martedì 3 aprile 2018

RON CLARKE, CHE VINSE ANCHE PERDENDO


di Marco Tarozzi
La medaglia d’oro olimpica, quella che non vinse mai sulle piste d’atletica, arrivò in modo speciale. E con una dedica altrettanto speciale. Luglio del 1966, Ron Clarke, l’uomo che demoliva record mondiali senza riuscire ad essere il migliore alle Olimpiadi, era stato invitato al meeting di Praga, e ad invitarlo era stato una leggenda del mezzofondo. Emil Zatopek in persona lo aveva guidato, dopo la gara, per le strade di Praga, la sua amatissima città, scortandolo a sera fino all’aeroporto, dove lo aspettava l’aereo che lo avrebbe portato a Londra, per un altro impegno sulle piste. Fu allora che Ron si rese conto di cosa rappresentasse Zatopek per la sua gente: insieme superarono la dogana, con un semplice saluto della “Locomotiva umana” alle guardie, e raggiunsero la scaletta dell’aereo, a bordo pista. In quel momento, prima di sparire inghiottito dalla sera, Zatopek consegnò a Clarke un minuscolo pacchetto, salutandolo con un abbraccio. Per un paio d’ore il campione australiano si interrogò sul contenuto, arrivando a formulare anche le ipotesi più fantasiose: Emil si era dimostrato un amico sincero, ma vai a sapere quello che passa per la testa a uno che ti fa saltare tutte le barriere per agevolarti l’imbarco. E se quell’involucro avesse nascosto qualcosa di vietato dalla legge, per dire?… Ron si ripromise di aprire quel dono soltanto una volta atterrato a Londra, ma poi non seppe resistere alla curiosità e lo scartò. Dentro, trovò una medaglia d’oro olimpica, quella che Zatopek aveva vinto nei 10.000 metri ad Helsinki, nel 1952. Con una dedica, incisa appositamente: “A Ron Clarke, 19 luglio 1966. Non solo per amicizia, ma perché la meriti”.
L’UOMO DEI RECORD – La meritava davvero, Ron Clarke. Ma non la vinse mai. Tutti lo trattavano come un predestinato, fin da quando, all’apertura dei Giochi di Melbourne, nella sua Australia, gli era toccato l’immenso onore di accendere il tripode, a neppure diciannove anni. Già allora era una promessa: aveva corso il miglio in 4’19”4 e le 2 miglia in 9’17”8 nel 1955, ad appena diciassette anni, e in quell’anno olimpico stampò un impressionante 4’06”8, sempre sul miglio. Mancò di poco la qualificazione olimpica, ma si guadagnò quella passerella che era una promessa di futuro.
Di lì a poco avrebbe iniziato la sua corsa incredibile verso il vertice, che lo portò a superare per ben diciassette volte i limiti scritti sui libri dell’atletica. Inanellando primati mondiali dalle 2 miglia all’ora in pista. Sempre affrontando la vita, e la corsa, con ironia ed eleganza. Come quando raccontava della prima volta, quel 18 dicembre 1963 in cui corse i 10000 metri in 28’15”6 nella sua Melbourne. Facendolo come nessuno l’aveva fatto prima.
“Avevo lasciato la macchina a mia moglie Helen, che doveva portare i bambini a una festa. Così, uscito dal lavoro, mi feci a piedi le due miglia che mi separavano dall’Olimpic Park. Corsi e feci il mio primo primato. Poco più tardi, raggiunsi la famiglia alla festa, sempre a piedi, e dissi a mia moglie: ho fatto il record del mondo. Lei sorrise, felice ovviamente, e disse: fantastico… mentre me lo racconti, puoi darmi una mano a preparare i sandwiches?”
Questo era Ron Clarke. Uno che prendeva l’atletica seriamente, tanto da diventare il primo della lista, ma allo stesso tempo sapeva dare alle cose il loro valore. “L’ho amata da morire, e se non ho vinto nessuna medaglia d’oro, significa che doveva andare così. Ho dato il massimo. E dopo quegli anni, ho amato il resto della mia vita, la mia famiglia, il mio lavoro”.
Aveva dato il massimo anche il 14 ottobre 1964, nella finale unica dei 10.000 alle Olimpiadi di Tokio, trentasette runners in pista a cercare gloria. Ci era arrivato da primatista del mondo, i riflettori puntati addosso. E nell’ultimo rettilineo aveva cercato di rispondere all’attacco del tunisino Mohamed Gammoudi, certamente dotato di un finale di gara più acceso. Ma entrambi non avevano fatto i conti con un “underdog”, uno di quelli che non godono dei favori del pronostico, nemmeno tra gli addetti ai lavori. Non aveva neppure vinto i trials Usa, Billy Mills, preceduto nell’occasione da Gerry Lindgren. Ma era lì, nel giorno giusto e al momento giusto, e con una volata micidiale li infilò entrambi. Per Ron Clarke, il più veloce al mondo, soltanto una medaglia di bronzo. L’unica della sua carriera olimpica.
