lunedì 29 giugno 2020

L'UOMO VERTICALE





Mario Corso e Pierino Prati sono stati tra i più grandi calciatori italiani della loro generazione, e in assoluto. E lo è stato anche Carburo.

Qualche giorno fa se ne è andato uno dei più grandi portieri degli anni Sessanta. C’è sempre stato poco da scavare nella sua vita, perché lui preferiva i silenzi alle dichiarazioni . Forse è per questo che ho avuto la sensazione che il suo addio sia scivolato via troppo in sordina. Dignità, sobrietà, professionalità. Un uomo verticale, come si dice.

 O forse è una cosa mia. Che da bambino finivo sempre in porta, ed ero orgoglioso dei miei guanti da portiere comprati al “cacciaepesca”. Stavo là dietro e sognavo di essere William Negri.

 Del resto, cosa contano cinque righe in più o in meno? Conta il cammino, per ognuno di noi. E il conto in pari con la coscienza, quando si può.

domenica 21 giugno 2020

VERSO BOLOGNA-JUVE - LA PRIMA VOLTA ALLO STERLINO





Il 6 novembre 1921, la prima sfida in campionato. Con un rigore negato dall’arbitro che fece infuriare i tifosi rossoblù

di Marco Tarozzi

Vi siete mai chiesti perché il Bologna, fondato alla birreria Ronzani il 3 ottobre 1909, e la Juventus, nata dodici anni prima, il primo giorno di novembre del 1897, dalle chiacchiere di un gruppo di ragazzi del liceo classico D’Azeglio spese su una panchina di corso Umberto a Torino, si siano incontrate per la prima volta alla fine del 1921? Presto detto: perché il “girone unico” non era ancora nella testa di chi il calcio lo doveva organizzare (sarebbe arrivato solo a partire dalla stagione 1929-30) e le due squadre iniziavano sempre la stagione in gironi eliminatori diversi, e per anni non arrivarono mai a giocarsi insieme i momenti topici del torneo.
I bianconeri avevano vinto lo scudetto nel 1905, prima che a Bologna i primi fanatici del pallone trovassero sfogo ai Prati di Caprara, poi erano spesso rimasti invischiati in stagioni non esaltanti, perché i grandi protagonisti erano altri.

VITE PARALLELE – I rossoblù affrontavano solitamente il girone veneto emiliano, i bianconeri quello piemontese e in una occasione (1913-14) erano finiti in quello lombardo. Nel 1914-15, solo la Juve approdò alle semifinali nazionali. Poi, la guerra portò al Paese problemi più gravi da affrontare.
Nel 1919-20, campionato della rinascita, entrambe le squadre passarono il girone di qualificazione del Torneo Maggiore, quello delle squadre del Nord, ma nelle semifinali nazionali andò avanti soltanto la Juve nel proprio girone. I bianconeri arrivarono alle finali nazionali con Inter e Genoa, finirono alle spalle dei nerazzurri che poi andarono a vincere la sfida per lo scudetto contro la vincitrice del Torneo Centro-Meridionale, il Livorno.
Nella stagione successiva le parti si invertirono: fu il Bologna a continuare la sua corsa, superando il girone eliminatorio emiliano, mentre la Juve si arenava in quello piemontese. I rossoblù sarebbero arrivati alla finale di Lega Nord, battuti dalla Pro Vercelli in una interminabile battaglia “ad oltranza” aperta da una rete di Cesare Alberti, finita 2-1 per i piemontesi dopo 128 infiniti minuti. Poi, la Pro Vercelli avrebbe vinto il suo sesto scudetto nella finalissima col Pisa. Era il 17 luglio 1921, si giocava a Livorno: il Bologna avrebbe dovuto aspettare poco meno di quattro mesi per incontrare, finalmente, quelli della Juve.

