di Marco Tarozzi
Arrivarono in due, nella calda estate del Sessantotto
rossoblù. L’attacco del Bologna doveva ripartire da loro, e all’inizio tutti
puntavano sul più maturo dei due, Lucio Mujesan, che era stato capocannoniere
in B col Bari e aveva già venticinque anni. L’altro, al confronto, era un
ragazzino: ventun’anni, ma già una stagione in A da 12 gol, con l’Atalanta. Si
puntava su Lucio e venne fuori Beppegol. Il ragazzino, appunto. Giuseppe Savoldi da Gorlago.
“Che
dire? Lucio aveva talento, qualità, ma nel calcio non si può mai sapere come va
a finire. Le punte eravamo noi due, finì che alla lunga scelsero me. Ma i primi
anni al Bologna non furono semplici. Eravamo le facce nuove: noi due, Cresci,
Gregori. La società aveva deciso di “svecchiare”, di rinnovare una volta finito
il ciclo del gruppo dello scudetto. Soffrimmo parecchio, rischiammo anche la
retrocessione. Forse Lucio aveva addosso troppe pressioni, chissà. Io superai
il momento duro e sì, divenni Beppegol”.
Non era cominciata bene, l’avventura. In un Bologna da
rifondare, Savoldi arrivò con i suoi bei problemi da risolvere.
“Nell’Atalanta
avevo messo in evidenza un buon gioco aereo, una notevole elevazione. Mi
vollero per questo, a Bologna. Ma arrivai con un grosso problema alla schiena,
e a un certo punto la mia carriera sembrava addirittura in discussione. Piano
piano, invece, iniziai a stare bene e le cose presero ad andare per il verso
giusto. Buoni campionati, due edizioni della Coppa Italia. Ecco, anche questo
lo devo a Bologna e a chi in quei momenti continuò a credere in me”.
A Bologna, tra fine anni Sessanta e metà anni Settanta, i
bambini nel cortile, dove ancora il calcio era allegria, volevano essere
semplicemente Savoldi. Pensare che lui, bambino, pensava ad altro. O meglio,
non solo al pallone. Per di più, quando scendeva in campo lo faceva da
portiere.
“Sì,
perché per me le mani erano una componente fondamentale del gioco. Non a caso mi
dividevo tra pallacanestro e calcio. Amavo il basket, lo amo ancora. Ero un
giocatore alla Caglieris, e arrivai fino alla Serie C. Ma ho fatto buone cose
anche nell’atletica, a 14 anni ero campione provinciale di salto in alto, e anche
da questo si spiega la mia capacità di elevazione. Insomma, per me contava
semplicemente muovermi, fare sport. In una delle squadrette della mia gioventù
mi tolsero dalla porta perché era venuto a mancare il centravanti. Cominciai a
fare qualche gol e non mi tolsero più di lì. Poi arrivò l’Atalanta, e mi
scelse. Fu allora che presi coscienza del fatto che potevo diventare un
giocatore, fare del calcio una professione. E mi ci misi d’impegno”.
Tre stagioni in prima squadra, l’ultima con cifre giuste
per farsi notare e acquistare da una squadra come il Bologna. Non più quello di
quattro anni prima, ma società e città giuste per viverci un calcio migliore.
“Erano
tempi belli. Andavi in centro e ti ritrovavi in mezzo alla gente. Eri parte
della città. Io ero diventato un bergamasco bolognese, dopo qualche annata in
rossoblù. E avevo ritrovato anche la pallacanestro. Dopo la partita si correva
al Palasport, e io ero uno di qulli. Su quale sponda? Diciamo che frequentavo
di più quelli della Fortitudo perché ci giocava Arrigoni, mio compaesano. Ma a
me interessava semplicemente vedere del buon basket, e a Bologna si poteva. La
gente mi ha amato, da voi. Beppe Savoldi, sì, quello con la maglia numero nove.
Lo confesso, nel calcio si vive anche di questo. Tutte quelle attenzioni mi hanno
fatto stare bene. E sette stagioni sempre nello stesso posto sono tante, per un
calciatore. Un terzo della carriera. Quando finii a Napoli non dimenticai
Bologna. Tant’è che ci ritornai appena finita l’avventura laggiù”.
Una storia che era iniziata col botto: Savoldi dal
Bologna al Napoli per un miliardo e quattrocento milioni, più Rosario Rampanti
e Sergio Clerici. In pratica, un affare da due miliardi: all’epoca, nessun
giocatore al mondo era stato pagato una cifra simile.
“Eppure
non mi sentii particolarmente sotto pressione, in quei giorni. Del resto, quei
soldi mica li avevo messi in tasca io. Non c’entravo. Però avevo detto di sì,
dopo esser stato vicino alla Roma e a un passo dalla Juve, perché per me era un
salto in avanti nella carriera. Il Napoli era finito secondo dietro alla Juve
nell’ultimo campionato, io avevo chiuso la stagione con 15 reti in 28 partite.
Sembrò il matrimonio perfetto, e si fece. Con buona pace di tutti”.
Beppegol continua ad attraversare le praterie del calcio.
Dopo i gol (tanti, 168 su 405 presenze, davanti nella storia del calcio italiano
ne ha soltanto dodici…) ha fatto l’allenatore, il motivatore, il commentatore
in tv. E persino l’attore, nel film “Il posto”, sceneggiato da Altan. Guarda al
calcio di oggi e lo vede evoluto, naturalmente, rispetto al suo.
“Ma
soprattutto sotto l’aspetto fisico, della velocità. La tecnica non è cambiata
da allora, è soltanto più “allenata”. Giocatori come Mazzola, Rivera, Claudio
Sala, come il povero Gigi Meroni non avrebbero avuto nulla da imparare da
quelli di oggi. Vogliamo paragonare Rivera a El Shaarawi? Vince Gianni, è una
spanna sopra. Tecnicamente, Mazzola era superiore a Cassano… Poi, io nel
Bologna ho giocato accanto a uno dei più grandi, Giacomino Bulgarelli. Lui non
era solo tecnica, ma anche testa. Sapeva ragionare. Ma non avrebbe mai potuto
fare l’allenatore, per il carattere che aveva. Ragionava troppo. E infatti ha
scelto altre strade per restare vicino al calcio. Volevo bene a Giacomo, era un
amico”.
Il gioco del “chi è il Savoldi di oggi” gli piace il
giusto, ma ci si adegua sorridendo.
“Ce
l’avete qui. Sì, Gilardino un po’ mi assomiglia. O meglio: nessuno assomiglia a
un altro, ma c’è qualcosa in lui che mi ricorda com’ero. Il modo di muoversi in
campo, di cercare il gol: lui si muove in funzione di quello, ci crede sempre,
in ogni azione. Sta sempre sul primo palo, come facevo io, o va sul secondo per
fare sponda”.
Non ha dimenticato il Bologna. Lo segue e professa
ottimismo.
“Si
sta riprendendo, anche se il supporto societario non è quello dei tempi della
gloria. Ma intanto è in Serie A, e alla fine è nato ancora un bel gruppo.
Apprezzo Pioli. Ha qualità, idee e sa muovere i giocatori secondo le loro
caratteristiche, senza farsi imprigionare dai moduli. Può far bene anche al
timone di una squadra di alto livello. E poi sono contento per Diamanti: quando
lavoravo per Sky lo vidi a Livorno e dissi: questo è da Serie A. Ma è
discontinuo, mi dissero, non ha il carattere giusto. Invece è lì: e sono
contento che abbia trovato la sua dimensione con il Bologna”.