lunedì 1 novembre 2021

ANTONELLI, QUEL "FUCILE" CHE PARLA DI PACE


 di Marco Tarozzi

BOLOGNA

 “Ma non ci vogliono perché siamo neri?”. Non è facile rispondere a questa domanda, se te la fa un ragazzo a cui hai aperto la strada dei sogni grazie alla pallacanestro. Non è facile nemmeno per uno come Massimo Antonelli, che è abituato a spendersi perché lo sport mandi sempre un messaggio di inclusione. Lo ha fatto in passato con diversi progetti, e lo sta facendo da qualche tempo a Castelvolturno con i ragazzi della Tam Tam Basket, squadra composta da italiani di seconda generazione, tutti nati tra Napoli e dintorni ma figli di immigrati. Italiani veri, che però lo saranno a tutti gli effetti al compimento della maggiore età. E che pur avendo vinto, uniti in questo team dei sogni, il campionato regionale Under 15 nel 2019, oggi che la pandemia lascia un po’ di respiro e speranza di futuro non possono iscriversi a quello nazionale Under 17, come spetterebbe loro, perché lì la regola vuole un massimo di due stranieri per squadra. E loro sono stranieri, anche se parlano in napoletano. Difficile spiegare a un ragazzo che deve smettere di sognare, nemmeno Massimo Antonelli ci riesce, e allora preferisce battersi perché qualcosa cambi in un regolamento che non cammina veloce come la vita fuori.

CITTADINO DEL MONDO. Antonelli a Bologna se lo ricordano tutti molto bene. Era uno dei campioni della Virtus di Dan Peterson, che riportò a Bologna lo scudetto nella stagione 1975-76, dopo un’assenza durata vent’anni. Non un comprimario, un protagonista assoluto. Alto 193 centimetri, era cresciuto ad Altopascio, dove il padre faceva l’appuntato dei carabinieri, e poi a Chieti, prima di approdare da junior nelle giovanili bianconere. Fu Tracuzzi a capire che utilizzarlo da centro o da ala sarebbe stato uno spreco, per il fosforo che produceva. Divenne così uno dei playmaker più alti d’Italia, quando ancora l’idea del regista lungo e prestante non era comune. Era un bel personaggio anche allora: capelli lunghi, vita da cittadino del mondo, studiava architettura a Firenze e andava a seguire le lezioni su una vecchia Dyane. E a Gianfranco Civolani, in un’intervista, diceva “forse farò il petroliere, forse commercerò in noccioline in Brasile, magari farò il barman per poter vivere, magari farò anche l’architetto, pul darsi”.

LA MORTE, SECONDO LUCIO. Peterson lo chiamava “Fucile”, perché era un tiratore micidiale e risolveva problemi. E lui impiegò mesi a capire che quel tifoso che nelle partite punto a punto invocava “Morte!” era Lucio Dalla in persona. Fu proprio Lucio a spiegargli perché: “niente è più gelido e freddo”, proprio come lui quando tirava.
Invece il cuore di Massimo è grande, e batte per i giovani. Da tempo ha inventato il “Music Basketball Method”, per insegnare i fondamentali con idee che hanno conquistato non solo l’Italia, ma anche Nord Europa, Sud America, Canada. Nel 2016 ha fondato Tam Tam Basketball insieme ad Antonella Ceccato, Pietro D’Orazio, Guglielmo Ucciero e al fratello Prospero. Un progetto sociale, di riscatto attraverso lo sport. Già i suoi ragazzi avevano potuto affacciarsi al campionato regionale Under 15 grazie a una deroga della Fip, che si chiama proprio “Salva TamTam”. Ora, però, c’è un muro molto più alto da superare. Il gruppo avrebbe voluto misurarsi a livello nazionale, ma la regola dei “due stranieri per squadra” li tiene al palo. E lo stesso presidente Petrucci ha parlato di “mancanza di accordo tra i dirigenti delle altre squadre”, ragion per cui
sono a rappresentarle l’impossibilità di dar seguito alle richieste pervenute”. E Massimo, che questa realtà la conosce come le sue tasche, non ha trovato parole per spiegarlo ai suoi giocatori.

LA GRANDE OCCASIONE. “Abbiamo perso anche il ricorso al Tar, ma continuo a ritenere un’ingiustizia che i figli di stranieri nati in Italia non abbiano nello sport gli stessi diritti degli altri. C’è stato un grande movimento di opinione, la gente mi dice di non mollare e dico la verità, vedo anche uno squarcio di sereno in questa storia. Un ripensamento sarebbe una splendida occasione per tutti, ma accettare una nuova deroga salverebbe i miei ragazzi, non risolverebbe il problema. L’ideale sarebbe adattare uno Ius Soli sportivo a livello federale, che non risolverebbe solo il problema di Tam Tam, ma quello di un milione di ragazzi che cercano un riconoscimento del proprio status attraverso lo sport. Sarebbe una grande opportunità per la stessa Federazione e per tutto lo sport italiano”.

