domenica 19 aprile 2020

POKER, SIGARETTE E UN CALCIO DIMENTICATO



di Marco Tarozzi

“Una volta sono andato a letto presto. Mi sono svegliato nel cuore della notte e non ho più chiuso occhio”. Per questo preferiva tirar mattina Bruno Pesaola, il “petiso” da quando ragazzino tirava i primi calci ad Avellaneda, quartiere di Baires in cui era cresciuto da italiano d’Argentina, figlio di Gaetano, calzolaio arrivato a cercar fortuna da Montelupone, provincia di Macerata. E poi “petiso” per sempre, anzi “Petisso” qui in Italia, con una “s” regalata chissà perché. Fino agli ultimi anni passati a guardare, incantato come la prima volta, il golfo di Napoli tra il fumo di mille sigarette.
Pesaola. Un altro di quei pezzi di storia del calcio che se ne sono andati in questo complicato 2015. Ai margini di un mondo che non sarebbe stato più il suo, tanto è cambiato. E un pezzo di storia rossoblù, anche. Perché se è vero che questo piccolo grande uomo che trattava le cose di pallone con saggezza e disincanto ha scritto le sue più belle pagine a Napoli, diventata la sua città, e a Firenze, dove ha vinto uno scudetto storico, non vanno dimenticate quelle quattro stagioni al timone del Bologna, tra il 1972 e il 1976, che fruttarono la Coppa Italia del ’74, vinta ai rigori in fondo a una finale dai toni rocamboleschi contro il Palermo, e due anni dopo un’altra avventura rossoblù, meno di un anno diviso in due campionati, che fruttò una salvezza ed un esonero.
Pesaola era l’uomo della notte perché, diceva, “la notte è bella e porta idee. Le persone più interessanti escono dalla sua oscurità”. E lo diceva fumandoci su un’altra sigaretta, di quelle belle toste che, messe tutte insieme, gli hanno chiesto il conto negli ultimi anni di una vita accesa, brillante, intensa. Che poi, in fondo, ci si farebbe la firma a vivere quasi novant’anni così, con quell’ironia e quella generosa leggerezza.

EMIGRANTE DI RITORNO – Arriva in Italia a ventidue anni, dopo essere stato coltivato tra i ragazzini del River Plate da quel fantastico pazzo di Renato Cesarini, nativo di Senigallia, marchigiano come il padre, ed essersi svezzato al Dock Sud di Avellaneda. Un metro e seessantacinque: “petiso”, appunto. Piccoletto. Ma adocchiato presto dagli emissari del calcio italiano. Approda alla Roma: 120mila lire al mese, nido a Trastevere e la dolce vita a portata di mano, come amici i grandi artisti dell’epoca, da Rascel a Tognazzi a Tata Giacobetti del Quartetto Cetra “che voleva farmi sposare sua sorella…”. Walter Chiari gli fa fare una comparsata nel film “L’inafferrabile 12”, basato sui sogni e le speranze affidate al Totocalcio. Altro mondo, rispetto alla povera e dignitosa semplicità della periferia di Buenos Aires. Ma in campo la ruota si inchioda: primi due anni da protagonista, ma poi squadra in difficoltà, pubblico insoddisfatto, infortunii a catena. Bruno ha carattere, non vorrebbe andarsene lasciando il lavoro a metà. Ma alla fine sta per mollare: ha praticamente la valigia sul letto quando arriva un telegramma da Silvio Piola. “Vieni a Novara, qui rinascerai”. Alla fine va, e da quella scelta riparte la sua carriera italiana. Non tornerà mai più in Argentina.

VISTA MARE – A Novara i suoi cross rinverdiscono Piola, che a trentanove anni riconquista anche la Nazionale, e conosce Ornella, una ragazza splendida che gli resterà accanto finché un destino cattivo non la porterà via, nel 1986. E’ lei, quando Bruno si ritrova sul tavolo due offerte importanti, quelle di Napoli e Milan, a indicargli la strada. “Andiamo a Napoli”. Quando Pesaola ci arriva, in panchina c’è Monzeglio, grande ex rossoblù. “Un signore. Diceva: tu giochi terzino, tu mediano, tu marchi, tu fai il cross. E quella era la tattica”. Da lì, una storia lunga 240 partite, quasi tutte al vecchio Vomero e le ultime nove  nel nuovissimo San Paolo, inaugurato nel 1959. Più avanti, altre 291 partite viste dalla panchina, a partire da quella stagione ’61-’62 in cui, giovane tecnico della Scafatese in quarta serie, riceverà la chiamata del Comandante Lauro e si sentirà “liberare” dal suo presidente con quattro semplici parole: “Segua il suo cuore”.
Quel cuore lo ispirerà a riportare il Napoli in Serie A, non prima di aver vinto una Coppa Italia da squadra “cadetta” nel ’62, poi a guidarlo al primo trofeo internazionale, la Coppa delle Alpi del ’66, e al secondo posto in campionato del ’68, all’epoca miglior risultato nella storia della società.
Sarà Carlo Montanari, grande uomo di calcio, a portarlo alla Fiorentina strappandolo a Boniperti che lo voleva alla Juventus, nel 1968. Prende per mano una squadra giovane e ne intuisce il potenziale. Misura il talento di Amarildo, il fosforo di De Sisti, il genio di Merlo, la rocciosa sicurezza di Ferrante e Brizi, e lancia il suo vaticinio davanti a dirigenti e tifosi increduli: “Se questa squadra non vince lo scudetto, mi faccio frate. Trappista. Sono quelli che fanno più penitenze”.