Il Bologna 1921-1922




LA PRIMA SFIDA – Campo dello Sterlino, intitolato alla memoria del grande Emilio Badini. E’ il 6 novembre 1921, sesta giornata del campionato dello “scisma”, quello che ha visto nascere la CCI, Confederazione Calcistica Italiana, su un progetto di Vittorio Pozzo e per volere dei grandi club, preoccupati dall’inclusione di troppe società minori nel campionato. Questa volta, Bologna e Juventus sono finite nello stesso girone, e finalmente possono affrontarsi. E’ il Bologna che Hermann Felsner, arrivato in città l’anno prima, sta pazientemente costruendo, e che arriverà ai vertici in un pugno di anni, mentre la Juventus sta marciando spedita verso uno dei momenti cruciali della sua storia: due anni dopo, nel 1923, diventerà proprietà della famiglia Agnelli, e conquisterà in fretta i vertici del calcio.
La tribuna-gioiello dello Sterlino strabocca di tifosi, c’è il pubblico delle grandi occasioni. La partita è un faccia a faccia senza timori reverenziali, almeno fino al 24’, quando Gaetano Gallo, ala arrivata un anno prima dal Carignano, approfitta di una incomprensione tra i terzini rossoblù Sacchi e Rossi e di una uscita un po’ avventata del numero uno Gianese, portando in vantaggio la Juve. Da lì in poi è un arrembaggio dei padroni di casa, che nel primo tempo non porta a nulla, ma al settimo della ripresa rimette la partita in equilibrio grazie alla rete di Cesare Alberti, bomber appena diciassettenne, talento assoluto che avrà un futuro travagliato e una vita breve e tragica ad attenderlo.

PRIME POLEMICHE – Tutto bene? Per gli annali del calcio, sì. La prima sfida finisce in parità, 1-1. Non restano scritte nero su bianco le turbolenze, gli animi agitati dei tifosi del Bologna. Nel corso del primo tempo, infatti, l’arbitro Mombelli di Casale Monferrato (cittadina ricca di gloria calcistica, a un centinaio di chilometri da Torino, a voler pensar male) non vede un fallo di mano di un difensore ospite in area. Il giorno dopo, quasi tutti i giornali scriveranno che era rigore, poche voci contrarie diranno che l’azione era dubbia. Di fatto, sugli spalti si rumoreggia, c’è anche un tentativo di invasione di campo sedato dai dirigenti rossoblù, e le testimonianze dell’epoca, ormai sbiadite, raccontano di un arrivederci frettoloso nel dopopartita da parte del direttore di gara.

Il campo dello Sterlino dedicato ad Angelo Badini




E’ NATA UNA “CLASSICA” – Insomma, partenza con scintille già dal debutto. Nella partita di ritorno, giocata al campo di corso Sebastopoli a Torino il 30 aprile 1922, stesso risultato: 1-1 con padroni di casa in vantaggio grazie a Cesare Sereno e Geppe Della Valle a rimettere tutto in equilibrio dopo un’ora di gioco.
Da lì in avanti, la sfida tra Bologna e Juventus sarebbe diventata un appuntamento di vertice: dalla stagione 1924-25, in diciassette stagioni le due società avrebbero portato a casa dodici scudetti. Proprio del 1925 è il primo timbro tricolore della storia rossoblù, seguito l’anno dopo da quello bianconero. Ancora Bologna nel 1928-29, poi la serie dei cinque titoli consecutivi juventini, fino alla stagione 1934-35, seguita da un’altra doppietta rossoblù. E a Bologna sarebbero finiti ancora gli scudetti del ’39 e del ’41, prima della seconda guerra mondiale. Intanto, la squadra aveva traslocato, portando le sue storie di gloria e vittoria in un teatro monumentale, il Littoriale. Senza più dimenticare quella prima volta allo Sterlino, il campo in discesa di fronte a Villa Hercolani, appena sotto la collina.

Più Stadio, 17 giugno 2020

domenica 7 giugno 2020

IL DOTTORE CHE FACEVA PAURA ALLE GRANDI




Fulvio Bernardini, prima grande giocatore e poi allenatore coraggioso e intelligente. Con lui il Bologna tornò a conquistare lo scudetto


di Marco Tarozzi


Per uno strano gioco del destino, le strade di due dei più grandi allenatori della storia del Bologna (il terzo, naturalmente, è Hermann Felsner) si incrociano molto prima che entrambi entrino nella storia rossoblù. Nel 1926, Arpad Weisz è il giovanissimo allenatore dell’Inter, Fulvio Bernardini uno dei suoi migliori giocatori. Arrivato dalla Lazio, dove aveva esordito come portiere, il romano, classe 1905, è un centromediano di grande talento, con una visione di gioco impareggiabile. Weisz, per valorizzarne la vena realizzativa, lo fa giocare centrattacco, ma intanto grazie alle insistenze del giocatore va a visionare un ragazzetto che gravita nelle giovanili nerazzurre, Giuseppe Meazza, rendendosi conto che Bernardini ha davvero la vista lunga, ed arretrandolo a mezzala sinistra per far posto proprio al ragazzino che diventerà una leggenda nerazzurra.


