mazzola era superiore a Cassano… Poi, io nel Bologna ho giocato accanto a uno dei più grandi, Giacomino Bulgarelli. Lui non era solo tecnica, ma anche testa. Sapeva ragionare. Ma non avrebbe mai potuto fare l’allenatore, per il carattere che aveva. Ragionava troppo. E infatti ha scelto altre strade per restare vicino al calcio. Volevo bene a Giacomo, era un amico”.

Il gioco del “chi è il Savoldi di oggi” gli piace il giusto, ma ci si adegua sorridendo.

“Ce l’avete qui. Sì, Gilardino un po’ mi assomiglia. O meglio: nessuno assomiglia a un altro, ma c’è qualcosa in lui che mi ricorda com’ero. Il modo di muoversi in campo, di cercare il gol: lui si muove in funzione di quello, ci crede sempre, in ogni azione. Sta sempre sul primo palo, come facevo io, o va sul secondo per fare sponda”.

Non ha dimenticato il Bologna. Lo segue e professa ottimismo.

“Si sta riprendendo, anche se il supporto societario non è quello dei tempi della gloria. Ma intanto è in Serie A, e alla fine è nato ancora un bel gruppo. Apprezzo Pioli. Ha qualità, idee e sa muovere i giocatori secondo le loro caratteristiche, senza farsi imprigionare dai moduli. Può far bene anche al timone di una squadra di alto livello. E poi sono contento per Diamanti: quando lavoravo per Sky lo vidi a Livorno e dissi: questo è da Serie A. Ma è discontinuo, mi dissero, non ha il carattere giusto. Invece è lì: e sono contento che abbia trovato la sua dimensione con il Bologna”.
 
da Bologna Rossoblù, marzo 2013


domenica 24 febbraio 2013

MARCO MASETTI: DA BOLOGNA A LONDRA PER "COSTRUIRE" L'ARGENTO DI TESCONI


Il Ct azzurro della Pistola: “Luca è un purosangue, non puoi frenarlo”

di Marco Tarozzi

Il Reno lo sfiora e lo sente nell’aria. Marco Masetti, Ct della Nazionale italiana di Pistola, abita a poco più di due chilometri dal nostro fiume, a Zola Predosa. Ma lo risale spesso quando punta verso Vergato, dove è attivo uno degli impianti di tiro a segno più importanti della regione, e non solo.
E’ stato un ottimo tiratore, capace di vincere cinque titoli italiani assoluti in carriera. E poi è passato dall’altra parte. A coltivare talenti, a instradarli, aiutandoli a non smarrirsi. Una decina di giorni fa ha risalito il grande fiume fermandosi a Sasso, per una serata di festa al Panathlon Valle del Reno, insieme a uno dei suoi campioni, quel Luca Tesconi, cuore e animo toscano, che ha regalato all’Italia la prima gioia olimpica a Londra, vincendo il giorno dopo l’apertura dei giochi la medaglia d’argento nella Pistola ad aria compressa 10 metri.
Ci credevano in pochi al ragazzo di Pietrasanta, alla vigilia della gara olimpica. Perché quando c’era da parlare del suo indubbio talento, saltava sempre fuori la faccenda degli alti e bassi, una costante della sua carriera fin lì. Ci credeva, però, Marco Masetti. Che sapeva cosa attendersi da uno come Luca.


“E’ sempre così. Quando parlo di lui so qual è il suo valore. Ha una grande forza: sa farsi scivolare le cose intorno. Mi hanno chiesto cosa c’è di mio nel suo argento olimpico e ho solo una risposta: poco. Siamo due caratteri diversi, lui è estroverso, ma ha una classe unica. Quando lo fai partire, non puoi più frenarlo. Devi lasciarlo correre, come si fa con i purosangue. Quando ne hai chiaro il talento, devi riuscire a sfruttarlo al meglio. Ecco, se ho un merito credo sia soprattutto questo: aver capito come approcciarsi a Luca”.

