di Marco Tarozzi
“Look at
Mills! Look at Mills”. Quell’urlo improvviso,
incredulo, ripetuto più volte da Dick Bank, commentatore della tv statunitense NBC
alle Olimpiadi di Tokio del 1964, resterà nella storia delle telecronache
sportive, e dell’atletica. Esattamente come quella finale dei 10mila metri affascinante
e pazza, quella volata nell’ultimo rettilineo impossibile da descrivere a
parole che premiò un ragazzo cresciuto nella riserva indiana di Pine Ridge, nel
Dakota del Sud. “Guardate Mills”,
urla Bank dentro al suo microfono (senza sapere che quella reazione gli costerà
il posto al ritorno in patria – altri tempi… -) mentre Billy semplicemente
prende il volo quando ormai tutti lo davano per spacciato. Andando a riprendere
l’australiano Ron Clarke, favorito della vigilia ed eterno sconfitto nelle
occasioni importanti, e il tunisino Mohammed Gammoudi, ultimo ostacolo da
superare prima di conquistare un oro unico, indimenticabile, inimmaginabile.
Billy Mills, il mezzosangue, correva contro tutto e tutti. E correva
molto al di là del proprio limite: quando piombò sul traguardo, primo tra
l’incredulità generale, aveva migliorato di qualcosa come quarantasei secondi
il proprio personale. A quei livelli, in una finale olimpica, un salto di
qualità impensabile. La gara della vita. La gara irripetibile.
“E’ come se ai miei piedi fossero
spuntate le ali”, confessò raggiante il nuovo
campione olimpico, a caldo. Lo avrebbe ripetuto da allora ai giorni nostri, tutte
le volte (e sono tante) che lo hanno chiamato a parlare, a ricordare. Non lo fa
per il puro gusto di ammirare il proprio passato, Mills. La sua è una missione.
“Dopo l’oro di Tokio, e già mentre
ascoltavo l’inno americano sul podio, mi ricordai gli insegnamenti di mio
padre: era come se lo sentissi, da lassù, mentre diceva “ora sei uscito dal
circolo, figlio mio. Ora puoi iniziare il tuo viaggio per aiutare e dare forza
al prossimo”. A cominciare dai nativi americani, il popolo delle radici, a
cui il campione ha dedicato per quasi mezzo secolo le sue attenzioni con tante
iniziative concrete e importanti. Non ha mai dimenticato i deboli, gli
oppressi, quelli che vivono ai margini e non hanno saputo o potuto sfruttare
un’opportunità.
LE ALI AI PIEDI
Perché
Billy Mills è stato uno di loro. Ha sofferto, si è battuto, è caduto e si è
rialzato. Da solo. E sempre con quel peso sulle spalle, quell’incapacità di
sentirsi completamente parte di un popolo. Bianco e indiano insieme, due anime
in cerca di tregua dentro lo stesso cuore. Spesso messo in disparte nel mondo
dei bianchi, al contempo non di rado accettato a fatica dalla gente della
riserva. Non è facile essere un ragazzo, e poi un uomo, che cresce senza
capirsi dentro fino in fondo. Si rischia di sbandare, e Billy arrivò anche
sull’orlo del baratro. Non solo metaforicamente. Una finestra aperta, una sedia
pericolosamente traballante, mille pensieri in testa. Chissà quante volte,
oltre a quella, lo salvò la sua forza interiore. Come quando partiva dalla sua casa
di Pine Ridge e iniziava a correre, come per allontanarsi. Con un obiettivo in
testa: l’Olimpiade, e una medaglia d’oro immaginata da bambino.