CAPITANO GIALLOROSSO – Una storia che la dice lunga sulla capacità di Bernardini di scoprire e valorizzare i giovani, così come i giocatori “dai piedi buoni”, frase coniata da lui in una delle sue tante vite, quella di giornalista di vaglia. Una dote che gli tornerà buona anche quando siederà in panchina.
Intanto, il nostro gioca due stagioni importanti a Milano, si guadagna anche una maglia da titolare alle Olimpiadi di Amsterdam, da cui tornerà con una medaglia di bronzo, e già dal ’25 sotto la guida di Rangone, è stato il primo giocatore del girone centro-sud a conquistarsi un posto in Nazionale.
Dopo l’Inter, il ritorno a Roma, sulla sponda giallorossa, appena costituita dall’unione delle forze di tre società (Alba Roma, Roman e Fortitudo). Ci resterà per undici stagioni, diventandone trascinatore e simbolo, leggenda del campo Testaccio dai cui spalti diventa familiare il coro “Er gran Fulvio Bernardini che dà scola all’argentini”, chiaro e ironico riferimento agli oriundi della Juventus dei cinque scudetti. E addirittura capitano dal ’34, raccogliendo il testimone da “Tillio” Ferraris.




LE CORNA AL DUCE – Tecnicamente perfetto, ma anche sanguigno in campo e fuori. Memorabile l’incidente diplomatico causato da “Fuffo”, come ormai lo ha ribattezzato la tifoseria giallorossa, che superando una berlina blu che procede lenta nel traffico fa il gesto delle corna, trovandosi il giorno dopo la polizia in casa perché quella macchina stava portando il Duce all’incontro con l’ambasciatore francese. Patente ritirata e questione risolta da Monzeglio, compagno di squadra due volte campione del mondo e maestro di tennis dei figli di Mussolini, con una partita “guidata” a Villa Torlonia. Bernardini, tennista provetto e anche classificato, guarda caso perde la sfida con il Duce e può tornare a guidare.

NAZIONALE PERDUTA – Il carattere tosto lo mostra anche a Vittorio Pozzo, che gradualmente lo mette ai margini della Nazionale. Pare che alla volontà del Ct di utilizzarlo sulla sinistra della mediana, il campione abbia risposto con toni accesi. Di fatto, Pozzo la spiega così: Troppo bravo, metterebbe a disagio gli altri e si romperebbe la coesione del gruppo”. Il gruppo è quello juventino di cui sopra, quindi per Bernardini porte chiuse e niente convocazione per la Coppa Rimet del ’34.
La Roma lo svincola nel 1939, e con la guerra alle porte lui cambia mestiere. A Milano, tra 68 presenze e 25 reti in due stagioni, aveva trovato il tempo di laurearsi alla Bocconi in Scienze economiche. Sceglie di fare il giornalista, e lo fa bene debuttando sul settimanale satirico “Il Travaso” e continuando sulle colonne dei quotidiani “La Tribuna” e “Corriere dello Sport”.
Poi raccoglie l’invito della sezione calcio del Dopolavoro della MATER (
Motori Alimentatori Trasformatori Elettrici Roma), “perché voglio chiudere da dilettante il ciclo che iniziai solo per diletto”. In effetti, lì inizia la sua carriera di allenatore, e quel ciclo non si chiuderà mai più.

SCHIAFFO ALLE GRANDI – Dalla Mater alla Roma, alla Reggina, al Vicenza e finalmente alla Fiorentina, dove compie un capolavoro. Una ricostruzione che in tre stagioni porta la squadra allo scudetto, consolidando la struttura italiana (Costagliola, Magnini, Cervato, Chiappella, Segato, Gratton) e pescando due sudamericani perfetti per un attacco da sogno, Julinho e Montuori. Il “Dottore” non si considera un tattico, ma inventa Maurilio Prini finta ala sinistra, col piacere di stupire che ritroveremo nello spareggio del 1964. Di fatto, lo scudetto della Fiorentina è il primo schiaffo di Bernardini allo strapotere di Juve, Inter e Milan. Il secondo lo assesterà proprio con il Bologna.