Ci sono stati momenti della preparazione in cui Masetti, con la sua esperienza, aveva già intuito l’epilogo della gara di Londra.

“Alle Olimpiadi, in qualificazione Luca ha fatto 584 punti. In  quel momento era quinto in classifica. Bene, io spesso in allenamento faccio tirare i miei atleti in condizioni di equilibrio precario. Con appoggi approssimativi, magari scalzi. E in quelle condizioni lui era l’unico ad arrivare a 580… Certo, lui ha sempre bisogno di cose diverse. Esercizi mai monotoni, che lo divertano. E’ un campione così: se non si diverte, non rende. Ma per dire quanto vale, basti pensare che con le nuove regole, ufficializzate dopo Londra, avrebbe vinto la medaglia d’oro. Perché ora nella fase finale si azzerano i punteggi delle qualificazioni, e alle Olimpiadi nella fase finale lui è stato il migliore risalendo dalla quinta alla seconda posizione”.

Tesconi non è solo, ovviamente. C’è una squadra da far crescere, dentro una realtà in cui Masetti si muove da tempo, e che dunque conosce meglio di chiunque altro.

“Mi sento libero di fare il mio lavoro. Come in ogni disciplina, c’è una classe dirigente sportiva che dà ovviamente direttive, ma scelta la linea politica, se nascono problemi ce li risolviamo tra noi all’interno del nostro gruppo. L’etica sappiamo rispettarla, anche quando i punti di vista divergono, come può capitare. Il gruppo, poi, è costruito bene. Il nostro preparatore atletico, Finardi, ha le idee chiare: è uno di quelli che pensano che se l’allenamento non ti crea qualche difficoltà, non è allenamento… lavora su tutto ciò che può aiutare a dare “disequilibrio”, per rafforzare il senso di equilibrio nel momento della gara. Per questa disciplina è una chiave di lettura importante. Stiamo facendo anche un ottimo lavoro con Claudio Robazza, lo psicologo che ci segue. Insomma, al di là della medaglia, credo si stia camminando sulla strada giusta”.

Una medaglia come quella di Tesconi aiuta a fare proseliti. E questa è uno degli argomenti più importanti e delicati, per Marco Masetti.

“Dobbiamo sfruttare l’effetto Olimpiadi per dare un po’ di impulso alla nostra disciplina. Perché l’interesse intorno al nostro movimento si accende in quei periodi. Appena prima, durante, subito dopo le gare olimpiche. Dobbiamo cercare di non ricadere nell’oblìo. Io sto cercando di portare avanti un progetto di ricerca del talento. Stiamo cercando di lavorare con le scuole. Ma il tiro a segno è una disciplina particolare. Oltre che uno sport, la Federazione assolve a un ruolo di Ente pubblico, è il luogo istituzionale nel quale ci si può addestrare all’uso delle armi. E diventa faticoso interfacciarsi con gli istituti scolastici. I ragazzi hanno genitori, che leggono i giornali e la tv, e certe notizie li mettono ovviamente in allarme. E’ complicato far capire che noi usiamo armi a basso profilo offensivo, lo è ancora di più entrare nelle scuole”.

In questo senso, spiega Masetti, a Vergato stanno facendo un lavoro encomiabile.

“A Bologna e Vergato abbiamo un paio di impianti che sono tra i migliori d’Italia. Quassù i responsabili dell’impianto sono stati bravi a trovare una sintonia con l’amministrazione e a far capire che il tiro a segno non è uno sport da mettere al bando, ma può insegnare molto ai giovani. Disciplina, equilibrio padronanza di sé. Sì, a Vergato stanno facendo un buon lavoro. Spero possano goderne i frutti come meritano”.

www.renonews.it, 22 febbraio 2013

Nelle foto: in apertura , la gioia di Luca Tesconi e Marco Masetti appena il toscano ha conquistato l’argento olimpico di Londra. Sotto, Masetti con Jessica Rossi




venerdì 15 febbraio 2013

ROTOLO, ORA ANCHE LA SFIDA CONTRO IL TEMPO




di Marco Tarozzi

Per dare un’idea piuttosto precisa della crisi della nobile arte del pugilato di cui spesso si discute, basterebbe un numero. Ventiquattro. Sono i giorni cheSimone Rotolo avrà a disposizione per preparare la sua sfida a Darren Barker, in palio il titolo intercontinentale IBF dei pesi medi.

