lunedì 9 dicembre 2019

REGUZZONI, IL BOMBER DIMENTICATO DALLA NAZIONALE




Questa è la storia di un caso irrisolto. E non saremo certo noi a trovarne la soluzione, perché intanto il tempo e la storia hanno fatto il loro corso. Però possiamo almeno cercare di capire, o se non altro farci un’idea del perché uno dei più grandi giocatori di calcio della sua epoca, uno che era stato definito da un tecnico di prima grandezza come Hugo Meisl “la migliore ala d’Europa”, abbia collezionato nella sua lunga e proficua carriera soltanto una maglia azzurra, per di più molto avanti negli anni. Del perché a Carlo Reguzzoni, ancora oggi secondo cannoniere della storia del Bologna con 145 reti segnate in maglia rossoblù, sia rimasto quel grande ed inspiegabile rimpianto.



A Bologna avevano imparato ad amarlo, questo campione arrivato da Busto Arsizio, dove si era fatto le ossa indossando i colori della Pro Patria, altra gloria del calcio italiano. Lo chiamavano Carletto, ma non di rado anche “Rigoletto”. Lo aveva soprannominato così la “torcida” rossoblù, perché col passare degli anni aveva accentuato quella andatura leggermente curva che lo caratterizzava. Senza rancore, anche perché in rossoblù questo bustocco dal talento unico ci restò quattordici lunghe stagioni, diventando un beniamino dei tifosi. A suon di gol: quando se ne andò, ne aveva regalati al Bologna 145, in 378 partite. Ancora oggi, nel pantheon rossoblù, secondo soltanto ad Angiolino Schiavio. E ancor più entusiasmante fu il ruolino di marcia sui campi d’Europa, in partite che si giocavano nella sua stagione preferita, dalla primavera in avanti: 23 presenze, 18 reti, poco meno di una a gara.



Aveva il gol nel sangue, “Rigoletto”. Ma c’era appunto un momento dell’anno, uno in particolare, in cui diventava davvero inarrestabile. A primavera, quando l’erba si faceva più verde, lui si faceva ancor più pericoloso del solito. In società si erano stampati bene il suo nome in testa nel 1929, quando Carletto, che indossava i colori della Pro Patria, fece letteralmente impazzire un mastino esperto come Pierino Genovesi. “Pirèin”, a fine partita, andò dritto dal “mago” Felsner, che lui chiamava molto più prosaicamente “l'umàz”, e gli parlò schietto, com'era sua abitudine. “Quello è un fenomeno, ma perché non lo facciamo venire a Bologna da noi?”. Felsner non aveva bisogno di prendere nota: aveva già pensato la stessa cosa.

Il grande tecnico si mosse personalmente un anno dopo. Nell'estate del 1930, prese un treno per andare a Busto Arsizio a parlare col giocatore. Il destino gli fece risparmiare ore di viaggio. Alla stazione di Milano, mentre si accingeva a cambiare treno, si trovò davanti Carletto in persona. “Dove va di bello, Reguzzoni?”, gli domandò. “Mi hanno chiamato quelli del Milan. Sto proprio andando in sede, hanno detto che si può chiudere il contratto in giornata”. “Ma che ci va a fare al Milan? Io stavo venendo proprio a casa sua per convincerla a venire da noi. Mi dia retta, a Bologna starà benissimo. La squadra è forte, i ragazzi non vedono l'ora di averla nel gruppo, la città è splendida. Cosa vuole di più?”.

Felsner era Felsner. Ma anche Leandro Arpinati, gerarca in auge nel Partito Fascista e allora grande capo della Federcalcio, era Arpinati, e ci mise del suo per far approdare il giocatore a Bologna e per far digerire al Milan un rifiuto a fronte di un precontratto già in essere. Insomma, Reguzzoni si convinse. Certo, a margine ci fu anche una superofferta alla Pro Patria: 80mila lire, la prima vera cifra-record di un calcio che stava diventando sempre più popolare e di conseguenza muoveva interessi sconosciuti appena una decina d’anni prima. Al Milan, quel giorno non lo videro. E quando lo sentirono, dovettero prendere atto della scelta.



