Gli anni di Kociss: “Quando Nikolic
venne a prendermi in America
E Porelli mi disse: “Esci con me, così so dove sei di sera”
E Porelli mi disse: “Esci con me, così so dove sei di sera”
di Marco Tarozzi
La sua prima
volta in Italia lo portò dritto a Varese. E fu subito grande basket, per John Fultz, in quella Ignis che aveva
appena vinto il campionato italiano, la Coppa Italia e soprattutto la sua prima
Coppa dei Campioni. Era l’estate del 1970. Lui usciva da anni felici alla Rhode
Island University, dalle tre grandi sfide, veri e propri derby d’oltreoceano,
con UMass di Julius Erving, da una preseason
giocata con la canotta dei Lakers insieme a Jim Mc Millian e Jim Cleamons,
dalle sfide con Calvin Murphy sfociate in una profonda amicizia. Era un’America
da leggenda, ma John ne uscì per venire in Italia.
“Da Rhode Island ero uscito come
quinto realizzatore all-time della franchigia, con una fama di buon rimbalzista
e una media di oltre venti punti a partita, ma all’università avevo giocato
soprattutto nel ruolo di centro, nonostante l’altezza, e l’idea che potessi
sfondare nella Nba come ala piccola era lontana dalla mente di chi doveva farmi
un contratto. Alla fine di quella rassegna estiva mi convocò Fred Shaus,
general manager dei Lakers, insieme a coach Mullaney. Mi offrirono un contratto
minimo, non garantito. Avrei dovuto essere felice di giocare in una squadra
così blasonata, ma la cosa non mi andò giù. In quello stato d’animo, andai a giocare
il North South All Star Game di New York, una vetrina per i migliori prospetti
usciti dall’università. Quella sera giocai in squadra con Mel Davis, Calvin
Murphy, Claude English, segnai 34 punti e fui eletto “mvp” dell’incontro. Dopo
la gara, negli spogliatoi trovai ad attendermi un certo Asa Nikolic”.
Che all’epoca era il coach della
mitica Ignis Varese, e le propose di trasferirsi in Italia.
“Mentii dicendo che non sapevo che in
Italia si giocasse a basket. In realtà sapevo che gente come Bradley e Chubin,
che erano stati miei idoli, avevano giocato a Milano. Ed in effetti quella di
Milano fu la mia prima pista d’atterraggio. Finii poco lontano. Ma in un ruolo
insolito, quello di straniero di coppa. Si trattava di veder giocare i compagni
in campionato e farmi trovare pronto per le partite europee. Non semplice, per
uno come me. Ma trovai una squadra fortissima. Con Manuel Raga legai subito,
eravamo anche compagni di stanza. E poi c’erano Dino Meneghin, che subito
iniziò a chiamarmi “Gianni”, “Capitan Uncino” Flaborea, Ossola, Rusconi,
Bulgheroni. Fu una bella annata, arrivammo ancora una volta alla finale di
Coppa Campioni e la perdemmo contro l’Armata Rossa di Belov. I miei compagni
pagarono con la stanchezza la partita che avevano appena disputato con la
Simmenthal, un vero e proprio “spareggio” di campionato. Finì 67-53 per loro,
ne misi 22 con 11 rimbalzi, ma non bastò”.
Da lì in avanti, la sua storia
italiana si chiama Virtus.
“Il primo incontro fu con Achille
Canna, al Jolly Hotel. Fu lui a portarmi dritto dall’avvocato Porelli. Ci
mettemmo un attimo a trovare l’accordo. Io volevo giocare con continuità, lui
mi propose un ottimo contratto e non ci pensai due volte. Porelli era unico. Mi
ricordo che ci fu un periodo, quando gli dissero che facevo un po’ tardi la
notte, che per “controllarmi” meglio mi portava fuori lui stesso. “Così ti tengo
d’occhio”, mi diceva. Insomma, di lì a poco nacque qualcosa che andava oltre il
rapporto di lavoro. Nacque il mio amore per Bologna”.
Molti sono ancora convinti che la
rinascita della pallacanestro in città, e le origini di Basket City, siano
passate dalle mani e dai punti di due campioni d’oltreoceano: lei e il
“Barone”, Gary Schull.