I DIVERBI COL PRES – Alla corte di Dall’Ara arriva dopo l’esperienza alla Lazio, con cui conquista la Coppa Italia del ’58. A parte quella fiammata, la squadra biancoceleste è modesta, una “Lazietta” commenta Gianni Brera, che ribattezza Bernardini, suo ex collega, “Dottor Pedata”.
Il presidente non è proprio innamorato del tecnico, gli avrebbe preferito Viani o Rocco, ma ha l’intuizione di affidarsi a lui per rinverdire i fasti degli anni Trenta.
Le scaramucce tra i due diventano proverbiali. “Quell’uomo lì, quasi quasi lo odio! Mai che venga a far visita, mai che mi racconti chi farà giocare domenica, mai che mi metta in squadra Vinicio e Nielsen. E poi il suo calcio poetico del cavolo…io voglio il catenaccio metropolitano, altroché i suoi fioretti di San Francesco!”, sbotta Dall’Ara. E il “Dottore” replica.  “Se vuole un tattico, si prenda Rocco… Se vuole un servo che vada a giocare a briscola nel suo ufficio, si prenda una delle sue segretarie! E poi Vinicio e Nielsen insieme non li faccio giocare, perché non mi va.. punto e basta!”.

Amen. E’ un falso amore odio, che nasconde stima reciproca. Nasce il Bologna che “così si gioca solo in Paradiso”,e  quando nella stagione 1963-64 arriva Negri ad abbassare la saracinesca dietro a una difesa tosta composta da Janich, Furlanis, Tumburus e Pavinato, ecco servita la ricetta per lo scudetto.

SOGNO REALIZZATO - L’arretramento di Bulgarelli a copertura di Haller e Fogli rinforza una mediana “dai piedi buoni”, come piace a Fuffo. Perani e Pascutti alimentano la fame di gol di Nielsen, che sarà capocannoniere del torneo. Non basta neppure la congiura del doping a mettere fuori causa il Bologna. E il giorno dello spareggio, Bernardini si conferma tattico finissimo, con l’invenzione di Capra falsa ala sinistra, a contenere Corso. Dall’Ara non potrà vedere il suo sogno realizzato, e Bernardini piangerà lacrime venute dal profondo del cuore per lui. E con una vena di malinconia consegnerà alla storia del calcio italiano il suo secondo sberleffo rivolto alle grandi potenze del campionato. Il più bello, per chi vive da queste parti.

Più Stadio, 6 giugno 2020




mercoledì 3 giugno 2020

L'ULTIMA BATTAGLIA DEL PRESIDENTE





Il 3 giugno, a quattro giorni dallo spareggio, Renato Dall’Ara è in Lega a Milano per discutere di premi partita col collega Moratti. E lì il suo cuore cessa di battere



di Marco Tarozzi





Sono giorni concitati, convulsi. Perché un finale di campionato così non si era mai visto, né mai più si vedrà. Il 16 maggio è arrivata la decisione finale ed inappellabile della Caf riguardo alla vicenda-doping, che ormai è palesemente derubricata alla voce “solenni montature”. Il Bologna, innocente come i suoi cinque incriminati, riottiene i tre punti che gli erano stati tolti con un’ingiusta penalizzazione e si ritrova in cima alla classifica, a pari merito con l'Inter. E nella stessa situazione le due prime della classe si trovano dopo il fischio finale delle partite dell’ultima giornata, il 31 maggio: un rigore di Haller dà ai rossoblù la vittoria sulla Lazio, mentre un’Inter affaticata dalla sfida vittoriosa di Coppa Campioni col Real Madrid batte l’Atalanta, 2-1. La classifica dice che Bologna e Inter sono prime a quota 54. Occorre lo spareggio, novità assoluta nella storia della Serie A. E bisogna pensare a tutto, anche ai dettagli, in pochi giorni.



DIVERSI E UGUALI – Focus sui presidenti, adesso. Dall’Ara e Moratti sono così diversi e così uguali. Entrambi hanno costruito le loro fortune partendo dal basso, per necessità o per scelta. Renato Dall’Ara, per dire, da un piccolo maglificio poi diventato fabbrica, più precisamente laboratorio di confezioni “lana purissima” su cui ha costruito le fortune personali. Angelo Moratti, figlio di borghesia benestante, padre farmacista, si è allontanato ancora ragazzo dalla famiglia, dopo la morte della madre e la difficile convivenza con la matrigna; a partire da quando aveva sedici anni ha fatto molti mestieri, poi da rappresentante di combustibili è diventato produttore, da oltre trent’anni precorre i tempi e cavalca l’onda di scenari in evoluzione, ha fondato da appena due anni il colosso Saras, in Sardegna, ed è ormai considerato il “grande petroliere d’Italia”.