Da quell'estate del 1930 fino al 1946, Carlo Reguzzoni non levò più la maglia rossoblù. Vinse quattro scudetti, due Coppe dell'Europa Centrale, il famoso Torneo dell'Esposizione di Parigi. In quella finale allo stadio di Colombes, in cui il Bologna rifilò un 4-1 e una lezione di calcio ai “maestri” inglesi, segnò una leggendaria tripletta. Era il 6 giugno 1937. Al rientro in città, la squadra del grande Arpad Weisz fu accolta nel piazzale della stazione centrale dai tifosi. C’è una foto che spiega meglio di mille parole il carattere di “Rigoletto”. Folla festante e un gruppo di giocatori a salutare dal tetto di una Balilla. Il più spaesato, forse intimidito da tutto quell’affetto, è lui. Il signore della finale, Carlo Reguzzoni.



Ma allora, appunto, perché? Come mai l’unico gettone di presenza in azzurro è datato 14 aprile 1940, in un’amichevole di basso profilo contro la Romania giocata a Roma, con i venti di guerra che spiravano tutto intorno e un Reguzzoni ormai trentaduenne che ormai aveva perso le grandi occasioni mondiali del ’34 e del ’38? Si è parlato di una sorta di voluta dimenticanza del Ct azzurro, Vittorio Pozzo, perché Carletto era un antifascista in tempi in cui essere contro non andava di moda. Voci, non certezze. Reguzzoni era un uomo taciturno, riservato. Alberto Brambilla, uno dei maggiori studiosi del rapporto fra letteratura e  sport, pur non avendolo visto giocare fu a lungo suo vicino di casa, e lo descriveva così: “Era schivo, non amava parlare di sè, rispondeva a monosillabi, senza aggiungere alcun particolare”. Più che di opposizione al regime, insomma, si potrebbe parlare di indifferenza. Di fatto, Pozzo gli preferì nel ruolo l’oriundo Mumo Orsi, l’unico giocatore a cui un campione corretto come Angelo Schiavio aveva giurato eterna inimicizia, dopo che l’argentino in un Juventus-Bologna aveva più volte tentato di azzopparlo. Pozzo viveva a Torino, poteva osservare Orsi da vicino, e questa potrebbe essere una spiegazione. Finita l’era di Orsi, toccò anche a Gino Colaussi indossare la maglia che sembrava fatta apposta per uno come Reguzzoni. Uno con una regolarità impressionante, una progressione fantastica e un sinistro micidiale. Uno che aveva l’istinto del gol, ma amava anche alimentare i compagni, con cross pennellati dopo inarrestabili scatti sulla fascia. Per dire: se Ettore Puricelli a Bologna divenne “Testina d’oro”, tanto si deve anche all’altruismo del preziosissimo Rigoletto.

Prima di chiudere la sua lunga avventura in rossoblù, Reguzzoni vinse anche la Coppa Alta Italia del '46, primo accenno di una pace ricostruita sulle macerie, per poi tornare dopo quattordici stagioni rossoblù definitivamente alla vecchia Pro Patria e restarci, da protagonista, fino a quarant'anni suonati.



Lasciò molto al Bologna. Immagini indimenticabili di quelle sgroppate sulla fascia, retaggio di un'adolescenza passata a costruire fughe solitarie in quello sport che sembrava avergli aperto una strada da protagonista, il ciclismo. E un po' di salute: il ginocchio cigolò spesso, negli ultimi anni, ma lui stringeva i denti e andava avanti, perché l'idea di fermarsi non gli apparteneva. E poi, quando arrivava la primavera, lui e il Bologna esplodevano insieme. Difficile non accorgersene, eppure qualcuno in Nazionale voltò sempre la testa dall’altra parte.



Bologna Rossoblù, novembre 2018



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