Il talento bolognese, campione italiano di categoria dopo aver strappato il titolo a Matteo “Giaguaro” Signani e averlo difeso al PalaDozza contro il sardo Lorenzo Cosseddu, ha avuto notizia ufficiale della data soltanto ieri, mercoledì 13 febbraio. Dovrà salire sul ring dell’Alexandra Palace di Londra il 9 marzo. E in mezzo, appunto, ventiquattro giorni per mettere insieme una preparazione dignitosa.

Intendiamoci, Rotolo non è certo il tipo che fa tra un match e l’altro si mette in poltrona. Lui in palestra ci va tutti i giorni, sempre e comunque. E va detto che questa sfida la aspettava, dopo che era stato l’inglese a rimandare l’appuntamento di settembre per un infortunio. Ma da questo annuncio tardivo possiamo trarre conclusioni precise. La prima è che, in qualche modo, l’idea di combattere contro Rotolo non fa dormire sonni tranquilli a Barker. Mettere l’avversario in difficoltà, lasciandogli pochissimo tempo per preparare l’incontro, appare come una mossa strategica, dopo il rinvio autunnale. Ma ci domandiamo anche perché a Simone Rotolo, uno dei talenti più cristallini che il pugilato italiano abbia prodotto negli ultimi vent’anni, non sia mai stata data un’occasione decente in carriera. Quello che ha avuto, ed è comunque tanto, Simone se l’è dovuto conquistare con mille sacrifici, rubando tempo al lavoro, guadagnando niente in proporzione al valore messo in campo, combattendo di rabbia e di passione. E ci chiediamo dove sarebbe potuto arrivare questo ragazzo se avesse potuto boxare davvero da professionista, cioè concedendosi i tempi giusti, avendo a disposizione mezzi tecnici ed economici che nessuno gli ha mai offerto.

Rotolo è un fiore sbocciato nel deserto. Negli anni ha pagato organizzazioni confuse, incontri messi in cartellone all’ultimo momento, non sempre all’altezza delle sue possibilità. Ma si è sempre messo al centro del ring con pazienza, mostrando a tutti la sua classe e una tecnica che appartiene a pochi.

Con un bagaglio di 35 successi su 38 incontri da professionista, da campione italiano dei medi, va a Londra a sfidare questo Darren Barker che è stato campione del Commonwealth e d’Europa di categoria, che nel 2011 ha perso il treno del titolo WBC finendo sconfitto per ko dall’argentino Martinez. Dopo quel match, l’inglese che ha sette anni meno di Rotolo si era fermato. Doveva giocarsi il titolo intercontinentale IBF con Simone, ma ha marcato visita e se lo è preso tre mesi dopo contro il gallese Kerry Hope. Ora offre finalmente la chance al nostro campione. In ritardo, tutt’altro che elegante. Rotolo manda giù un altro boccone amaro, ma si mette ancora una volta in gioco. E certamente non regalerà all’inglese una serata tranquilla, comunque vadano le cose.

(PlayBologna, 15 febbraio 2013)

venerdì 1 febbraio 2013

SCAPINI, ALL'INFERNO E RITORNO



Mario Scapini, il grande buio e la rinascita: "Ogni passo avanti mi emoziona"
"Vado in palestra e mi stanco dopo venti minuti. Ma anche questa è una conquista"
 
di Marco Tarozzi

Hai ventitrè anni e sei nel pieno delle forze. Un talento. Quello che l’atletica italiana sta aspettando, perché tutti sanno che il futuro è dalla tua parte. Ci sarebbe da piegarsi sotto la pressione, ma tu no. Sei forte, sei determinato. Hai deciso i tuoi obiettivi e la strada per arrivarci. Non conosci ostacoli. E poi questa è la stagione olimpica, quella che sognavi, e l’hai iniziata nel migliore dei modi. Golden Gala, 31 maggio, 800 metri: subito il personale e il minimo per gli Europei. Solo l’inizio, pensi con un sorriso. Solo l’inizio.

