domenica 16 maggio 2021

IN VOLO

 


Voglio riuscire a volare
nel cielo, molto in alto,
proprio come una libellula.
Voglio volare sugli alberi,
attraversare i mari ad ogni latitudine
fino a dove mi va.

(Lenny Kravitz)

 

Vola leggero, Alessandro.

 

 


martedì 4 maggio 2021

QUANDO IL MEDIANO DIVENTA PRIMATTORE


 

“Fedullo racconta Arpad Weisz” è l’ultima opera dell’attore teatrale e scrittore salernitano Sergio Mari, che per sedici stagioni ha giocato a calcio da professionista. Anche nella Centese di Paolo Specchia


di Marco Tarozzi


Qualcuno, dalle parti di Cento, avrà alzato le antenne vedendo circolare sui social la locandina del monologo “Fedullo racconta Arpad Weisz”, scritto e interpretato da Sergio Mari, attore teatrale e scrittore salernitano; un’opera che racconta la storia del grande allenatore del Bologna, uno dei giganti del calcio italiano, tragicamente scomparso ad Auschwitz, da un’angolazione diversa e particolare.
Quel nome, Sergio Mari, avrà ricordato qualcosa a chi conosce la storia della Centese. Perché è lo stesso di quel mediano di bel talento che arrivò alla corte di Paolo Specchia nel 1986, e a cui solo un pesante infortunio negò la possibilità di arrivare anche più in là. E in realtà l’attore teatrale di oggi e il calciatore che ha vissuto sedici stagioni tra i professionisti sono la stessa persona. Ed hanno (o meglio, ha) una splendida storia da raccontare.



ARRIVA MARI..DONA. Salernitano, classe 1962, Sergio si affaccia al calcio dei “grandi” nel 1979, in C1 con la Cavese, svezzato da un maestro come Corrado Viciani. Nella stagione successiva è uno dei pilastri della promozione in Serie B, dove giocherà due stagioni. Poi una stagione in Sicilia, all’Akragas, sotto la guida di Franco Scoglio (che alla truppa gridava “guardate come fa le diagonali Mari!”), altre due a Cava dei Tirreni, quindi dall’estate 1986 a quella del 1988 l’esperienza in Emilia, allenato da Specchia e poi da Gian Piero Ventura. Mediano concreto e affidabile, arriva a Cento e subito lo ribattezzano “Mari…dona”, e a ventiquattro anni è nel mirino di squadre blasonate, seppure non più ai vertici, come Bologna e Vicenza. La frattura al perone che lo rallenta nella prima stagione (14 presenze, per uno che partiva titolare…) gli comprometterà in qualche modo la carriera, che da lì in avanti resterà confinata ai campi di C1.
“Ma mi resta un ricordo bellissimo dei due anni a Cento, nonostante la tristezza per l’infortunio e la lunga inattività nel primo. Tifosi speciali, ambiente giusto e Bologna e Ferrara a due passi. Per uno come me, un richiamo. Ricordo la sera in cui chiesi a Specchia di poter saltare, l’indomani, la rituale cena con gli scapoli della squadra. A Ferrara c’era la prima di “Rosa Luxembourg” di Margarethe Von Trotta, e la regista era presente per raccontare il proprio lavoro. Eravamo tutti a tavola, i compagni mi guardarono come fossi un alieno appena sbarcato sulla Terra…”


MIMO A MEZZANOTTE. Perché Mari era questo: un atipico del calcio. Per questo oggi, dopo l’evoluzione della sua personalità e di fronte al nuovo mestiere, viene naturale accostarlo a personaggi come Ezio Vendrame, Gianfranco Zigoni, Paolo Sollier, allo stesso Gigi Meroni che aveva dentro sé un’anima da artista.
“Io però non avevo consapevolezza di quello che sarei diventato. Forse lo capivano di più i compagni: anche oggi, quando li rivedo, non mostrano stupore per la mia vita da attore, regista, scrittore. Dicono che loro se lo immaginavano. Chissà cosa avrebbe detto Specchia se avesse saputo che certe sere, quando a mezzanotte non ero nel mio appartamento a Cento, non vagavo in cerca di avventure per le vie della grande città, ma stavo in una sala dell’Antoniano a frequentare una scuola di mimo…”