UN DANNATO DESTINO – Quattro anni dopo, a Città del Messico, la sua corsa a cinque cerchi finì con toni drammatici. Arrivato all’appuntamento in cima alla lista mondiale all-time (e anche primatista stagionale) sia nei 5000 che nei 10000, rimediò soltanto delusioni. Nella distanza più lunga, nonostante una lunga preparazione sulle Alpi, pagò più di altri i problemi legati all’altitudine. Finì sesto, a 17 secondi dal vincitore Naftali Temu, ma le foto scattate immediatamente dopo l’arrivo lo ritraggono con la maschera dell’ossigeno sul viso, attorniato da medici e personale di servizio che tengono monitorato il suo stato di salute. “Di quell’ultimo giro non ricordo nulla. Ero sprofondato dentro un grande buio”.
Quattro giorni dopo, nella finale dei 5000, non sarebbe riuscito a raddrizzare quel destino beffardo, nemmeno cercando di dettare il ritmo nella prima parte della gara. Il solito finale lo aspettava al varco a un chilometro dal traguardo, quando i corridori d’Africa, che sull’esempio di Abebe Bikila iniziavano a fare la voce grossa a livello internazionale, iniziarono a sfilarlo e a scappargli via. Primo, proprio Gammoudi. Secondo e terzo i keniani: Kip Keino e ancora Temu. Quarto il campione di casa, il messicano Juan Maximo Martinez, evidentemente a suo agio in quelle condizioni particolari e pressoché irripetibili.
LA GARA PIU’ MODERNA – Niente da fare. Gli mancava lo spunto, doveva correre sul ritmo. E quando ci riusciva, lo faceva come nessun altro al mondo. Stroncando la resistenza di qualunque avversario. Come accadde il 14 luglio 1965, nella gara dei 10000 metri sulla gloriosa pista di Oslo. Ci era arrivato da primatista del mondo, finì col battere sé stesso con un risultato che spostava i criteri di valutazione, e proiettava tutto il movimento in una nuova era. Corse in perfetta solitudine, quel giorno, rifilando un minuto e quaranta secondi al britannico Hogan, secondo classificato) e spostò il limite di 36 secondi e 2 decimi. In un colpo solo. Come fosse sceso da un altro pianeta, né più né meno.
Moderno e unico era anche nel presentarsi al mondo, con quelle canotte fatte in casa che erano uno spettacolo, e che rimandavano sempre il pensiero alla sua terra e alla sua gente, in qualunque parte del mondo si trovasse. Moderno e diverso fu nelle scelte di vita. Generoso, elegante, pronto a mettersi in gioco per gli altri. Una “vocazione” particolarmente apprezzata a Gold Coast, la città del Queensland di cui si era innamorato durante una vacanza con Helen nel 1957, e nella quale sarebbe tornato quasi ogni anno fino a stabilircisi definitivamente nel 1995: i cittadini (oltre mezzo milione di abitanti) di questa terra affacciata sull’oceano, di spiagge infinite, sole che riscalda e cuori innamorati persi dietro ai loro surf, decisero nel 2004 che Ron Clarke avrebbe dovuto diventare “major”. E lui restò il loro sindaco fino al 2012, tre anni prima di andarsene per sempre. Il cuore aveva dato i primi segnali di affaticamento nel 1972, due anni dopo il ritiro dalle scene, e nel 1983 proprio un innocuo allenamento di corsa lo aveva mandato in fibrillazione, e c’era voluta un’operazione perfettamente riuscita per sistemare una valvola difettosa. L’addio arrivò a causa di un’insufficienza renale, nel giugno 2015. Un mese esatto prima del cinquantesimo anniversario di quel record incredibile ottenuto sulla pista di Oslo.
Impossibile etichettare Ron Clarke come un perdente. Le sue vittorie, a rileggerle bene, sono anche nella vita dopo l’atletica, quella di uomo d’affari prima e di amministratore pubblico poi. Prese questi impegni con la stessa passione e la stessa determinazione con cui aveva lavorato per migliorarsi e assicurarsi un posto tra i grandi del mezzofondo. Nel grande libro dell’atletica, è entrato da precursore. Arrivando a correre, oltre cinquant’anni fa, i 10000 con quel “crono” stratosferico, 27’39”4, ma anche i 5000 in 13’16”6, e a percorrere 20,323 chilometri nell’ora in pista. “Ero un corridore dallo stile molto semplice. Mi piaceva azzardare, cercare sempre di andare ad esplorare i miei limiti, correre da “front runner” cercando di viaggiare più veloce che potevo. A volte la cosa ha funzionato, a volte no”. Ma quando ha funzionato, accidenti, sono state pagine indimenticabili per l’atletica leggera.  Zatopek, che lo aveva capito prima di tutti, lo ricompensò con una medaglia d’oro che non aveva eguali.
THE STORYTELLER - Runner's World, febbraio 2018