Invece la vita è questa: capace di dare e togliere in un attimo. Senza fermate intermedie. Dalla luce al buio, di colpo. Parte la spedizione azzurra per gli Europei, ma tu non ci sei. Gli altri si guardano intorno, si fanno domande. Mario dov’è? A casa. Ha gettato la spugna il giorno prima di decollare per Helsinki. Quel maledetto mal di schiena. Così forte da non poterne più. Ma passerà, deve passare. Ci sono le Olimpiadi. Invece no, non passa. Invece aumenta. E ti senti sempre più debole.

SLIDING DOORS

Mario Scapini è nel salotto di casa, la finestra affaccia sul cortile di un bel palazzo signorile della Milano che ancora sopravvive ai cambiamenti. Oltre il vetro, una cartolina d’autunno. Pioggia leggera su sfondo grigio. Si sta bene qui, c’è un senso di calore e le parole escono senza fatica. Insieme a questa storia non voluta di caduta e rinascita. E’ strano e quasi terapeutico poter parlare di questi mesi terribili, ora che sono alle spalle.

Il “muro”, improvviso e inatteso, ha una definizione tecnicamente fredda: linfoma anaplastico a grandi cellule. La terapia è stata dura: dodici sedute di chemioterapia. La risposta è stata quella di un ragazzone di poco più di vent’anni. Ha ripreso quasi tutti i chili che aveva perso, Mario. Va in palestra, “e l’altro giorno ho fatto il mio primo giro in bicicletta, un’ora in tutto. Un’emozione”. Piccole, grandi conquiste. La paura è alle spalle, gliel’hanno detto anche i medici. C’è da ripensare al futuro, con la stessa grinta ma con molta consapevolezza in più. Mario racconta, racconta. Di quei dolori, delle cure, di chi gli è stato accanto, dell’atletica da ritrovare. Sorride, si commuove, si guarda dentro. Si sente nuovo.

“Questo era l’anno di Londra. Era il mio pensiero fisso. Fa effetto riflettere sul fatto che che lo è stato fino a pochi mesi fa, a come una prospettiva possa cambiare di colpo. La stagione era iniziata nel migliore dei modi, lo stage in Marocco era filato via liscio e al Golden Gala, primo grande appuntamento di stagione, ho corso in 1:46:95 gli 800 metri. Record personale e minimo per gli Europei. Mi sono detto: chissà che non sia l’anno buono. Nelle stagioni precedenti sono sempre stato frenato da qualche acciacco e ogni volta che ero costretto a fermarmi l’umore cambiava, vedevo nero. I miei genitori insistevano a dirmi che dovevo prenderla con più filosofia, ma io non li stavo troppo a sentire. Ora ho capito che avevano ragione…”

Dopo un debutto così, Mario si era messo in testa di chiudere in fretta anche la pratica-Olimpiadi. Bisognava sfruttare la condizione. Guadagnarsi in fretta il pass per Londra, per poi organizzare con tranquillità le tappe di avvicinamento.

“Passa una settimana dal Golden Gala e sono al meeting di Trento. La gara di Roma mi ha caricato, voglio provare subito a correre intorno a 1:45, per non lasciare dubbi a nessuno. Ma in albergo sento per la prima volta uno strano dolore all’addome. Temo un’appendicite, mi faccio visitare e la minaccia è scongiurata. Vado alla gara, ma durante il riscaldamento il dolore si ripresenta e insieme a Gianni Ghidini, il mio tecnico, decido di non rischiare. Sette giorni dopo sono in Slovenia, non mi sento bene e corro una gara dimenticabile. Torno a casa ed esplode il male alla schiena. Sempre più lancinante. Un giorno prima degli Europei decido di non partire. Sono a pezzi, fisicamente e moralmente. Mi arrabbio di brutto e penso a tutti i modi possibili per risolvere il problema. Le Olimpiadi sono ancora una priorità”.