GIOCHI SENZA BARRIERE. “Mi sembra di portare avanti una guerra contronatura”, sorride Antonelli. “La Fip per me è una madre adottiva, mi ha aperto le porte del basket a dodici anni, ed ero in campo nella partita della Nazionale Juniores con cui si festeggiò il cinquantenario. Ma è una questione di umanità: qualsiasi barriera che si frappone tra i giovani e il gioco è un ostacolo alla loro formazione come persone. E pensate a quale ricchezza sarebbe poter includere in modo totale un milione di ragazzi che si sentono italiani grazie all’abbraccio dello sport”.
Per questo “Fucile” va avanti. Deciso come quando arrivava il momento di cambiare le sorti di una partita, e lui sapeva che tutto passava dalla sua testa e dalle sue mani.

Più Stadio, 1 novembre 2021



 

giovedì 26 agosto 2021

DI' CHE TI MANDA GIACOMO


 

Ha debuttato domenica, giorno del suo ventitreesimo compleanno, in Serie A. Nato e cresciuto a Portonovo di Medicina, ha respirato l’aria della Bassa nei luoghi dove maturò Bulgarelli

 

di Marco Tarozzi

BOLOGNA

Ci sono cose che l’anagrafe dice. Per esempio, che Youssef Maleh, giovane talento della Fiorentina che domenica ha debuttato in Serie A nel giorno del ventitreesimo compleanno, è nato a Castel San Pietro, proprio come Otello Badiali, che esordì nella massima serie nel 1945 con l’Andrea Doria e poi giocò con le maglie di Fiorentina e Spal. E ci sono cose che l’anagrafe non dice. Per esempio che Youssef è nato a Castello in anni in cui la maternità dalle sue parti, per intenderci all’ospedale di Medicina, non era in funzione; e che in realtà il paese dove il ragazzo è nato, cresciuto ed ha vissuto fino a un paio di anni fa si chiama Portonovo. Già, Portonovo di Medicina: esattamente il luogo in cui nacque, il 24 ottobre 1940, un certo Giacomo Bulgarelli.

ARIA DI CASA. Giacomo abitava con la famiglia in una casa sulla piazzetta del paese, e il suo paese non l’aveva mai dimenticato, neppure quando ormai era Bulgarelli per tutta l’Italia del pallone: tornava ogni volta che poteva tra la sua gente, a fare partite interminabili con la truppa di “O la va o la spacca”. Perché negli anni Quaranta a Portonovo funzionava così: c’era la prima squadra e quella dei più piccoli, dei più gracili come era lui da ragazzo, e le avevano dato quel nome lì. Tanto per capire che bisognava provarci comunque.

LE ORME DEL FRATELLO. Youssef dalla finestra del suo condominio vedeva il campo sportivo, proprio quello tirato su con il sostegno di Giacomo e dei suoi amici. E iniziò a frequentarlo seguendo Hassan, il fratello più grande di sei anni, che lo accoglieva in squadra anche se lui e i compagni erano tanto più grandi, e che oggi ricorda quei giorni.
“Era un piccolo leader tra i bambini di sette, otto anni. Poi io sono andato nelle giovanili del Medicina, e poco dopo è arrivato anche lui. Aveva dodici anni quando arrivarono a visionarlo quelli del Cesena, e di lì a poco lo portarono nel loro settore giovanile. Da lì è iniziato il suo percorso, quello che lo ha portato a Ravenna, a Venezia e oggi alla Fiorentina, in Serie A”.

RICORDANDO GIACOMO. Hassan, ventinove anni compiuti a giugno, lavora in un’officina meccanica di Sesto Imolese, dove ha giocato per tre stagioni dopo aver militato nel Medicina Fossatone. Oggi veste i colori dell’Osteria Grande, in Promozione. Centrocampista come il fratello, anche se ultimamente si sposta spesso in attacco. La famiglia è in Italia dal 1989, lui rispetto a Youssef è nato a Medicina, quando ancora la maternità funzionava. Mondo piccolo, una manciata di chilometri, linee rette d’asfalto tirate nella Bassa. Campi di periferia su cui allenarsi di sera, dopo il lavoro. E Portonovo come centro di gravità permanente. Un posto dove il ricordo di Bulgarelli è ancora vivo. “Noi andavamo a giocare senza sapere bene di questo concittadino illustre, eravamo ragazzini, accompagnati in auto da papà che è stato un buon calciatore dilettante in Marocco. Crescendo, abbiamo preso coscienza della storia di Giacomo, sappiamo cosa è stato per il Bologna e per il calcio italiano. E’ buffo pensare che a Portonovo ci sono 370 abitanti, e almeno due ragazzi che andavano a giocare a pallone sull’erba del paese sono arrivati in Serie A. E’ una bella percentuale, a pensarci…”