“La prima volta che ho sognato quel
traguardo che poi si è avverato avevo nove anni. Mi avevano regalato il mio
primo libro sule Olimpiadi, e l’avevo divorato. Mi piaceva l’idea che
esprimeva: che i campioni olimpici fossero uomini scelti dagli dei. Pensai che
se un giorno fossi diventato uno di loro, avrei potuto anche salire in cielo a
vedere la mia amata mamma, che era volata via un anno prima…”
Poi,
quel giorno a Tokio gli spuntarono magicamente quelle ali ai piedi. 28.24.4,
nuovo primato olimpico dei 10mila metri. Lasciando impietriti Clarke e
Gammoudi, che si sapevano migliori, che ai trecento metri finali si erano
sentiti infastiditi da quell’outsider sempre in mezzo ai piedi e lo avevano
spintonato per fargli capire che non era aria. La legge del più forte,
pensavano. E invece il più forte era lui. Lui che da quel giorno saltò il
cerchio, iniziando a prendere coscienza, fino a urlare al mondo la sua sicurezza.
Lui che quel giorno a Tokio trovò il senso del proprio cammino.
UN CUORE DIVISO A META’
Dentro
quel circolo, William Mervin Mills era entrato il 30 giugno 1938. Figlio di un
indiano Sioux degli Oglala, uno dei sette sottogruppi (i Sette Fuochi del
Consiglio) dei Lakota. Oglala, nella lingua madre, significa “coloro che si disperdono”. Mentre Billy
era Makoce Te’Hila, “colui che rispetta
la Terra”. Crebbe nella riserva di Pine Ridge, in South Dakota, ma ben
presto si trovò a camminare da solo sui sentieri della vita. Mamma Grace,
bianca, se ne andò quando era ancora un bambino di otto anni, il padre Sidney
appena quattro anni dopo.
“Li amavo in modo assoluto. Papà mi
veniva a prendere a scuola e mi portava a pescare. Per lui era necessario
andarci con qualcuno. Aveva già avuto un infarto, non poteva avventurarsi nei
boschi o lungo il fiume da solo”.
Fu proprio per aiutare il padre in difficoltà che Billy toccò con mano per la
prima volta la fatica di convivere con chi non aveva considerazione per il suo
popolo. “Dovevo fare la Comunione, mi ero
preparato al meglio. Più di chiunque altro. Speravo di essere in prima fila,
quel giorno. Occorreva un vestito bianco e pulito, e papà mi portò in città per
comprarmene uno. Ma quella mattina ebbe un malore e dovetti portarlo, a piedi
per un miglio, fino all’ospedale più vicino. Quando si riprese, pensò al
vestito che non avevamo potuto comprare. Mi disse: Gesù non si preoccupa se fai
la Prima Comunione con un abito semplice, metterai la casacca di tua sorella.
Così feci, ma quando arrivai in chiesa una suora si lamentò col prete per il
mio abito. Le spiegai la situazione, ripetendo le parole di papà. Mi misero in
fondo, per ultimo”.
Dopo
la morte dei genitori, Billy crebbe a Pine Ridge accudito da fratelli e sorelle
maggiori. Senza mai dimenticare l’insegnamento di Sidney: “Inseguire i tuoi sogni ti aiuterà a rimarginare le ferite”. La
vita in riserva cominciò a diventare un peso, prendere coscienza del suo essere
metà indiano e metà bianco lo dilaniava. Sentiva forte l’appartenenza a un
popolo che aveva fatto del movimento, del rispetto per la natura, della
mentalità guerriera la sua ragion d’essere. Ed ecco cosa era diventato il mondo
degli Oglala: senza più cavalli, senza più bufali da cacciare, bloccati in uno
spazio delimitato e dipendenti dal Governo. Farina, zucchero e lardo elargiti
in cambio della rassegnazione. La famiglia Mills non se la passava male a Pine
Ridge, ma tante altre famiglie non avevano la stessa fortuna. In riserva
l’ottanta per cento dei giovani era senza lavoro. Fosse stato indiano al cento
per cento, probabilmente Billy non avrebbe trovato la forza di andarsene. Ma la
sua metà bianca lo portò a “strappare” con quel mondo. Era deciso a uscirne, ma
non sapeva esattamente come. A metà tra due mondi, due culture, due modi di
vita, non sapeva nemmeno chi fosse veramente Billy Mills.