LA GRANDE PAURA

Fine giugno. Mario si affida a fisioterapisti, chiropratici, ma il male aumenta. E’ solo a casa, a Milano. Mamma e papà sono al mare con la sorella, per aiutarla a seguire i nipotini.

“Io faccio fatica anche a muovermi in casa. Certe sere non vado nemmeno in cucina a prepararmi da mangiare, spizzico quello che trovo. Mio padre torna a casa, mi vede e in un attimo decide: ora ti fai visitare, poi ce ne andiamo tutti al mare e al diavolo le Olimpiadi. La salute è più importante”.

A metà luglio arriva la febbre, il male ormai è insopportabile. Mario si fa ricoverare. Non mangia, non beve. Non riesce nemmeno a parlare. Al San Raffaele è un esame dietro l’altro, e in due settimane arriva la diagnosi. Un frontale con la vita.

“Dire che per me era un ambiente nuovo è un eufemismo. L’ospedale era un luogo ignoto, fino all’estate scorsa. Sono stato catapultato in una realtà che non conoscevo. E non per fare esami di routine, ma in Oncologia d’urgenza. Ho affrontato la prova: la trafila degli esami si è chiusa con un intervento chirurgico, diagnostico. Una laparoscopia. Era il 2 agosto. Le Olimpiadi erano iniziate da meno di una settimana, il giorno dopo sarebbero iniziate le gare d’atletica. E io dovevo iniziare la chemioterapia”.

Altre priorità, appunto. Il mondo intorno che cambia. Mario esce dall’ospedale dopo due sedute di chemio, il 20 agosto, e continua la cura da casa. Un passo avanti, anche per il morale. Ma è debole, ovviamente. Arriva a pesare 58 chili, tredici meno di quando è in condizione. Affronta un viaggio nuovo e imprevisto. A fine ottobre ne vede finalmente l’approdo.

“Non so quale sia stato il periodo più difficile, in questi mesi. E’ successo tutto così in fretta. Nemmeno sei mesi, dai primi sintomi del male ad oggi. Di primo acchito penso ai giorni passati in ospedale, quelli in cui ho sofferto di più. Mi davano la morfina e anche con quella passavo notti insonni. Non riuscivo a stare nel letto, dovevo restare sollevato e passavo ore a fissare il vuoto come un vegetale. Qualsiasi rumore mi dava fastidio, anche il fruscìo delle pagine sfogliate di un giornale. Ma dopo le prime due sedute di chemio ho subito sentito un miglioramento, e anche tornare a casa mi ha aiutato. Forse però, pensandoci a freddo, le vere difficoltà sono arrivate dopo, perché ero finalmente cosciente. Quando mi hanno diagnosticato il tumore ero in trance, mi lasciavo cadere addosso tutto quanto. E’ dopo che inizi a renderti conto, a capire quando qualcosa non funziona. Diventi ipersensibile. Alla decima seduta di chemio ho iniziato a stare male per una saturazione da farmaci, provando quello che altri meno fortunati di me provano fin dall’inizio. Ma per fortuna da lì in poi è iniziata la rinascita. Il mio fisico è rifiorito. Guarda qui: ho ancora un po’ di effetto-gonfiore, quello che lascia il cortisone assunto a dosi massicce, ma non sono tornato un bel ragazzo?...”

Ride, Mario. Anche quando inizia a raccontare le tappe della riconquista, prove così lontane per intensità da quelle  cui era abituato quando si allenava in pista. Eppure altrettanto decisive e importanti.