PRIMI MAESTRI. Negli anni Cinquanta, a Portonovo il punto di riferimento per i ragazzi che amavano il pallone era don Dante Barbanti. Anche Giacomo iniziò grazie a lui, e dopo aver messo su qualche chilo e un po’ di muscoli prese la strada di Bologna. Anche per studiare al San Luigi, da cui tornava d’estate “per mangiare la pancetta arrotolata con le uova, come si è sempre usato qui”.
Anche Youssef ha avuto uno scopritore, lo stesso di suo fratello Hassan. E’ stato Filippo Galletti, insegnante di educazione fisica e tecnico che seguiva i Giovanissimi del Medicina, a convincerli a spostarsi di qualche chilometro per affrontare il cammino del settore giovanile in una società più strutturata. Ed è stato anche il primo a credere nel talento del ragazzo, che lo scorso anno a Venezia, in  Serie B, è esploso in tutta la sua brillantezza.

TESTA SULLE SPALLE. Ora le possibilità di Maleh sono chiare a tutti. Più che mai a Vincenzo Italiano, che domenica scorsa lo ha schierato titolare contro la Roma, regalandogli un debutto in Serie A da attore protagonista all’Olimpico. Ne è uscita una sconfitta, ma resterà comunque un giorno da ricordare.
“I miei genitori sono in Marocco per un periodo di ferie”, racconta Hassan, “così abbiamo visto l’esordio di Youssef da luoghi e televisioni diverse. Sono certo che mio fratello sia molto felice di essere approdato nel massimo campionato, anche se lui non è tipo da esternare la gioia, non dà mai troppo a vedere le sue emozioni. Lo sa anche lui che è un primo passo, e che per costruirsi una carriera importante ci sarà ancora tanto da lavorare”.
Intanto, però, un ragazzo di Portonovo di Medicina ha giocato da titolare una partita di Serie A. Era successo qualcosa di simile sessantadue anni e quattro mesi fa, esattamente il 19 aprile 1959: il ragazzo di allora si chiamava Giacomo Bulgarelli, e sappiamo che cammino ha fatto dopo. Ora tocca a Youssef Maleh incamminarsi,  e lassù c’è un illustre concittadino, che non per caso è anche un illustre calciatore, che ha tutte le intenzioni di proteggerlo.

Più Stadio, 25 giugno 2021


giovedì 17 giugno 2021

ANNIVERSARIO

 


Un vero amico non se ne va mai via per sempre.


lunedì 14 giugno 2021

L'UOMO DEL DESTINO

 


di Marco Tarozzi
BOLOGNA

Pace in testa, fuoco nel cuore. Dove l’avevamo già sentita, questa frase? Ma sì, è facile: in fondo sono passati appena due anni e un mese, anche se tutto quello che è successo in mezzo, nello sport e nella vita, allunga i tempi del ricordo.
Anversa, Final Four di Basketball Champions League. E subito la seconda domanda, legittima: che c’entra, che senso ha tirare fuori l’ultima festa europea il giorno dopo che la Virtus ha messo le mani sullo scudetto, dopo vent’anni passati a ricordare (quasi sempre rimpiangere) il passato?

ANIMO SERENO. Pace in testa, fuoco nel cuore. In quei giorni freddi di una primavera che sembrava autunno, la Virtus cercava di ritrovare rispetto e considerazione in Europa, ma non si affacciava a quell’atto finale da favorita. Veniva da una stagione complicata, era fuori dai giochi per lo scudetto, intorno sentiva venti di amarezza e delusione. Fu in quei momenti che il timoniere, Sasha Djordjevic, si inventò quella frase memorabile. Non una semplice boutade, ma una vera lezione di vita ai suoi uomini. Per vincere serve un cuore grande, che non si inchiodi davanti alle prime difficoltà, e contemporaneamente serve una testa liberata da tutti i pensieri, una leggerezza da portare dentro al campo insieme alla fame agonistica. In una parola, bisogna avere l’animo sereno.
Quelle parole cambiarono il corso degli eventi. E noi che eravamo lì, che vivevamo la squadra ora dopo ora, intuimmo il cambiamento e ci lasciammo coinvolgere. Si andava davvero tutti nella stessa direzione. Gli sguardi, le parole spese con parsimonia e nei momenti giusti, la semplice voglia di essere dentro a qualcosa di grande e meritato: tutto sembrava annunciare quel finale che poi, puntualmente, arrivò.