venerdì 9 marzo 2018

NIENTE RISPOSTE



Quando succedono cose così, è il momento delle domande più profonde. Qual è il senso, e come spiegare a una bambina di due anni che la vita ha un perché, anche se quando vuole è più stronza che mai. Se c’è una risposta, è che la vita è una parentesi. Dovremmo ricordarcelo, quando ci pensiamo immortali. Che brucia in fretta, e allora bisogna respirarla a pieni polmoni, cercando di non lasciarsi dietro rimpianti e occasioni. Che a volte ti addormenti e ti porta via, senza avvisarti. Se c’è una risposta. Ma una risposta non c’è mai.

martedì 6 febbraio 2018

IVO VAN DAMME, FERMATO DAL DESTINO



 
di Marco Tarozzi

“Essere il numero due non mi basta. Ai prossimi Giochi olimpici, farò di tutto per diventare il numero uno”. Ivo Van Damme assomigliava anche in questo, nel coraggio un po’ guascone delle intenzioni e delle dichiarazioni, a quel talento d’oltreoceano che tutti chiamavano Pre. Nessuno immaginava che il destino avrebbe presto accomunato lui e Steve Roland Prefontaine nella tragedia più assurda, quella che toglie la linfa vitale a chi è nel pieno delle forze e sta guardando con mille certezze al futuro. Aveva stile e carattere, quel ragazzo di Bruxelles che in pochi anni era entrato di forza tra i grandi dell’atletica in pista. Aveva carisma, e non gli mancava il fisico del ruolo. Alto, capelli lunghi e biondi, barba che lo faceva sembrare un veterano di mille battaglie. Una bella faccia da attore, una determinazione quasi feroce, una capacità inusuale – per un ragazzo della sua età, appena ventidue anni – di interpretare al meglio la gara. Due medaglie d’argento alle Olimpiadi di Montreal gli avevano srotolato davanti un radioso avvenire. Almeno così pensavano tutti, in quei giorni felici di fine luglio del 1976.