“Ascolto il mio fisico e vedo il cambiamento giorno dopo giorno. Vado in palestra, metto il “livello 1” sulla cyclette e genero una potenza di 30 watt, quando un tempo arrivavo a 250. E dopo venti minuti sono stanco. Ma anche questa è una conquista, come quando miglioravo i personali. Io e il mio fisico abbiamo iniziato un percorso insieme. A volte è lui a dirmi “stai calmo”, a volte sono io ad aver paura di esagerare. Ma vedere che risponde è semplicemente stupendo”.

CAMMINARE SUL FILO

Adesso che del male può parlare guardando indietro, Mario Scapini è un giovane uomo più forte dentro. Certi incroci col destino ti cambiano la prospettiva. C’è una vita da vivere, e certamente è un’altra vita.

“Direi che ho avuto un paio di input fondamentali, per affrontare il futuro. Il primo riguarda il mio fisico: ho capito che non è invulnerabile e può fare brutti scherzi. E poi ci sono quei giorni passati in un reparto oncologico del San Raffaele, cercando di realizzare quello che succedeva a me e a chi mi stava intorno: gli altri pazienti, alcuni miei coetanei. Ecco, lì ho capito davvero che noi viviamo nell’incoscienza di quello che ci può accadere, ma intanto camminiamo su un filo. Non so cosa mi ha dato la forza di reagire. Per come sono fatto io, non parlerei nemmeno di reazione. Ho semplicemente pensato a guarire. Quella era diventata la priorità, la mia Olimpiade. Quando all’inizio si era pensato a un’infezione avevo detto “okay, sistemiamola”. Quando mi hanno detto che era un linfoma, non ho pensato diversamente”.

E’ stato forte, Mario. Lo dicono tutti, anche se lui la mette giù con semplicità: “C’ero dentro, dovevo reagire, e mi è anche andata bene perché la situazione ha iniziato subito a migliorare”. Intorno ha avuto gente forte quanto lui. Quelli che gli sono stati più vicini sono gli stessi che non lo avevano mai abbandonato neppure prima.

“I miei genitori, naturalmente. Durante il mio ricovero, mio padre ha dormito là dentro ventisette giorni su ventotto. Oddio, dormito è un eufemismo… passava le notti buttato scomodamente su una poltrona. Mia madre non è stata da meno. E poi ho avuto vicina la mia ragazza, Diletta. E il dottor Tavana che mi è venuto a trovare subito. In quei momenti non parlavo nemmeno, ma sentivo bene la loro presenza. Nel tempo sono venuti a dimostrarmi il loro affetto Gianni Ghidini, il mio tecnico, e Matteo Guidotti, mio amico del cuore e compagno di allenamento. A tutti loro devo qualcosa. Hanno sofferto con me, forse anche più di me perché si sentivano spesso inadeguati, impossibilitati ad aiutarmi. E invece non sanno quanto sono stati importanti”.

Tornato a casa, Mario ha scoperto di avere più amici di quanti immaginasse. Un abbraccio collettivo, una processione di sentimenti che non accenna a fermarsi.

“Mi hanno chiamato tutti. Gli amici del mare, che per la prima volta si sono ritrovati in Sardegna senza di me e quasi si sentivano in colpa… E poi il mondo dell’atletica. Ferrari, il presidente della Pro Patria, gli atleti della società, il mio ex tecnico Giorgio Rondelli. E ancora il presidente Arese e tanti dirigenti della Fidal che neppure conoscevo di persona, gli atleti con cui mi sono battuto in gara o ho condiviso i giorni dei raduni. Tutti, davvero. Qualcuno si scusava, pensando di dire cose banali, invece mi hanno dato forza. Ho scoperto di avere tanti amici, e soprattutto di non avere nemici. Ci può stare: nella vita mi è sempre andato tutto bene, ho avuto genitori unici, amici veri, gente intorno, insegnanti giusti a scuola, Rondelli che mi ha fatto scoprire l’atletica quando pensavo solo al calcio. Mi sono trovato spesso al posto giusto nel momento giusto, come agli Europei Juniores del 2007, con quella vittoria nei 1500 che mi ha portato alla ribalta. Insomma, sono stato molto fortunato. Credevo che tutta questa buona sorte potesse pesare a qualcuno, anche giustamente in fondo. Invece devo dire che tutti, tutti, anche quelli che avrei giustificato se non mi avessero chiamato, mi si sono avvicinati con sincerità, col piacere di farsi sentire. Ci penso e mi dico che forse qualcosa di buono l’ho fatto…”
 