GIOCO DI SQUADRA. Come allora, certamente più di allora, anche questa volta il viaggio non ha attraversato soltanto mari tranquilli. La pandemia ha lasciato il segno anche qui, come nelle nostre vite che non saranno più le stesse. Ha svuotato i palazzi del basket, ha frenato e accelerato i ritmi della stagione, spesso stravolgendo il campionato, ha trasformato i campi amici in campi neutri, annullando il fattore “casa” in molte occasioni. Il 7 dicembre, dopo la sconfitta con Sassari, Sasha Djordjevic non era più l’allenatore della Virtus. Come in un deja vu di storie accadute vent’anni prima, dopo un’altra giornata movimentata era di nuovo al suo posto, con una certezza in più da spendere: la squadra. Gli uomini in cui lui credeva e crede, credevano in lui.

GIORNI DIFFICILI. Lo scudetto numero 16 è il capolavoro finale, ma nel tragitto questo gruppo ha lasciato segni indelebili. Si può anche cadere in una semifinale europea, ma farlo dopo diciannove vittorie in fila è un messaggio chiaro, quello di una squadra e di una società che hanno ritrovato stima e riconoscimenti anche a livello continentale. Djordjevic ne ha sentite tante, camminando coi suoi ragazzi verso la sfida finale con Milano. I “social” a volte sono una roba pessima, ce lo ricordava Umberto Eco. Nei bar dello sport era diventato l’incompetente, quello che non reggeva più il timone, destinato a farsi divorare in un playoff abitato da allenatori con il quadro comandi ben piazzato davanti agli occhi. Lui ha reagito alla sua maniera: chiudendosi in palestra con i suoi ragazzi e le sue certezze, restituendo alla squadra la fiducia che dalla squadra ha sempre ricevuto. Liberando la testa e facendo pompare il cuore.

LA GENTE GIUSTA. Anche quando arrivò Teodosic, splendido sforzo anche economico di una società che non si è tirata indietro pur di tornare ai vertici, qualcuno azzardò che sì, d’accordo il campione e il talento, ma l’età mica si può nascondere. Ma Djordjevic sapeva cosa chiedere a Milos, lo conosceva bene da prima di tutti noi, e ha saputo convincerlo a scegliere Bologna e la Virtus. E quell’arrivo ha aperto la strada a tutti quelli che sono venuti dopo, perché anche in giro per il mondo agenti e giocatori hanno capito che la Virtus stava tornando un porto felice.
Anche quando si è unito alla truppa Marco Belinelli, per chiudere meravigliosamente il cerchio là dove tutto era iniziato, a qualcuno è scappato un sorriso sentendolo affermare che “torno per vincere ancora, a casa mia”. Djordjevic sapeva cosa poteva aspettarsi da un campione che non era tornato per svernare.
Anche quando Alessandro Pajola è stato nominato Mvp della serie, protagonista assoluto della finale, Djordjevic ha accennato un sorriso. Quel ragazzo che nel 2015 si sistemava il letto nella foresteria di via di Corticella ha saputo incanalare il suo talento. Lo deve a gente come Alessandro Ramagli, che lo gettò nella mischia sui parquet della Serie A2 (e a lui anche la Virtus deve tanto, l’uscita dalle sabbie mobili che le ha permesso di riprendere il volo), e come Alexsandar Djordjevic, che non ha paura di dargli le chiavi della macchina nel momento più rovente. Chissà, magari è il nome di battesimo in comune che fa legare tra loro le persone…

PAROLE MAGICHE. Pace in testa, fuoco nel cuore. Vivendo il presente, chiudendo nell’armadio un passato che qualche cicatrice deve pur averla lasciata, senza farsi troppe domande su un futuro che è già alle porte. Non adesso, non in questi attimi costruiti con passione e determinazione con un gruppo fidato, che lo seguirebbe ovunque. Non adesso, che è il momento di festeggiare. Perché la Virtus, insieme al suo popolo, è uscita di colpo dai suoi ricordi, dalle sue nostalgie. Il passato, adesso lo sfoglierà senza rimpianti. Il presente è tutta questa Italia dei canestri di nuovo ai suoi piedi. Come diceva l’avvocato Porelli, “di scudetti basta vincerne uno ogni tre-quattro anni”. Stavolta c’è voluto più tempo. E c’è voluto un manovratore che ha trovato la formula in sei parole magiche.

(Più Stadio, Stadio-Corriere dello Sport, 13 giugno 2021)


domenica 16 maggio 2021

IN VOLO

 


Voglio riuscire a volare
nel cielo, molto in alto,
proprio come una libellula.
Voglio volare sugli alberi,
attraversare i mari ad ogni latitudine
fino a dove mi va.

(Lenny Kravitz)

 

Vola leggero, Alessandro.