Alla corsa, Ivo era arrivato tardi. Nato nel 1954, figlio di un poliziotto, prima ci aveva provato con il calcio, sognando come tanti coetanei di indossare un giorno la maglia dell’Anderlecht, la squadra più blasonata del Belgio. Aveva fatto la trafila delle giovanili, immaginava un futuro da professionista. Ma le cose dovevano andare diversamente: una frattura al braccio, poi il trasferimento per il lavoro del padre a Veltem-Beisem, piccolo borgo del Brabante fiammingo a un quarto d’ora d’auto dal capoluogo Leuven, gli cambiarono le prospettive. A diciassette anni, con la passione per la pratica sportiva ancora viva, Van Damme bussava alla porta del Daring Club di Leuven, e pochi mesi dopo la fiamma bruciava già intensamente. Subito in pista, inizialmente a cimentarsi sulle distanze dei 1500 e dei 3000 metri, di lì a poco a prendere confidenza con gli 800 metri, inaspettata e piacevole scoperta anche per lui. 2’07”20 alla prima uscita ufficiale, già diciottenne, un miglioramento di cinque secondi al secondo tentativo. E nel 1973, a diciannove anni, i primi risultati davvero significativi: per iniziare il quarto posto, sempre sugli 800, agli Europei juniores di Duisburg, alle spalle di Steve Ovett, Willi Wülbeck ed Erwin Gohlke; poi, dopo un anno tribolato a causa di una forma di mononucleosi, il secondo posto agli Europei indoor di Katowice, dietro al tedesco dell’Est Gerhard Stolle, ma demolendo un record storico per l’atletica belga, quello di Roger Moens, che resisteva da vent’anni. E nel 1976, anno olimpico, la prima medaglia d’oro internazionale, ancora una volta agli Europei indoor, terreno amatissimo, e ancora una volta sugli 800 metri, col tempo di 1’49”2. A cinque mesi dall’appuntamento olimpico, un biglietto da visita prestigioso.

I GIORNI DELLA GLORIA – Nonostante quella medaglia pesantissima, Ivo è ancora fuori dai radar degli addetti ai lavori quando si presenta a Montreal. Buon specialista, certo, ma ancora giovane e certamente non accreditato come altri. Mancano i talenti d’Africa, bloccati in patria dal primo boicottaggio della storia olimpica: per protesta contro la Nuova Zelanda, la cui Nazionale di rugby aveva compiuto una trasferta in Sudafrica, infrangendo il veto sportivo in atto a causa della politica di “apartheid” della nazione ospitante, in Canada non si presentano ventisette paesi africani, uno asiatico (l’Iraq) e uno americano (la Guyana). All’appello mancano campioni come i kenianI Mike Boit e John Kipkurgat, specialisti degli 800 metri, o come il tanzaniano Filbert Bayi, primatista mondiale dei 1500. Ma la concorrenza è comunque nutrita. Il favorito nel doppio giro di pista e lo statunitense Rick Wohluther, medaglia d’argento sulla distanza a Monaco nel 1972 e detentore della miglior prestazione stagionale. Il cubano Alberto Juantorena, favoritissimo nei 400, è una specie di incognita che dà comunque affidamento, avendo già segnato il secondo miglior risultato mondiale dell’anno. E ci sono Clement, Wullbeck, Steve Ovett che ha addirittura un anno meno di Van Damme.

Ivo è sicuro di sé, lo dimostra già nelle batterie, vincendo la sua in 1’47”80, e soprattutto in semifinale, dove si piazza immediatamente alle spalle di Juantorena in 1’46”00, a dodici centesimi dal tempo fatto registrare dal cubano. Approda alla finale non più da carneade, tra i giornalisti accreditati più d’uno inizia a tenerlo d’occhio. Così come lo controllano i colleghi in pista, perché il ragazzo mostra di saper leggere la gara come pochi. In finale, “El Caballo” Juantorena impone un ritmo elevato, Wohlhuter rimane incollato mentre Ivo sceglie una tattica più accorta, che pagherà nel finale: sul rettilineo conclusivo, il belga riprende e supera lo statunitense e va a prendersi la medaglia d’argento, chiudendo in 1’43”86. “Per battermi, bisogna correre a ritmo di record del mondo”, aveva confidato Van Damme, ricordando anche in questo le dichiarazioni di Prefontaine alla vigilia del 5000 di Monaco. E aveva ragione da vendere: Juantorena ha viaggiato in 1’43”50, nuovo primato mondiale, e quello di Ivo è il terzo crono di tutti i tempi, subito dietro al leggendario 1’43”7 fissato all’Arena di Milano da Marcello Fiasconaro nel 1973.