IL SANTONE SBAGLIATO
La
corsa lo aiutò a capire e a scegliere. Correva, Billy: intorno a Pine Ridge,
tra i canyons e le praterie più spoglie. Correva senza sentire la fatica. “Mi sentivo vicino alla Terra e al Cielo, in
quei momenti”. Era bravo anche negli studi, e a quindici anni finì
all’Haskell Institute, una scuola esclusiva per nativi americani, in Kansas. Lì
si mise in luce anche nell’atletica, correndo una campestre sulle due miglia in
9:08 e fissando il personale indoor sul miglio a 4:23 nel primo anno da senior.
Lo chiamarono due università, Oklahoma e Kansas. Scelse la seconda, rinomata
anche per la sua tradizione sportiva (lì erano cresciuti i “milers” Glenn Cunningham
e Wes Santee), e ben presto si trovò a fare i conti, una volta di più, con il
muro dell’incomunicabilità.
Il
muro si chiamava Bill Easton. Il coach della squadra di atletica dell’istituto,
famoso per aver vinto tre titoli NCAA di cross-country di fila con Drake
University. Modi da duro, certezze granitiche, perfezionismo portato
all’eccesso. Non il massimo, per un ragazzo arrivato per capire e farsi capire.
Billy gli parlò del suo sogno di bambino, ed Easton lo smontò senza riguardi. E
quando il ragazzo disse che gli sarebbe piaciuto sviluppare i lavori di
velocità, il coach fu ancora più sferzante: “Lascia
che a fare i velocisti ci pensino i neri. Tu sei un indiano, e gli indiani
devono sempre e solo correre”.
Nonostante
tutto, Billy migliorava. Si faceva notare. Nel 1960 finì quinto nelle tre
miglia ai campionati NCAA. Ma spesso era costretto a masticare fiele.
“Nel 1961, il mio anno da senior,
alla vigilia dei campionati NCAA di cross, chiesi a Easton se poteva
dispensarmi dall’alzataccia delle sei del mattino, una sua regola, perché la
notte prima avevo dormito male e volevo arrivare riposato alla gara. Mi
rispose: fatti guidare dalla tua coscienza. Decisi di dormire un po’ di più, ma
quando mi presentai mi mise fuori squadra. Salvo cambiare idea poche ore prima
della corsa, quando mi disse: abbiamo buttato soldi per portarti fin qui, puoi
correre… Poi, durante la gara, continuò a urlare “stai in testa, oppure
ritirati!”. Una, due, tre volte. Finché non mi fermai davvero. Ricordo che Pat
Clohessy, che correva per Houston, mi disse: “come hai fatto a sopportare quel
tizio per tre anni?”
SENZA CERTEZZE
Billy
era senza appoggi. Sradicato dal passato, immerso in un presente fatto di
incomunicabilità. Non voleva tornare in riserva, dove non avrebbe avuto
prospettive, ma nemmeno sapeva dove andare. Pensò anche al suicidio, in un
momento in cui si sentiva più debole e solo del solito. Un giorno, nella sua
stanza, si ritrovò in piedi su una sedia, davanti alla finestra aperta.
“Pensavo: su, andiamo e sarà tutto
finito. Ma poi sentii la voce di mio padre, come sottopelle. Mi diceva “Non
farlo. Stai inseguendo un sogno, figliolo. E raggiungerlo ti guarirà”. Capii
che non potevo arrendermi senza combattere. Morire sarebbe stato troppo facile.
Scesi da quella sedia e scrissi sul mio diario: “Medaglia d’oro alle Olimpiadi.
Credici, credici, credici!”. Dovevo guarire il mio spirito spezzato a metà”.
Ad
aiutarlo, una persona e un cambiamento. La prima: Patsy Harris. “Easton mi chiese di portare in giro un
mezzofondista che dovevamo reclutare, e pensai di chiamare qualche ragazza che
conoscevo. Feci diverse telefonate, ma erano tutte fuori. Alla sesta chiamata,
la ragazza del centralino mi chiese se intendessi andare avanti a lungo. Finì che
ci conoscemmo, e me ne innamorai al punto che insieme ci dimenticammo del
mezzofondista”.