 

 


martedì 4 maggio 2021

QUANDO IL MEDIANO DIVENTA PRIMATTORE


 

“Fedullo racconta Arpad Weisz” è l’ultima opera dell’attore teatrale e scrittore salernitano Sergio Mari, che per sedici stagioni ha giocato a calcio da professionista. Anche nella Centese di Paolo Specchia


di Marco Tarozzi


Qualcuno, dalle parti di Cento, avrà alzato le antenne vedendo circolare sui social la locandina del monologo “Fedullo racconta Arpad Weisz”, scritto e interpretato da Sergio Mari, attore teatrale e scrittore salernitano; un’opera che racconta la storia del grande allenatore del Bologna, uno dei giganti del calcio italiano, tragicamente scomparso ad Auschwitz, da un’angolazione diversa e particolare.
Quel nome, Sergio Mari, avrà ricordato qualcosa a chi conosce la storia della Centese. Perché è lo stesso di quel mediano di bel talento che arrivò alla corte di Paolo Specchia nel 1986, e a cui solo un pesante infortunio negò la possibilità di arrivare anche più in là. E in realtà l’attore teatrale di oggi e il calciatore che ha vissuto sedici stagioni tra i professionisti sono la stessa persona. Ed hanno (o meglio, ha) una splendida storia da raccontare.



ARRIVA MARI..DONA. Salernitano, classe 1962, Sergio si affaccia al calcio dei “grandi” nel 1979, in C1 con la Cavese, svezzato da un maestro come Corrado Viciani. Nella stagione successiva è uno dei pilastri della promozione in Serie B, dove giocherà due stagioni. Poi una stagione in Sicilia, all’Akragas, sotto la guida di Franco Scoglio (che alla truppa gridava “guardate come fa le diagonali Mari!”), altre due a Cava dei Tirreni, quindi dall’estate 1986 a quella del 1988 l’esperienza in Emilia, allenato da Specchia e poi da Gian Piero Ventura. Mediano concreto e affidabile, arriva a Cento e subito lo ribattezzano “Mari…dona”, e a ventiquattro anni è nel mirino di squadre blasonate, seppure non più ai vertici, come Bologna e Vicenza. La frattura al perone che lo rallenta nella prima stagione (14 presenze, per uno che partiva titolare…) gli comprometterà in qualche modo la carriera, che da lì in avanti resterà confinata ai campi di C1.
“Ma mi resta un ricordo bellissimo dei due anni a Cento, nonostante la tristezza per l’infortunio e la lunga inattività nel primo. Tifosi speciali, ambiente giusto e Bologna e Ferrara a due passi. Per uno come me, un richiamo. Ricordo la sera in cui chiesi a Specchia di poter saltare, l’indomani, la rituale cena con gli scapoli della squadra. A Ferrara c’era la prima di “Rosa Luxembourg” di Margarethe Von Trotta, e la regista era presente per raccontare il proprio lavoro. Eravamo tutti a tavola, i compagni mi guardarono come fossi un alieno appena sbarcato sulla Terra…”


MIMO A MEZZANOTTE. Perché Mari era questo: un atipico del calcio. Per questo oggi, dopo l’evoluzione della sua personalità e di fronte al nuovo mestiere, viene naturale accostarlo a personaggi come Ezio Vendrame, Gianfranco Zigoni, Paolo Sollier, allo stesso Gigi Meroni che aveva dentro sé un’anima da artista.
“Io però non avevo consapevolezza di quello che sarei diventato. Forse lo capivano di più i compagni: anche oggi, quando li rivedo, non mostrano stupore per la mia vita da attore, regista, scrittore. Dicono che loro se lo immaginavano. Chissà cosa avrebbe detto Specchia se avesse saputo che certe sere, quando a mezzanotte non ero nel mio appartamento a Cento, non vagavo in cerca di avventure per le vie della grande città, ma stavo in una sala dell’Antoniano a frequentare una scuola di mimo…”

LIBERTA’ E LIBRI. “Era la Bologna delle osterie, della creatività, del Dams e di Andrea Pazienza, del salto in stazione per andare a comprare Carlino e Stadio. Una città vitale, ma nella quale potevi anche scomparire per ritrovarti. Come feci un pomeriggio, quando ero fermo per via dell’infortunio. Entrai alla Feltrinelli, poi mi spostai su una panchina di via Indipendenza e restai lì a leggere per due ore. Fu un giorno pieno di tristezza, per i problemi fisici che mi affliggevano, ma allo stesso tempo di assoluta libertà”.


