Questa è la storia di un caso
irrisolto. E non saremo certo noi a trovarne la soluzione, perché intanto il
tempo e la storia hanno fatto il loro corso. Però possiamo almeno cercare di
capire, o se non altro farci un’idea del perché uno dei più grandi giocatori di
calcio della sua epoca, uno che era stato definito da un tecnico di prima
grandezza come Hugo Meisl “la migliore ala
d’Europa”, abbia collezionato nella sua lunga e proficua carriera soltanto
una maglia azzurra, per di più molto avanti negli anni. Del perché a Carlo Reguzzoni,
ancora oggi secondo cannoniere della storia del Bologna con 145 reti segnate in
maglia rossoblù, sia rimasto quel grande ed inspiegabile rimpianto.
A Bologna
avevano imparato ad amarlo, questo campione arrivato da Busto Arsizio, dove si
era fatto le ossa indossando i colori della Pro Patria, altra gloria del calcio
italiano. Lo chiamavano Carletto, ma non di rado anche “Rigoletto”. Lo aveva
soprannominato così la “torcida” rossoblù, perché col passare degli anni aveva
accentuato quella andatura leggermente curva che lo caratterizzava. Senza
rancore, anche perché in rossoblù questo bustocco dal talento unico ci restò
quattordici lunghe stagioni, diventando un beniamino dei tifosi. A suon di gol:
quando se ne andò, ne aveva regalati al Bologna 145, in 378 partite. Ancora
oggi, nel pantheon rossoblù, secondo soltanto ad Angiolino Schiavio. E ancor
più entusiasmante fu il ruolino di marcia sui campi d’Europa, in partite che si
giocavano nella sua stagione preferita, dalla primavera in avanti: 23 presenze,
18 reti, poco meno di una a gara.
Aveva il
gol nel sangue, “Rigoletto”. Ma c’era appunto un momento dell’anno, uno in
particolare, in cui diventava davvero inarrestabile. A primavera, quando l’erba
si faceva più verde, lui si faceva ancor più pericoloso del solito. In società
si erano stampati bene il suo nome in testa nel 1929, quando Carletto, che
indossava i colori della Pro Patria, fece letteralmente impazzire un mastino
esperto come Pierino Genovesi. “Pirèin”, a fine partita, andò dritto dal “mago”
Felsner, che lui chiamava molto più prosaicamente “l'umàz”, e gli parlò
schietto, com'era sua abitudine. “Quello è un fenomeno, ma perché non lo
facciamo venire a Bologna da noi?”. Felsner non aveva bisogno di prendere
nota: aveva già pensato la stessa cosa.
Il grande
tecnico si mosse personalmente un anno dopo. Nell'estate del 1930, prese un
treno per andare a Busto Arsizio a parlare col giocatore. Il destino gli fece
risparmiare ore di viaggio. Alla stazione di Milano, mentre si accingeva a
cambiare treno, si trovò davanti Carletto in persona. “Dove va di bello,
Reguzzoni?”, gli domandò. “Mi hanno chiamato quelli del Milan. Sto
proprio andando in sede, hanno detto che si può chiudere il contratto in
giornata”. “Ma che ci va a fare al Milan? Io stavo venendo proprio a
casa sua per convincerla a venire da noi. Mi dia retta, a Bologna starà
benissimo. La squadra è forte, i ragazzi non vedono l'ora di averla nel gruppo,
la città è splendida. Cosa vuole di più?”.
Felsner
era Felsner. Ma anche Leandro Arpinati, gerarca in auge nel Partito Fascista e
allora grande capo della Federcalcio, era Arpinati, e ci mise del suo per far
approdare il giocatore a Bologna e per far digerire al Milan un rifiuto a
fronte di un precontratto già in essere. Insomma, Reguzzoni si convinse. Certo,
a margine ci fu anche una superofferta alla Pro Patria: 80mila lire, la prima
vera cifra-record di un calcio che stava diventando sempre più popolare e di
conseguenza muoveva interessi sconosciuti appena una decina d’anni prima. Al
Milan, quel giorno non lo videro. E quando lo sentirono, dovettero prendere
atto della scelta.