I POKER COL PRESIDENTE – C’è sempre Carlo Montanari, agli incroci di questa storia. Tra grandi uomini di calcio ci si intende. Lui aveva chiamato Pesaola a Firenze, lui lo chiama a Bologna quando l’avventura in viola si è chiusa da un anno. Qui il presidente è Luciano Conti, un altro che ama fare tardi la notte davanti a un mazzo di carte. L’amore sboccia, inesorabile. I due, e il terzo è Montanari, fanno l’alba parlando di calcio e di poker, e girerà poi la voce che buona parte dell’ingaggio il “Petisso” lo renda al suo datore di lavoro durante quelle maratone notturne. Pesaola è furbo, sornione, talvolta appare indolente ma capisce di calcio come pochi, tatticamente è avanti e spesso imprevedibile, come lo era stato nell’anno magico a Firenze, mescolando forza e talento. Qui funziona meno, ma neppure così male. Il suo Bologna finisce tre volte settimo, e nell’anno in cui scende al nono posto vince la famosa Coppa Italia “recuperata” al novantesimo da Bulgarelli, che si guadagna un rigore lasciando basito persino Arcoleo, il colpevole designato, e infine vinta ai rigori dopo una giornata d’inferno, vissuta in balìa di una squadra di B, e chiusa in trionfo. Quattro anni degni di quel Bologna, né più né meno. Ma i tifosi hanno ancora negli occhi l’altro Bologna, quello dello scudetto (succede anche oggi, mezzo secolo dopo) e Pesaola lo digeriscono con sufficienza. Verrà, poi, il tempo di rimpiangerlo.

IL CAPPOTTO DI CAMMELLO – Col tempo, tutto si scolora. Di Bruno Pesaola restano certe uscite memorabili, che testimoniano la sua acuta visione delle cose e la capacità di sdrammatizzare. “Una volta trotterellavo in mezzo al campo con poca spinta”, ricorda Eraldo Pecci, “e Pesaola mi incitò a dare di più. Mister, gli dissi, lo sa che io sono un estroso… E lui di rimando: veramente a me pare che lei sia un estronso…”
Memorabile la spiegazione ad una strategia di gioco ribaltata durante una trasferta a Bergamo: “Mister, aveva detto che avreste giocato da subito all’attacco e invece vi siete chiusi in difesa ed è finita 0-0…” “Per forza, quelli dell’Atalanta ci hanno rubato l’idea..”

E memorabile quel cappotto di cammello che lo avvolgeva in panchina, molto prima che Alain Delon ne facesse un oggetto di culto nel film “La prima notte di quiete”.

QUEI MILLE GOL… - Figlio di un altro calcio, Bruno Pesaola. In cui nascevano legami intensi e duraturi tra addetti ai lavori, giornalisti, tifosi, e in cui uno con la sua intelligenza non poteva che svettare. Con le sue vanterie divertite, anche. “Parlate una buona volta dei miei mille gol. Non solo di quelli di Pelè. Quali sono? Ne feci uno all’Inter, a San Siro, così bello che lo misero nella sigla della Domenica Sportiva. A forza di vederlo, sono diventati mille…”
Spenti i riflettori, nessun rimpianto. La casa all’ultimo piano in via Caravaggio, a Napoli, la terrazza con vista mare, ma quello di Pozzuoli, sbirciando Fuorigrotta come un vecchio ricordo. Fino all’ultima sigaretta. E’ rimasto, da qualche parte, un cappotto di cammello. E qui a Bologna, più che un ricordo, il rimpianto di non aver apprezzato tutta quella umanità.



Bologna Rossoblù, Giugno 2015

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