VITA NUOVA. Da quel mondo si è allontanato a fine carriera, dopo aver provato ad aprire una scuola calcio per i giovani. “Ma le dinamiche erano lontane dal mio modo di affrontare la vita, non mi ci trovavo più. Per dodici anni ho fatto il gallerista, ho lanciato artisti e ho vissuto bene di quel mestiere. Poi sono salito su un palcoscenico, quasi per caso. Mi è piaciuto, sono piaciuto. Allora mi sono messo a studiare, ho visto tanti lavori teatrali, ho letto voracemente. Ho cercato di recuperare il tempo perduto”.
E si è riconciliato col vecchio amore, perché le storie di pallone sono spesso affascinanti.
“Con gli anni, mi sono reso conto che l’armadio in cui avevo riposto i ricordi e che stava in un angolo del mio cervello, andava riaperto. Le cose migliori, le persone belle che avevo conosciuto, erano lì. Dal futuro non avevo avuto le stesse gioie del passato: non è stato un gesto nostalgico, ma solo un recupero oggettivo, un riconoscimento a quel mondo che mi aveva permesso di crescere, e a cui avevo dato poca importanza quando ci stavo immerso”.




ARPAD E FRANCISCO. Da quelle considerazioni arriva, tra le altre, quell’opera teatrale che riporta sotto i riflettori il Bologna che faceva tremare il mondo. Dove a raccontare Weisz, questa volta, è uno dei campioni che lo hanno avuto come allenatore.
“Ho scoperto che i genitori di Francisco Fedullo erano partiti dal centro di Salerno per andare in cerca di fortuna in Uruguay. Praticamente, da casa mia. Da questo è nato un lavoro che parla del rapporto franco tra due grandi personaggi dello sport e della vita. L’ho portato nei teatri, nelle scuole, è stato visto da migliaia di studenti. In tempi di lockdown, ho pensato di ricavarne anche un monologo di mezz’ora, interamente girato in casa mia, dove interpreto entrambi i personaggi. Il calcio è un veicolo perfetto su cui far viaggiare messaggi importanti, e farli arrivare alle nuove generazioni. La fine di Weisz rappresenta la tragedia di un popolo, un crimine che non bisogna mai dimenticare. Spero che anche questo mio lavoro serva a coltivare il ricordo, e a condannarlo”.

TORNARE A VIVERE. Nella bacheca, come si dice spesso per i calciatori pluripremiati, Sergio ha diverse performance teatrali vissute da protagonista e spesso anche da regista e soggettista, due romanzi, un libro di racconti. Il progetto più prossimo è la storia di Giovanni Falcone pensata ancora per il teatro. “Per un teatro che finalmente torni ad aprire le sue porte. Perché in questi tempi difficili, a cui eravamo impreparati, la socialità è un’assenza che pesa. Abbiamo bisogno di tornare a sentirci vicini, capaci di condividere un’idea, un pensiero, una passione. Trasmettersi tutto questo, dal palcoscenico alla platea e viceversa, è un dono meraviglioso”.

(Più Stadio, Stadio-Corriere dello Sport, 15 aprile 2021)


giovedì 18 marzo 2021

DICK, UNA STORIA D'AMORE

 

Un amico mi ha chiesto chi mai fosse Dick Hoyt.

Un padre a cui il figlio, tetraplegico con una paralisi cerebrale dalla nascita, un giorno chiese di iscriversi a una corsa di otto chilometri, per raccogliere fondi in favore di un amico. Dick non aveva mai corso, ma si iscrisse e spinse la carrozzina di Rick, suo figlio, fino al traguardo. E alla fine Rick sorrise come non aveva mai fatto, e disse al padre: “E’ stato fantastico, mi è sembrato di non essere un disabile”.




Era il 1977. Tre anni dopo, Dick spingeva Rick alla Boston Marathon. L’avrebbero corsa, insieme, 32 volte. Solo una volta non sono arrivati al traguardo: era il 2013, erano a un miglio dall’arrivo quando esplose la bomba,  stravolgendo tutto. L’anno dopo, sono arrivati in fondo per l’ultima volta.
Così è nato il Team Hoyt, che nel 2009 ha festeggiato le mille gare disputate. Che nel tempo ha scoperto il mondo del triathlon. Rick&Dick, complici in questo loro mondo spalancato ai sogni, insieme hanno completato tante volte l’Ironman, la distanza più dura. Ogni volta, Dick ha portato con sé suo figlio per quattro chilometri, lo ha portato in bici per altri 180, lo ha guidato nella maratona finale.
Il Team Hoyt ha creato una Fondazione, partendo da un’idea semplice: un padre che si spende per i sogni del figlio, senza preoccuparsi delle barriere, convinto che la felicità sia un porto da raggiungere senza aver paura degli ostacoli lungo il cammino.



Dicono che Dick sia morto nel sonno. Succede a pochi, ai giusti, a quelli che hanno dato il meglio nella vita.
Domani, per chi ama le ricorrenze, è la festa del papà. Sembra un disegno imperscrutabile, sembra avere un senso.
Ecco, questo era Dick Hoyt.

 

venerdì 5 marzo 2021

IL POETA CHE SI SOGNAVA CALCIATORE


 

di Marco Tarozzi

I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita”.