Da
quell'estate del 1930 fino al 1946, Carlo Reguzzoni non levò più la maglia
rossoblù. Vinse quattro scudetti, due Coppe dell'Europa Centrale, il famoso
Torneo dell'Esposizione di Parigi. In quella finale allo stadio di Colombes, in
cui il Bologna rifilò un 4-1 e una lezione di calcio ai “maestri” inglesi,
segnò una leggendaria tripletta. Era il 6 giugno 1937. Al rientro in città, la
squadra del grande Arpad Weisz fu accolta nel piazzale della stazione centrale
dai tifosi. C’è una foto che spiega meglio di mille parole il carattere di
“Rigoletto”. Folla festante e un gruppo di giocatori a salutare dal tetto di
una Balilla. Il più spaesato, forse intimidito da tutto quell’affetto, è lui.
Il signore della finale, Carlo Reguzzoni.
Ma
allora, appunto, perché? Come mai l’unico gettone di presenza in azzurro è
datato 14 aprile 1940, in un’amichevole di basso profilo contro la Romania
giocata a Roma, con i venti di guerra che spiravano tutto intorno e un
Reguzzoni ormai trentaduenne che ormai aveva perso le grandi occasioni mondiali
del ’34 e del ’38? Si è parlato di una sorta di voluta dimenticanza del Ct
azzurro, Vittorio Pozzo, perché Carletto era un antifascista in tempi in cui
essere contro non andava di moda. Voci, non certezze. Reguzzoni era un uomo
taciturno, riservato. Alberto Brambilla, uno dei maggiori studiosi del rapporto
fra letteratura e sport, pur non avendolo visto giocare fu a lungo suo
vicino di casa, e lo descriveva così: “Era schivo, non
amava parlare di sè, rispondeva a monosillabi, senza aggiungere alcun
particolare”. Più che di opposizione al regime, insomma, si potrebbe
parlare di indifferenza. Di fatto, Pozzo gli preferì nel ruolo l’oriundo Mumo
Orsi, l’unico giocatore a cui un campione corretto come Angelo Schiavio aveva
giurato eterna inimicizia, dopo che l’argentino in un Juventus-Bologna aveva
più volte tentato di azzopparlo. Pozzo viveva a Torino, poteva osservare Orsi
da vicino, e questa potrebbe essere una spiegazione. Finita l’era di Orsi,
toccò anche a Gino Colaussi indossare la maglia che sembrava fatta apposta per
uno come Reguzzoni. Uno con una regolarità impressionante, una progressione
fantastica e un sinistro micidiale. Uno che aveva l’istinto del gol, ma amava
anche alimentare i compagni, con cross pennellati dopo inarrestabili scatti
sulla fascia. Per dire: se Ettore Puricelli a Bologna divenne “Testina d’oro”,
tanto si deve anche all’altruismo del preziosissimo Rigoletto.
Prima di
chiudere la sua lunga avventura in rossoblù, Reguzzoni vinse anche la Coppa
Alta Italia del '46, primo accenno di una pace ricostruita sulle macerie, per
poi tornare dopo quattordici stagioni rossoblù definitivamente alla vecchia Pro
Patria e restarci, da protagonista, fino a quarant'anni suonati.
Lasciò
molto al Bologna. Immagini indimenticabili di quelle sgroppate sulla fascia,
retaggio di un'adolescenza passata a costruire fughe solitarie in quello sport
che sembrava avergli aperto una strada da protagonista, il ciclismo. E un po'
di salute: il ginocchio cigolò spesso, negli ultimi anni, ma lui stringeva i
denti e andava avanti, perché l'idea di fermarsi non gli apparteneva. E poi,
quando arrivava la primavera, lui e il Bologna esplodevano insieme. Difficile
non accorgersene, eppure qualcuno in Nazionale voltò sempre la testa dall’altra
parte.
Bologna
Rossoblù, novembre 2018
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