 

QUALCOSA E’ CAMBIATO

Parla di opportunità che gli si sono aperte davanti come strade da seguire. Di ricchezza che non deve andare perduta. Confessa, buttando un occhio su questa giornata uggiosa, di aver avuto una vera, grande paura.

“Quella di non poter tornare a fare quello che facevo nella mia vita precedente. Invece ci arriverò, e intanto ho imparato a leggere in modo diverso anche le piccole cose. Prima volevo tutto: finire la facoltà di Ingegneria nei tempi giusti, essere un vincente nell’atletica. Nella stagione olimpica ho intensificato gli sforzi sul campo d’allenamento: otto ore di Università e poi spesso doppio allenamento. Se vivi così, tutto quello che hai intorno ti sembra dovuto. Oggi vedo che sì, sono su un filo, ma guardo giù e ci sono tante cose che avevo rimosso o dimenticato. Ogni conquista mi emoziona: ho gli occhi lucidi quando pedalo sulla cyclette, che prima mi sembrava la peggior iattura per un atleta. Mi sento felice e farò di tutto per coltivare questa fortuna e non disperderla. Lo so, sembra una frase fatta per fare il figo, ma è la realtà. Dicono ci sia un percorso logico per tutto quello che facciamo. Ora vedo che è così: ho sofferto cinque mesi in cambio di un’esperienza che mi porterò dietro tutta la vita. E’ stato un buon affare”.

RITORNO AL FUTURO

La rinascita è partita dal raduno di San Vincenzo di inizio dicembre, dove la Federazione lo ha voluto per riabbracciarlo. Tocca obiettivi a cui ora si può appena accennare. Impervi e per questo affascinanti. Sono traguardi a cui punterà uno Scapini nuovo di zecca. Diverso dentro.

“La chiamata al raduno è stata una riconquista. Un’emozione immensa. Ma il ritorno vero, da atleta, arriverà quando riuscirò di nuovo a correre con continuità e sicurezza. Le Olimpiadi? Magari non le avrei agguantate, ma mi piace pensare di sì e le considero un traguardo perso. Le ho viste in tv. O meglio, la prima parte me la sono persa, in quei giorni ero poco presente a me stesso. Poi ho iniziato a guardare le dirette dell’atletica. Senza audio, per quella faccenda del fastidio a sentire rumori... Ho provato un po’ di invidia, è vero. Non perché non ero là, ma nei confronti di quei ragazzi che gareggiavano ed erano il ritratto della salute. Sì, lo ammetto: invidiavo il loro stare bene”.

L’atletica azzurra è uscita malconcia dalla trasferta londinese. E schiacciata moralmente dal caso Schwazer.

“Non voglio entrare nel merito di una scelta che certamente ha turbato me come tutto il mondo dell’atletica. Non voglio fare il giudice, Alex ha preso decisioni pesanti, che certamente lo hanno scosso e per le quali ora dovrà pagare. Ma sono rimasto perplesso di fronte a una sua dichiarazione: ha detto che in tutti questi anni ha sofferto, pensando alla preparazione olimpica. L’ha vissuta come una tragedia. Ho pensato che anch’io facevo tragedie per una distorsione alla caviglia e in qualche modo l’ho capito. Però erano proprio i giorni in cui mi avevano appena diagnosticato un tumore, e non ho potuto fare a meno di pensare che se mi dicessero che devo passare quattro anni a cercare di riconfermarmi campione olimpico, beh, sarebbero i quattro anni migliori della mia vita…”

LA FORZA DENTRO

Il bello della vita sono le cose semplici. Guardare avanti è una cosa semplice, ma adesso significa molto di più. Aver provato cosa significa stare in bilico, e poi aver ritrovato l’approdo. La buona terra, su cui riprendere a camminare. E presto a correre, certo.