DUE VOLTE SUL PODIO – Pochi giorni dopo, Van Damme si rimette in gioco nei 1500 metri. Cinque batterie, e il giovane belga, ormai tutt’altro che sconosciuto, supera il turno agevolmente finendo secondo nella sua, alle spalle del tedesco occidentale Wellmann, spalla a spalla con Wohlhuther. Su questo terreno, il grande favorito è il neozelandese John Walker, ma nelle eliminatorie brillano anche i talenti di Ovett, di Wessinghage, bronzo agli Europei, dei britannici Clement e Moorcroft, dell’irlandese Coghlan, dell’australiano Crouch e di un insolito (su questa distanza) Fernando Mamede. Due semifinali estremamente tattiche portano tutti i migliori all’atto finale, che si sviluppa con una gara in cui i tatticismi si sprecano. Dunque lentissima, anche quando a tirare il gruppo dei nove finalisti va Coghlan, e pronta ad accendersi all’ultimo giro. Van Damme si muove da atleta navigato, quando Coghlan aumenta il ritmo portandosi dietro Walker, sul rettilineo opposto a quello del traguardo, è perfettamente posizionato. Ma quando tocca a lui, resta per qualche attimo chiuso da Graham Crouch. Sono le frazioni di secondo che permettono a Walker di creare il “buco”. Nell’ultimo rettilineo, il belga risale infilando Wohlhuter, ormai spento, e Coghlan, ma non basta ad agguantare il neozelandese. Sul traguardo ci sono 48 centesimi di secondo tra il vincitore ed il quinto classificato, Clement. Van Damme si piazza alle spalle di Walker, con un distacco di appena dieci centesimi. E porta a casa da Montreal la sua seconda medaglia d’argento.

IL FINALE SBAGLIATO – Al rientro in patria, Ivo è l’eroe del momento. Addosso gli resta quel filo di malinconia che prende chi sa di essere stato a un passo dal trionfo, e le sue parole non nascondono quel senso di incompiutezza. “Tra quattro anni, sarò il numero uno”, assicura. Non un proclama, niente parole gridate. Solo una certezza da coltivare. Si gode il momento, comunque: a ventidue anni, sa di avere fatto qualcosa di grande. Tutta benzina per ripartire con ancora più energia, con nuove motivazioni.

Ma c’è quel maledetto destino, in agguato. Ivo corre ancora da protagonista, negli 800 stampa un 1’44”02 a Zurigo e un 1’44”09 a Colonia, risultati in fotocopia che parlano di un atleta in piena condizione, padrone delle proprie sensazioni, maturo come pochi lo sarebbero a quell’età. E’ pienamente soddisfatto di questa annata da favola, quando si sposta a Marsiglia per uno stage di allenamento invernale. E’ passato da poco Natale, quando arriva il “rompete le righe”. Il 29 dicembre, Ivo si infila in auto per tornare a casa. Ha la testa piena di pensieri positivi. Nella stagione che verrà lo attende la prima edizione della Coppa del Mondo, a Dusseldorf, nel 1978 a Praga ci saranno gli Europei. Soprattutto, pensa ad un futuro da costruire fuori dalle piste: a casa lo attende Rita Thijs, la sua fidanzata. C’era anche lei, a Montreal, condivide la passione e i sacrifici del suo uomo. Nel 1975 è stata campionessa del Belgio degli 800, e medaglia d’argento agli Europei juniores. Hanno deciso, Ivo e Rita: il 1977 sarà l’anno giusto per mettere su famiglia. Li attende un matrimonio da campioni.

Belle sensazioni. Frantumate in poche frazioni di secondo all’altezza di Orange, nel Midi, in quella sera del 29 dicembre. Uno schianto frontale che non lascia scampo, né tempo per pensare. A poche ore da un nuovo anno che Ivo Van Damme non potrà mai vivere. Come per Prefontaine in Oregon, toccherà agli amici, a quelli che ne ammiravano il talento, perpetrarne la memoria. Un gruppo di giornalisti sportivi che aveva seguito la crescita sportiva, testimoniandone la grandezza, inventerà il memorial che porta il suo nome, e sarà Wilfried Meert, uno di loro, a farne uno degli appuntamenti classici del calendario europeo e mondiale. Un modo per tenere accesa la memoria, per ricordare un nome. Ma quello che avrebbe potuto fare negli anni a venire Ivo Van Damme sulle piste di atletica, che ruolo certamente importante avrebbe potuto recitare nel periodo del grande duello tra Seb Coe e Steve Ovett, non lo sapremo mai. La storia e la vita hanno deciso di non regalarci queste emozioni. E quando vogliono, sanno essere incredibilmente crudeli.
THE STORYTELLER - RUNNER'S WORLD ITALIA - gennaio 2018