LIBERTA’ E LIBRI. “Era la Bologna delle osterie, della creatività, del Dams e di Andrea Pazienza, del salto in stazione per andare a comprare Carlino e Stadio. Una città vitale, ma nella quale potevi anche scomparire per ritrovarti. Come feci un pomeriggio, quando ero fermo per via dell’infortunio. Entrai alla Feltrinelli, poi mi spostai su una panchina di via Indipendenza e restai lì a leggere per due ore. Fu un giorno pieno di tristezza, per i problemi fisici che mi affliggevano, ma allo stesso tempo di assoluta libertà”.


VITA NUOVA. Da quel mondo si è allontanato a fine carriera, dopo aver provato ad aprire una scuola calcio per i giovani. “Ma le dinamiche erano lontane dal mio modo di affrontare la vita, non mi ci trovavo più. Per dodici anni ho fatto il gallerista, ho lanciato artisti e ho vissuto bene di quel mestiere. Poi sono salito su un palcoscenico, quasi per caso. Mi è piaciuto, sono piaciuto. Allora mi sono messo a studiare, ho visto tanti lavori teatrali, ho letto voracemente. Ho cercato di recuperare il tempo perduto”.
E si è riconciliato col vecchio amore, perché le storie di pallone sono spesso affascinanti.
“Con gli anni, mi sono reso conto che l’armadio in cui avevo riposto i ricordi e che stava in un angolo del mio cervello, andava riaperto. Le cose migliori, le persone belle che avevo conosciuto, erano lì. Dal futuro non avevo avuto le stesse gioie del passato: non è stato un gesto nostalgico, ma solo un recupero oggettivo, un riconoscimento a quel mondo che mi aveva permesso di crescere, e a cui avevo dato poca importanza quando ci stavo immerso”.




ARPAD E FRANCISCO. Da quelle considerazioni arriva, tra le altre, quell’opera teatrale che riporta sotto i riflettori il Bologna che faceva tremare il mondo. Dove a raccontare Weisz, questa volta, è uno dei campioni che lo hanno avuto come allenatore.
“Ho scoperto che i genitori di Francisco Fedullo erano partiti dal centro di Salerno per andare in cerca di fortuna in Uruguay. Praticamente, da casa mia. Da questo è nato un lavoro che parla del rapporto franco tra due grandi personaggi dello sport e della vita. L’ho portato nei teatri, nelle scuole, è stato visto da migliaia di studenti. In tempi di lockdown, ho pensato di ricavarne anche un monologo di mezz’ora, interamente girato in casa mia, dove interpreto entrambi i personaggi. Il calcio è un veicolo perfetto su cui far viaggiare messaggi importanti, e farli arrivare alle nuove generazioni. La fine di Weisz rappresenta la tragedia di un popolo, un crimine che non bisogna mai dimenticare. Spero che anche questo mio lavoro serva a coltivare il ricordo, e a condannarlo”.

TORNARE A VIVERE. Nella bacheca, come si dice spesso per i calciatori pluripremiati, Sergio ha diverse performance teatrali vissute da protagonista e spesso anche da regista e soggettista, due romanzi, un libro di racconti. Il progetto più prossimo è la storia di Giovanni Falcone pensata ancora per il teatro. “Per un teatro che finalmente torni ad aprire le sue porte. Perché in questi tempi difficili, a cui eravamo impreparati, la socialità è un’assenza che pesa. Abbiamo bisogno di tornare a sentirci vicini, capaci di condividere un’idea, un pensiero, una passione. Trasmettersi tutto questo, dal palcoscenico alla platea e viceversa, è un dono meraviglioso”.

(Più Stadio, Stadio-Corriere dello Sport, 15 aprile 2021)