POKER, SIGARETTE E UN CALCIO DIMENTICATO
di Marco Tarozzi
“Una
volta sono andato a letto presto. Mi sono svegliato nel cuore della notte e non
ho più chiuso occhio”. Per questo preferiva tirar mattina Bruno Pesaola, il “petiso” da quando ragazzino tirava i primi calci ad Avellaneda,
quartiere di Baires in cui era cresciuto da italiano d’Argentina, figlio di
Gaetano, calzolaio arrivato a cercar fortuna da Montelupone, provincia di
Macerata. E poi “petiso” per sempre, anzi
“Petisso” qui in Italia, con una “s” regalata chissà perché. Fino agli ultimi
anni passati a guardare, incantato come la prima volta, il golfo di Napoli tra
il fumo di mille sigarette.
Pesaola. Un altro di quei pezzi di storia del calcio che
se ne sono andati in questo complicato 2015. Ai margini di un mondo che non
sarebbe stato più il suo, tanto è cambiato. E un pezzo di storia rossoblù,
anche. Perché se è vero che questo piccolo grande uomo che trattava le cose di
pallone con saggezza e disincanto ha scritto le sue più belle pagine a Napoli, diventata
la sua città, e a Firenze, dove ha vinto uno scudetto storico, non vanno
dimenticate quelle quattro stagioni al timone del Bologna, tra il 1972 e il
1976, che fruttarono la Coppa Italia del ’74, vinta ai rigori in fondo a una
finale dai toni rocamboleschi contro il Palermo, e due anni dopo un’altra
avventura rossoblù, meno di un anno diviso in due campionati, che fruttò una
salvezza ed un esonero.
Pesaola era l’uomo della notte perché, diceva, “la notte è bella e porta idee. Le persone
più interessanti escono dalla sua oscurità”. E lo diceva fumandoci su
un’altra sigaretta, di quelle belle toste che, messe tutte insieme, gli hanno
chiesto il conto negli ultimi anni di una vita accesa, brillante, intensa. Che
poi, in fondo, ci si farebbe la firma a vivere quasi novant’anni così, con
quell’ironia e quella generosa leggerezza.
EMIGRANTE
DI RITORNO – Arriva in Italia a ventidue anni, dopo essere stato
coltivato tra i ragazzini del River Plate da quel fantastico pazzo di Renato
Cesarini, nativo di Senigallia, marchigiano come il padre, ed essersi svezzato
al Dock Sud di Avellaneda. Un metro e seessantacinque: “petiso”, appunto. Piccoletto. Ma adocchiato presto dagli emissari
del calcio italiano. Approda alla Roma: 120mila lire al mese, nido a Trastevere
e la dolce vita a portata di mano, come amici i grandi artisti dell’epoca, da
Rascel a Tognazzi a Tata Giacobetti del Quartetto Cetra “che voleva farmi sposare sua sorella…”. Walter Chiari gli fa fare
una comparsata nel film “L’inafferrabile
12”, basato sui sogni e le speranze affidate al Totocalcio. Altro mondo,
rispetto alla povera e dignitosa semplicità della periferia di Buenos Aires. Ma
in campo la ruota si inchioda: primi due anni da protagonista, ma poi squadra
in difficoltà, pubblico insoddisfatto, infortunii a catena. Bruno ha carattere,
non vorrebbe andarsene lasciando il lavoro a metà. Ma alla fine sta per
mollare: ha praticamente la valigia sul letto quando arriva un telegramma da
Silvio Piola. “Vieni a Novara, qui
rinascerai”. Alla fine va, e da quella scelta riparte la sua carriera italiana.
Non tornerà mai più in Argentina.
VISTA
MARE
– A Novara i suoi cross rinverdiscono Piola, che a trentanove anni riconquista
anche la Nazionale, e conosce Ornella, una ragazza splendida che gli resterà
accanto finché un destino cattivo non la porterà via, nel 1986. E’ lei, quando Bruno
si ritrova sul tavolo due offerte importanti, quelle di Napoli e Milan, a
indicargli la strada. “Andiamo a Napoli”.
Quando Pesaola ci arriva, in panchina c’è Monzeglio, grande ex rossoblù. “Un signore. Diceva: tu giochi terzino, tu
mediano, tu marchi, tu fai il cross. E quella era la tattica”. Da lì, una
storia lunga 240 partite, quasi tutte al vecchio Vomero e le ultime nove nel nuovissimo San Paolo, inaugurato nel
1959. Più avanti, altre 291 partite viste dalla panchina, a partire da quella
stagione ’61-’62 in cui, giovane tecnico della Scafatese in quarta serie,
riceverà la chiamata del Comandante Lauro e si sentirà “liberare” dal suo
presidente con quattro semplici parole: “Segua
il suo cuore”.