Billy
aveva bisogno di essere capito, accettato. Pat era la persona giusta. “Quando mi aprii con lei, mi resi conto che
credeva in me. Non aveva dubbi che io potessi conquistare il mondo. Era la
prima persona di cui potevo fidarmi…”
Pat
e Billy si sposarono nel gennaio del 1962. Ovviamente, col parere negativo di
Easton. Ma quello era il meno: entrambi sapevano di fare un passo che sarebbe
stato difficilmente compreso, sia nella comunità bianca che in quella indiana.
Ma andarono avanti, completandosi a vicenda. Pat era, e ancora oggi è, uno
spirito libero. Un’artista, da tempo tornata alla sua grande passione, la pittura,
nella grande casa in cui vivono a Fair Oaks, a poche miglia da Sacramento. In quei
mesi di avvicinamento al grande sogno olimpico, per Billy fu tutto: moglie,
fisioterapista, segretaria, confidente, persino la madre che Billy non aveva
potuto tenere vicino a sé.
L’altra
svolta arrivò con l’uscita dall’Università. “Pat
aspettava Christy, la nostra prima figlia. Dovevo lavorare e avevo davanti tre
strade: aprire un negozio di abbigliamento, diventare agente dell’Fbi o entrare
nei Marines, che avevano una squadra di atletica che mi avrebbe permesso di
inseguire il mio sogno. Scelsi l’ultima via”.
E
trovò ad attenderlo Tommy Thompson. Un allenatore con un approccio ben diverso
da quello di Easton. “Mi chiese quali
fossero i miei obiettivi e gli risposi: vincere una medaglia a Tokio e fare
28:50 sui 10000. Mi rispose: con 28:50 l’oro te lo scordi, devi correre in
28:25. E aggiunse: perché vuoi vincere una medaglia? Se corri per una medaglia,
puoi finire quinto. Devi correre per l’oro. Dai tempi della high school, era il
primo coach che non mi diceva di volare basso Era il primo bianco di cui mi
fidassi davvero...”
CORSA ALL’ORO
Il
resto è storia. Billy Mills cresce a dismisura, nell’anno e mezzo che lo separa
dalle Olimpiadi. Non al punto da diventare un favorito, ma abbastanza per far lievitare
autostima e coscienza di sé. Ai trials Usa è secondo nei 10.000 dietro Gerry
Lindgren e si guadagna la convocazione. Per portare con sé Pat, presenza
indispensabile, chiede un prestito a una banca. “Restai sveglio notti intere a pensare a come avrei saldato il debito
al ritorno. Alla fine ci ragionai durante una lunga corsa. Avevo bisogno di
lei? Sì. Dunque, lei doveva esserci. Punto e basta”.
La
gara, e quel “Look at Mills!” che lo
ha consegnato alla storia mentre andava incontro a un destino sognato da bimbo.
“Quando Clarke per farsi strada mi spostò
all’esterno, a trecento metri dall’arrivo, e pochi metri dopo anche Gammoudi mi
spintonò, realizzai che su quella pista di cenere, l’ultima rimasta ad alti
livelli in tutto il mondo, la corsia esterna dava più stabilità rispetto a
quella interna, consumata e polverizzata. Me ne ricordai sul rettilineo
d’arrivo”.
La
vittoria gli cambia la vita. Lo consacra campione. Persino Easton, coach
pervaso da un amore-odio nei confronti del campione, lo onora: “Ho visto la più grande corsa della mia
vita. Sei il migliore. E’ stato un onore allenarti”. “Piansi dopo quelle parole”, ricorda Billy. “Lui si era ammorbidito, io ero maturato. E finalmente ci rispettavamo
reciprocamente”.
IL DONO DA RESTITUIRE
Una
medaglia d’oro olimpica è qualcosa di infinitamente grande. Ma per qualcuno può
essere addirittura qualcosa di più. Il segno tangibile di un’armonia ritrovata,
di un equilibrio raggiunto. Per Billy Mills non è stata un punto d’arrivo, ma
un’occasione per ripartire con una mentalità nuova. Rimarginando la frattura
tra le sue due anime, da allora il campione si è dedicato a una nuova missione.