Erano gli anni del liceo, per Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, regista, una delle anime più lucide del Novecento, di cui oggi ricorre il “quasi centenario” della nascita. Cento saranno nel 2022, sperando che possa essere una ricorrenza liberata da questa piaga che ci soffoca da un anno, da questa pandemia per la quale lui avrebbe certamente trovato parole vive e lungimiranti, più dei tanti che affollano le fiere delle vanità televisive.

ANNI DI FORMAZIONE. Il liceo era il Galvani, in via Castiglione. Una classe piena di ragazzi di talento, destinati a farsi strada nella vita: c’era Pasolini, c’erano Sergio Telmon e Odoardo Bertani, futuri giornalisti, c’era Nino Pitani che sarebbe diventato il “cattivo” di decine di film col nome d’arte di Daniele Vargas, c’era il futuro segretario del Partito Liberale, Agostino Bignardi. Anni di formazione, anni bolognesi.
A Bologna Pasolini c’era nato, il 5 marzo 1922. Messo al mondo dalla levatrice nella casa di via Borgonuovo, a due passi da piazza Santo Stefano. Il padre Carlo Alberto, capitano di fanteria, comandava le truppe il 31 ottobre 1926, quando un quindicenne, Anteo Zamboni, attentò alla vita di Mussolini che era in visita a Bologna e venne subito linciato dai fascisti. L’infanzia di Pier Paolo, per via del lavoro del padre, non contemplò Bologna. La famiglia si trasferì negli anni a Parma, Conegliano, Belluno, Casarsa (la cittadina friulana di cui era originaria la madre), Scandiano. Gli anni bolognesi furono appunto quelli del Galvani. Quelli di formazione.

TREMAVA IL MONDO. Di sicuro, lui bolognese si sentiva. Anche in quella passione per il calcio che si portò dietro proprio da quegli anni liceali, in cui ebbe la fortuna di assistere allo spettacolo del Bologna che faceva tremare il mondo. Un amore che si portò anche a Roma, per sempre.
Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna il Bologna era il Bologna più potente della sua storia:quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone. Che domeniche, al Comunale…”

AMORE E CALCIO. Quando Pasolini giocava a pallone, traspariva tutto il suo entusiasmo, quasi infantile. Lo hanno ricordato nel tempo anche gli amici più cari, come Ninetto Davoli o Sergio Citti, impegnati tante volte al suo fianco in quella che allora si chiamava Nazionale Attori e Cantanti, e si esibiva per beneficenza. Lui era il capitano, naturalmente. E da quel gruppo passarono Gianni Morandi, Ugo Tognazzi, Franco Nero, Philippe Leroy, Enrico Montesano, Enzo Cerusico, Maurizio Merli.
Non gli sembrò vero di poter intervistare i suoi idoli, i giocatori del Bologna, per il film documentario “Comizi d’amore”. Quelle immagini sono preziose: fanno trasparire l’entusiasmo dell’intervistatore e l’imbarazzo dei giocatori di fronte a domande che toccano la sfera del privato in un modo assolutamente impensabile per i tempi. Con un Giacomino Bulgarelli giovanissimo, eppure più “scafato” di tutti.

SEGNATO DALLA VITA. Pier Paolo Pasolini a Roma ha costruito la sua grandezza e ha coltivato la sua profonda solitudine. Ha scritto opere che hanno segnato il tempo, da “Ragazzi di vita” a “Una vita violenta”, da “Teorema” all’incompiuto e drammatico “Petrolio”; ha creato un cinema poeticamente tragico, fatto di accattoni e vangeli. E su un campetto squallido del litorale, uno di quelli su cui si tirano calci sghembi al pallone, è morto di una morte violenta e mai davvero chiarita. Quella notte d’autunno del 1975 non se ne andò semplicemente un personaggio famoso e controverso, uno scrittore, un regista, ma un uomo libero e controcorrente, e per questo assediato dai dubbi e da una malinconica tristezza. Uno che Bologna e quegli anni del liceo non li aveva mai dimenticati.

(Più Stadio, Corriere dello Sport/Stadio, 5 marzo 2021)


domenica 24 gennaio 2021

SETTANTA, OGGI


Correvo così, per fare qualcosa di diverso dalle vasche in piscina. Poi ho incrociato la tua storia, mi ci sono imbattuto e poi perduto, e correre è diventata parte della mia vita.
Ho letto di quella tua vita troppo breve, poi l’ho studiata, poi ne ho scritto tanto. Sempre cercando di fare mia la tua teoria del Dono. Di come non vada mai sprecato, di come sia importante onorare la vita.

Sei diventato leggenda, come tutti gli eroi che se ne vanno da giovani. Ma io alla vita non ho mai chiesto eroi. Vorrei che tu l’avessi vissuta tutta, e che fossi qui adesso; vorrei in qualche modo conoscerti, vedere come hai messo a frutto quella tua capacità di essere avanti, in anticipo sui tempi. Ti vorrei come esempio, non come eroe.