“Ai primi di novembre ho avuto i risultati finali. I medici mi hanno dato carta bianca, ora sta al mio fisico e a me. Il futuro? Io nella vita faccio tre cose: il fidanzato, lo studente e l’atleta. Lo facevo anche prima, ma ora gli obiettivi sono più chiari, ho dentro una enorme forza interiore che mi aiuterà a raggiungerli e voglio recuperare il tempo perduto. Sono sincero: la prima cosa a cui ho pensato è stata il matrimonio con Diletta. Credo sia il traguardo più importante e quel giorno lo considererò una vittoria. Sto scrivendo la tesi per la laurea in Ingegneria Meccanica, in aprile voglio che arrivi anche quella. L’atletica? Sono realista: mi chiedo se il mio fisico mi permetterà di fare le cose che facevo prima. Poi c’è spazio anche per i sogni, i desideri tipici di un atleta: l’anno prossimo ci sono le Universiadi, un obiettivo un po’ pazzo ma non impossibile. Ci sono altre Olimpiadi a cui pensare: lo facevo già in ospedale, scherzando con medici e infermieri che mi dicevano che in fondo Rio è più bella di Londra… Dall’altra parte c’è una persona che sa bene quello che ha passato e pensa: magari per sei mesi non scendo sotto i cinque minuti a chilometro nei mille, magari non ci scendo mai più. Beh, comunque vada sono sereno: se non dovessi tornare ai miei livelli, sarò contento dell’atletica ad alta quota che ho vissuto, se invece verranno altri anni gloriosi e felici me li godrò più del normale…”

Mario guarda fuori dalla finestra. Milano è sempre più umida e grigia, eppure è bella anche così. E’ meraviglioso respirare questo odore di pioggia, in un autunno di rinascita.
“In quei primi giorni all’ospedale, quando stavo malissimo, mi chiedevo se avrei mai ritrovato la voglia di correre. Mi sembrava che non mi interessasse più nemmeno quello. Meno di una settimana dopo pensavo già a quando mi sarei riallacciato le scarpe. In tre mesi ho attraversato un oceano e sono tornato più ricco. Sto svegliando il cervello, riaprendo il cuore, ricostruendo i muscoli. Ed è bellissimo”.


MARIO SCAPINI è nato a Milano il 2 febbraio 1989. Da ragazzo amava e praticava il calcio, ed è stato Giorgio Rondelli ad intuirne le doti e a convincerlo a dedicarsi a tempo pieno all’atletica. Da allievo ha conquistato i primati nazionali di categoria negli 800 e nei 1500, nel 2006 ha vinto gli 800 alle Gymnasiadi e nel 2007 è salito prepotentemente alla ribalta conquistando il titolo europeo juniores dei 1500 metri ad Hengelo. Sempre da junior ha ottenuto la miglior prestazione italiana nei 600 metri (1:17:70 nel 2008). Nel 2009 è stato campione italiano sia negli 800 che nei 1500, sia nella categoria Under 23 che agli Assoluti. Alla fine di quella stagione è stato uno degli “Eroi del running” designati dalla nostra rivista. Nel 2010 è stato semifinalista negli 800 agli Europei di Barcellona. E’ allenato da Gianni Ghidini. Nei 1500 ha un personale di 3:43:56 ottenuto a Trento nell’agosto 2009, mentre il primato sugli 800 lo ha ritoccato all’ultima edizione del Golden Gala, il 31 maggio 2012, correndo in 1:46:95. Proprio poco prima che la malattia lo fermasse.
 
RUNNER'S WORLD, gennaio 2013