“Una delle cose che mi ha reso orgoglioso
è che i Lakota mi hanno dichiarato guerriero della nostra nazione. Ma io ero in
debito verso il mio popolo. Nella nostra tradizione è buon uso omaggiare le
persone che ti hanno aiutato a diventare forte”.
Billy
non ha mai dimenticato il messaggio. Pochi mesi dopo aver mancato la
convocazione alle Olimpiadi di Città del Messico, nel 1968, si è ritirato dalle
competizioni. Ha lavorato per crescere una famiglia numerosa, ma quando ha
potuto dedicare tempo alla sua missione non si è tirato indietro. Da oltre un
quarto di secolo spende il suo nome, la sua forza interiore, la sua passione
per la causa dei nativi americani. Nel 1986 ha fondato Running Strong for American
Indian Youth, riempiendo la sua vita di progetti per le nuove
generazioni del suo popolo. Dal primo pozzo d’acqua potabile inaugurato a Pine
Ridge nel 1987 alla costruzione di alloggi per anziani nella riserva, fino alla
nascita del primo centro per dializzati (una struttura che Mills, a cui furono
diagnosticati prediabete e ipoglicemia già prima dell’appuntamento di Tokio, ha
voluto fortemente) di proprietà dei nativi. Da allora, grazie ai contributi
della fondazione ne sono nati altri due.
Insieme
ai suoi collaboratori, Billy si è occupato del tragico problema dell’alta
percentuale di suicidi tra i giovani del suo popolo. E in diverse occasioni ha
raccontato la sua esperienza di giovane atleta sradicato dalla propria cultura
che ha trovato la forza di reagire. Sull’argomento ha scritto un libro, “Lessons of a Lakota”, insieme all’amico
scrittore Nicholas Sparks. Quello precedente, “Run for the Red Willow”, ha ispirato nel 1983 il film “Running Brave”. Ancora oggi Mills
viaggia trecento giorni all’anno, tenendo conferenze, raccontando la sua vita,
portando ad esempio quella frattura risanata di cui ora può parlare con
serenità. “Quella vittoria mi ha permesso
di realizzare qualcosa di importante negli anni seguenti. E di passare
attraverso i valori e le virtù della cultura Lakota anche dentro il mondo dei
bianchi”. Parola di Billy Mills. Che seguendo il suo sogno è guarito. Come aveva
previsto suo padre.
William Mervin Mills, detto Billy, è nato nella riserva
indiana di Pine Ridge, South Dakota, il 30 giugno 1938, da padre indiano (un
Oglala Sioux) e madre bianca. Ancora oggi è l’unico atleta degli Stati Uniti ad
aver conquistato l’oro nella gara dei 10000 metri alle Olimpiadi. Accadde a
Tokio, nel 1964, quando con una volata mozzafiato sorprese Mohammed Gammoudi e il
favorito Ron Clarke, migliorando di ben 46 secondi il proprio personale e
tagliando il traguardo in 28:24:4, nuovo primato olimpico. In Giappone fu anche
14° nella maratona, in 2:22:55. Mills aveva frequentato la University of Kansas:
nominato per tre volte NCAA
All-America cross-country runner, contribuì ai successi del team ai
campionati nazionali su pista del 1959 e 1960 prima di entrare nel Corpo dei
Marines. Dopo il trionfo di Tokio, stabilì il record statunitense dei 10000
metri (28:17:6) e nel 1965 finì spalla a spalla con Gerry Lindgren ai
Campionati AAU sulle sei miglia, con la miglior prestazione mondiale (27:11:6).
Ai trials per le Olimpiadi messicane del 1968 non si qualificò, e di lì a poco
si ritirò dall’agonismo. Nel
1976 è entrato nella National Track and Field Hall of Fame statunitense, otto
anni dopo nella US Olympic Hall of Fame. E’
l’anima di Running Strong for American Indian Youth, organizzazione che
sostiene il popolo degli Indiani d’America, con una particolare attenzione nei
confronti delle problematiche giovanili.
Runner's World, maggio 2012