Vorrei poterti dire in qualche modo “buon compleanno, Pre. Sono settanta, e sei sempre un cuore giovane”.
Perché questo saresti, ancora oggi.

Steve Roland Prefontaine, 25 gennaio 1951-30 maggio 1975



sabato 9 gennaio 2021

DAN PETERSON, L'UOMO CHE CI HA PORTATO L'AMERICA


 

Ottantacinque primavere, proprio oggi. E il bello è che ne ha vissute più qui in Italia che dall’altra parte dell’oceano. Perché l’uomo di Evanston, Illinois, ha deciso da tempo che la sua America è qui, nel Belpaese. E per quanto lo abbia girato, per quanto da tempo Milano sia il centro esatto del suo mondo, resta il fatto che per Daniel Lowell Peterson tutto è iniziato da Bologna, e dalla Virtus. Un racconto lungo e ricchissimo, iniziato nell’estate 1973.

COLPO A SORPRESA. Nico Messina ha finito la sua avventura sulla panchina della Virtus, e Gigi Porelli, l’Avvocato della storia e della gloria, va in cerca di maestri proprio là dove la pallacanestro ha mosso i primi passi. Si rivolge a Richard Kaner, agente di John Fultz, per cercare il nuovo timoniere, e la pronta proposta è Rollie Massimino, prestigioso allenatore di college da poco meno di un ventennio. Ma quando l’affare sembra fatto il coach firma per Villanova, e allora Kaner si mette di nuovo alla ricerca e in quattro e quattr’otto sfodera un nuovo nome. Pressoché sconosciuto, però. Questo Dan Peterson, che sbuca all’improvviso, ha due lauree, è insegnante di basket ed ha conseguito il titolo accademico in Sport Administration alla Michigan University. Dopodiché è volato in Cile a guidare quella che lui stesso definirà “la Nazionale più bassa del mondo”, portandola a risultati insperati.

TOM DOOLEY E CANESTRI. Porelli si fida di Kaner, l’affare si fa. Peterson approda a Bologna e certamente non passa inosservato: look da rocker, pantalone a zampa d’elefante, capelli a caschetto che cadono sulle spalle. Suona anche la chitarra, virando alle ballate folk: quella di Tom Dooley diventerà un “must” nelle serate con gli amici bolognesi. Insomma, a qualcuno scappa anche un mezzo sorriso, ma lui ci mette un attimo a diffondere il suo verbo: in poco tempo diventa padrone dello spogliatoio, diffondendo carisma e leadership. E’ autorevole, testardo, esigente. E’ passata alle antologie dell’aneddotica la reazione di Gigi Serafini quando il coach chiarisce di voler introdurre la regola dei due allenamenti. “Mi sembra un numero giusto”, commenta Gigi, prima che gli venga spiegato che si tratta di due sedute quotidiane, non settimanali.


DI NUOVO AL VERTICE. Alla prima stagione, la Virtus di Peterson conquista la Coppa Italia, trascinata da Fultz. Nel 1976 arriva anche lo scudetto, il settimo, vent’anni esatti dopo l’ultima grande gioia. In campo ci sono Driscoll, Caglieris, Serafini, Antonelli, “l’americano d’Italia” Gianni Bertolotti, un giovanissimo Marco Bonamico. La Virtus deve tanto a Dan, lui deve tanto alla Virtus e non lo dimenticherà mai. Anche quando, dopo aver brillato a Bologna, prende la strada di Milano andando a guidare l’Olimpia, dove vincerà quattro scudetti, una Coppa dei Campioni, una Korac e due Coppe Italia. Nel 1987, a soli 51 anni, Peterson dice basta. Si inventa un nuovo modo di raccontare la pallacanestro, porta la Nba nelle case degli italiani con le telecronache sulle reti Mediaset, dove introduce anche lo spettacolo del wrestling, diventa pure testimonial pubblicitario. Torna sulla panchina di Milano nel 2011, a 75 anni, per chiudere una stagione nata male: è l’eterno ragazzo di sempre.

PER NOI, NUMERO UNO. Oggi dice che per rilanciare la pallacanestro in Italia bisognerebbe tornare un po’ indietro, limitando il numero degli stranieri nel roster. Poi, si diverte a stilare la classifica del quintetto ideale della sua lunga avventura italiana: c’è molta Milano, ma in posizione di “quattro” mette sempre Terry Driscoll, l’uomo che guidò la sua Virtus in campo e poi ne raccolse l’eredità, vincendo altri due scudetti da coach. Insomma, nel suo concetto di basket c’è sempre un po’ di quella Bologna che gli ha aperto la via italiana al basket. Per noi numero uno, forever.

Marco Tarozzi

Più Stadio, 9 gennaio 2021