giovedì 18 marzo 2021

DICK, UNA STORIA D'AMORE

 

Un amico mi ha chiesto chi mai fosse Dick Hoyt.

Un padre a cui il figlio, tetraplegico con una paralisi cerebrale dalla nascita, un giorno chiese di iscriversi a una corsa di otto chilometri, per raccogliere fondi in favore di un amico. Dick non aveva mai corso, ma si iscrisse e spinse la carrozzina di Rick, suo figlio, fino al traguardo. E alla fine Rick sorrise come non aveva mai fatto, e disse al padre: “E’ stato fantastico, mi è sembrato di non essere un disabile”.




Era il 1977. Tre anni dopo, Dick spingeva Rick alla Boston Marathon. L’avrebbero corsa, insieme, 32 volte. Solo una volta non sono arrivati al traguardo: era il 2013, erano a un miglio dall’arrivo quando esplose la bomba,  stravolgendo tutto. L’anno dopo, sono arrivati in fondo per l’ultima volta.
Così è nato il Team Hoyt, che nel 2009 ha festeggiato le mille gare disputate. Che nel tempo ha scoperto il mondo del triathlon. Rick&Dick, complici in questo loro mondo spalancato ai sogni, insieme hanno completato tante volte l’Ironman, la distanza più dura. Ogni volta, Dick ha portato con sé suo figlio per quattro chilometri, lo ha portato in bici per altri 180, lo ha guidato nella maratona finale.
Il Team Hoyt ha creato una Fondazione, partendo da un’idea semplice: un padre che si spende per i sogni del figlio, senza preoccuparsi delle barriere, convinto che la felicità sia un porto da raggiungere senza aver paura degli ostacoli lungo il cammino.



Dicono che Dick sia morto nel sonno. Succede a pochi, ai giusti, a quelli che hanno dato il meglio nella vita.
Domani, per chi ama le ricorrenze, è la festa del papà. Sembra un disegno imperscrutabile, sembra avere un senso.
Ecco, questo era Dick Hoyt.

 

venerdì 5 marzo 2021

IL POETA CHE SI SOGNAVA CALCIATORE


 

di Marco Tarozzi

I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita”.

Erano gli anni del liceo, per Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, regista, una delle anime più lucide del Novecento, di cui oggi ricorre il “quasi centenario” della nascita. Cento saranno nel 2022, sperando che possa essere una ricorrenza liberata da questa piaga che ci soffoca da un anno, da questa pandemia per la quale lui avrebbe certamente trovato parole vive e lungimiranti, più dei tanti che affollano le fiere delle vanità televisive.

ANNI DI FORMAZIONE. Il liceo era il Galvani, in via Castiglione. Una classe piena di ragazzi di talento, destinati a farsi strada nella vita: c’era Pasolini, c’erano Sergio Telmon e Odoardo Bertani, futuri giornalisti, c’era Nino Pitani che sarebbe diventato il “cattivo” di decine di film col nome d’arte di Daniele Vargas, c’era il futuro segretario del Partito Liberale, Agostino Bignardi. Anni di formazione, anni bolognesi.
A Bologna Pasolini c’era nato, il 5 marzo 1922. Messo al mondo dalla levatrice nella casa di via Borgonuovo, a due passi da piazza Santo Stefano. Il padre Carlo Alberto, capitano di fanteria, comandava le truppe il 31 ottobre 1926, quando un quindicenne, Anteo Zamboni, attentò alla vita di Mussolini che era in visita a Bologna e venne subito linciato dai fascisti. L’infanzia di Pier Paolo, per via del lavoro del padre, non contemplò Bologna. La famiglia si trasferì negli anni a Parma, Conegliano, Belluno, Casarsa (la cittadina friulana di cui era originaria la madre), Scandiano. Gli anni bolognesi furono appunto quelli del Galvani. Quelli di formazione.

TREMAVA IL MONDO. Di sicuro, lui bolognese si sentiva. Anche in quella passione per il calcio che si portò dietro proprio da quegli anni liceali, in cui ebbe la fortuna di assistere allo spettacolo del Bologna che faceva tremare il mondo. Un amore che si portò anche a Roma, per sempre.
Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna il Bologna era il Bologna più potente della sua storia:quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone. Che domeniche, al Comunale…”

AMORE E CALCIO. Quando Pasolini giocava a pallone, traspariva tutto il suo entusiasmo, quasi infantile. Lo hanno ricordato nel tempo anche gli amici più cari, come Ninetto Davoli o Sergio Citti, impegnati tante volte al suo fianco in quella che allora si chiamava Nazionale Attori e Cantanti, e si esibiva per beneficenza. Lui era il capitano, naturalmente. E da quel gruppo passarono Gianni Morandi, Ugo Tognazzi, Franco Nero, Philippe Leroy, Enrico Montesano, Enzo Cerusico, Maurizio Merli.
Non gli sembrò vero di poter intervistare i suoi idoli, i giocatori del Bologna, per il film documentario “Comizi d’amore”. Quelle immagini sono preziose: fanno trasparire l’entusiasmo dell’intervistatore e l’imbarazzo dei giocatori di fronte a domande che toccano la sfera del privato in un modo assolutamente impensabile per i tempi. Con un Giacomino Bulgarelli giovanissimo, eppure più “scafato” di tutti.

SEGNATO DALLA VITA. Pier Paolo Pasolini a Roma ha costruito la sua grandezza e ha coltivato la sua profonda solitudine. Ha scritto opere che hanno segnato il tempo, da “Ragazzi di vita” a “Una vita violenta”, da “Teorema” all’incompiuto e drammatico “Petrolio”; ha creato un cinema poeticamente tragico, fatto di accattoni e vangeli. E su un campetto squallido del litorale, uno di quelli su cui si tirano calci sghembi al pallone, è morto di una morte violenta e mai davvero chiarita. Quella notte d’autunno del 1975 non se ne andò semplicemente un personaggio famoso e controverso, uno scrittore, un regista, ma un uomo libero e controcorrente, e per questo assediato dai dubbi e da una malinconica tristezza. Uno che Bologna e quegli anni del liceo non li aveva mai dimenticati.

(Più Stadio, Corriere dello Sport/Stadio, 5 marzo 2021)