Quel cuore lo ispirerà a riportare il Napoli in Serie A, non prima di aver
vinto una Coppa Italia da squadra “cadetta” nel ’62, poi a guidarlo al primo
trofeo internazionale, la Coppa delle Alpi del ’66, e al secondo posto in
campionato del ’68, all’epoca miglior risultato nella storia della società.
Sarà Carlo Montanari, grande uomo di calcio, a portarlo alla Fiorentina
strappandolo a Boniperti che lo voleva alla Juventus, nel 1968. Prende per mano
una squadra giovane e ne intuisce il potenziale. Misura il talento di Amarildo,
il fosforo di De Sisti, il genio di Merlo, la rocciosa sicurezza di Ferrante e
Brizi, e lancia il suo vaticinio davanti a dirigenti e tifosi increduli: “Se questa squadra non vince lo scudetto, mi
faccio frate. Trappista. Sono quelli che fanno più penitenze”.
I
POKER COL PRESIDENTE – C’è sempre Carlo Montanari, agli incroci
di questa storia. Tra grandi uomini di calcio ci si intende. Lui aveva chiamato
Pesaola a Firenze, lui lo chiama a Bologna quando l’avventura in viola si è
chiusa da un anno. Qui il presidente è Luciano Conti, un altro che ama fare
tardi la notte davanti a un mazzo di carte. L’amore sboccia, inesorabile. I
due, e il terzo è Montanari, fanno l’alba parlando di calcio e di poker, e
girerà poi la voce che buona parte dell’ingaggio il “Petisso” lo renda al suo
datore di lavoro durante quelle maratone notturne. Pesaola è furbo, sornione,
talvolta appare indolente ma capisce di calcio come pochi, tatticamente è
avanti e spesso imprevedibile, come lo era stato nell’anno magico a Firenze,
mescolando forza e talento. Qui funziona meno, ma neppure così male. Il suo
Bologna finisce tre volte settimo, e nell’anno in cui scende al nono posto
vince la famosa Coppa Italia “recuperata” al novantesimo da Bulgarelli, che si
guadagna un rigore lasciando basito persino Arcoleo, il colpevole designato, e
infine vinta ai rigori dopo una giornata d’inferno, vissuta in balìa di una
squadra di B, e chiusa in trionfo. Quattro anni degni di quel Bologna, né più
né meno. Ma i tifosi hanno ancora negli occhi l’altro Bologna, quello dello
scudetto (succede anche oggi, mezzo secolo dopo) e Pesaola lo digeriscono con
sufficienza. Verrà, poi, il tempo di rimpiangerlo.
IL
CAPPOTTO DI CAMMELLO – Col tempo, tutto si scolora. Di Bruno
Pesaola restano certe uscite memorabili, che testimoniano la sua acuta visione
delle cose e la capacità di sdrammatizzare. “Una
volta trotterellavo in mezzo al campo con poca spinta”, ricorda Eraldo
Pecci, “e Pesaola mi incitò a dare di
più. Mister, gli dissi, lo sa che io sono un estroso… E lui di rimando:
veramente a me pare che lei sia un estronso…”
Memorabile la spiegazione ad una strategia di gioco ribaltata durante una
trasferta a Bergamo: “Mister, aveva detto
che avreste giocato da subito all’attacco e invece vi siete chiusi in difesa ed
è finita 0-0…” “Per forza, quelli dell’Atalanta ci hanno rubato l’idea..”
E memorabile quel cappotto di cammello che lo avvolgeva
in panchina, molto prima che Alain Delon ne facesse un oggetto di culto nel
film “La prima notte di quiete”.
QUEI
MILLE GOL… - Figlio di un altro calcio, Bruno Pesaola. In cui
nascevano legami intensi e duraturi tra addetti ai lavori, giornalisti, tifosi,
e in cui uno con la sua intelligenza non poteva che svettare. Con le sue
vanterie divertite, anche. “Parlate una
buona volta dei miei mille gol. Non solo di quelli di Pelè. Quali sono? Ne feci
uno all’Inter, a San Siro, così bello che lo misero nella sigla della Domenica
Sportiva. A forza di vederlo, sono diventati mille…”
Spenti i riflettori, nessun rimpianto. La casa all’ultimo
piano in via Caravaggio, a Napoli, la terrazza con vista mare, ma quello di
Pozzuoli, sbirciando Fuorigrotta come un vecchio ricordo. Fino all’ultima
sigaretta. E’ rimasto, da qualche parte, un cappotto di cammello. E qui a
Bologna, più che un ricordo, il rimpianto di non aver apprezzato tutta quella
umanità.
Bologna
Rossoblù, Giugno 2015
Nessun commento:
Posta un commento