IL PADRONE SONO IO – Hanno un modo molto simile di trattare l’argomento calcio, e di gestire le loro società. Presidenti-padroni, che si muovono in prima persona senza necessità di avere intorno troppi consiglieri. Filiera che più corta non si può. Non si contano i “ci penso io” di Dall’Ara, e significano esattamente questo, che il problema va risolto in prima persona. Quanto a Moratti, vale per tutto una sua dichiarazione: “Tutta l’Inter è personalmente mia”. Ecco, ad una manciata di giorni dallo spareggio del 7 giugno, tocca a loro dirimere anche le ultime questioni.
Dall’Ara non si fa certo intimorire dal carisma del petroliere. Va giù deciso, a margine di un’intervista concessa in quei giorni a Luciano Parisini: “Senta, sa cosa ci dico io a quello lì: mi faccia il pieno e mi lavi i vetri…”



TRISTI AVVISAGLIE“Vado nel suo ufficio a Milano e gliene dico quattro. E ci vado da solo!”. Dall’Ara non sta bene e lo sa. Ha il cuore malandato, gli consigliano di non affrontare le fatiche di un viaggio, seppur breve. E’ reduce da una lunga convalescenza, due mesi a letto e una villeggiatura a Napoli, dopo che l’esplosione del “caso doping” gli aveva dato il colpo più forte e brutto di tutti. E’ tornato al Comunale dopo una lunga assenza proprio per assistere alla partita dell’ultima giornata contro la Lazio, ma ha dovuto prendere anzitempo la strada di casa. Troppe emozioni, soprattutto nel momento in cui ha circolato la notizia, poi evidentemente risultata falsa, del pari tra Inter e Atalanta e del conseguente scudetto già cucito sulle maglie rossoblù. A posteriori, un osservatore attento come Vittorio Pozzo scriverà che gli sono state fatali proprio le emozioni di quella sera.
Proprio per questo il consiglio è quello di non prendere la strada per Milano. Ma lui non sente ragione, deve salvaguardare il suo Bologna, i suoi ragazzi, il suo sogno che, dopo anni di vacche magre, ha saputo ricostruire con pazienza e intelligenza.

FACCIA A FACCIA - Non serve, andare nell’ufficio di Moratti. La convocazione arriva dal presidente della Lega Nazionale, Giorgio Perlasca, e Dall’Ara mercoledì 3 giugno sale in auto a Milano insieme alla moglie Nella e al medico di fiducia, il dottor Pinetti. C’è da stabilire l’entità del premio partita da erogare ai giocatori impegnati nello spareggio dell’Olimpico, e il presidente rossoblù vuole che le cifre siano eque e ben distribuite. Perlasca ci vede anche l’occasione per allentare la tensione in vista della sfida, ed attenuare le frizioni tra le due società, alimentate anche da una stagione piena di colpi di scena a tinte gialle.
Moratti arriva alle 17.22, i tre si chiudono nell’ufficio di Perlasca. La signora Nella ne approfitta per andare a fare qualche commissione, quello che adesso chiameremmo “shopping”, il dottor Pinetti resta al di là della porta, in sala d’attesa. La discussione parte serena, e ufficialmente resta tale fino all’epilogo, ma nel tempo si comincerà a parlare di toni che si erano fatti via via più concitati. Ci sta, Dall’Ara ha un carattere impulsivo, ed è lì per difendere il Bologna. All’improvviso, si appoggia allo schienale della sedia, poi si piega verso sinistra, cade quasi in grembo a Moratti che lo sorregge. Arriva il dottore, è una questione di secondi. Ma non c’è niente da fare: infarto fulminante, il presidentissimo questa volta ha chiuso gli occhi per sempre.



IN NOME DEL “PRES” – Ha soltanto settantadue anni, Dall’Ara, nei quali ha accumulato troppe fatiche. Al Bologna ha dato trent’anni di passione e, al momento della morte, tanta splendida argenteria per la bacheca: quattro campionati italiani (in attesa del quinto, da conquistare a giorni), una Coppa Europa, il Torneo dell'Esposizione di Parigi, la Coppa dell'Europa Centrale.
La notizia arriva a Bologna in un attimo, la sconvolge. La società chiede un rinvio, che viene respinto. Si deve giocare il 7 giugno, non c’è tempo per elaborare il lutto. Destino assurdo: Dall’Ara non potrà vedere il capolavoro finito, dopo tanti anni di sofferenza, di critiche, di lavoro per riportare il Bologna ai vertici. Ma se la sorte è stata spietata, se la salita è stata così dura, adesso il Bologna ha un motivo in più per farsi padrone del proprio destino e portare a casa quel settimo scudetto.

Più Stadio, 3 giugno 2020