“In qualche
modo è la verità. Quando arrivai a Bologna, nel 1971, la Virtus aveva perso un
po’ del suo smalto. A palazzo c’era una media di duemila persone. Poi
arrivarono quei derby, quelle sfide tra me e Gary che esaltavano i tifosi. E
già alla fine della prima stagione si faceva il tutto esaurito. Gary era
speciale, un altro che come me amava il basket passionalmente. In campo, non ce
n’era per nessuno. Ci siamo divertiti, sono stati anni magici, certamente i
migliori della mia carriera di giocatore, In Virtus trovai quell’America che
non avevo potuto raggiungere a casa mia, anche se fu soprattutto colpa mia”.
In
particolare quando i Lakers le offrirono la seconda opportunità, richiamandola
negli States per un provino. Che fallì per motivi extracestistici…
“Fu proprio
dopo la prima stagione a Bologna. In campo feci molto bene, ma la sciocchezza
la commisi fuori. Comportamenti non ortodossi, diciamo così. Mi controllavano,
si accorsero di tutto e mi fecero capire che non era il caso. Tornai in Virtus.
Ma fu una specie di liberazione. A distanza di tanti anni, posso dire che forse
inconsciamente non vedevo l’ora di mollare tutto e tornare a Bologna”.
Qui lei era
un idolo, dentro e fuori dal campo.
“La mia casa
era un porto di mare. Se qualcuno aveva bisogno, io c’ero. Iniziai a credere
nei valori di pace e condivisione, facevo esperienze alternative. Ancora oggi
mi considero un uomo non violento e propositivo, e non rinnego quei tempi,
anche se so bene che avrei potuto vivere diversamente il mio percorso di atleta,
sfruttare meglio il talento che mi era stato donato. Ci ho scritto un libro, su
questa esperienza, ho raccontato tutto con sincerità perché penso che nascondere
gli errori non sia il modo giusto per educare. I ragazzi sentono quando menti,
con loro bisogna essere chiari, sinceri fino in fondo”.
Tre anni in
bianconero e il primo trofeo da alzare al cielo dopo anni di astinenza.
“Vincemmo la
Coppa Italia nel ’73-74, battendo in finale la Snaidero. Fu la mia stagione
migliore alla Virtus, e mi convinsi che sarei rimasto a Bologna ancora a lungo.
Ormai la consideravo la mia città. E la squadra era in crescita. Avevo iniziato
con ragazzi che si chiamavano Bertolotti, Ferracini, Serafini, Antonelli, e io stesso avevo ventitré anni quando ero
sbarcato in Italia. Sono certo che avremmo raggiunto insieme altri traguardi
importanti. Ma un giorno coach Dan Peterson, a cui devo tanto per la mia
crescita di giocatore e con cui c’è sempre stato un rapporto chiaro e diretto,
mi spiegò bene la situazione. Disse che avrebbe voluto assolutamente
confermarmi, ma anche che si era aperta questa incredibile possibilità di
arrivare a Tom McMillen. Se non arriva, mi disse con sincerità, resti tu al
cento per cento. Ma Tom arrivò, e la mia esperienza a Bologna si chiuse lì”.
Si è mai
chiesto perché tanti tifosi, qui a Bologna, non hanno mai più dimenticato
“Kociss”?
“Perché
credo di aver fatto qualcosa di buono, e di averli fatti divertire e sognare, a
modo mio. Giocando un basket brillante.
Qui sono rimasti tanti legami e amicizie, e sono i valori più importanti, per
come la vedo io”.
Ha visto la
nuova Virtus in azione? Le piace?
“La seguo,
certo, e ho visto diverse cose in video. E’ una squadra giovane, con una gran
voglia di fare bene. Credo possa crescere tantissimo. E coach Valli ha potuto
forgiarla dall’inizio, questo non è un particolare secondario. Mettere la propria
impronta su quello che si fa, per un tecnico, è determinante. Mi piace da
impazzire Simone Fontecchio. Sono certo che diventerà un grande, perché fare
quello che ha fatto a Pistoia e soprattutto contro Avellino, dove usciva da una
partita complicata, ad appena diciannove anni è segno di grande temperamento e
sicurezza”.
Gianmarco
Pozzecco allenatore, sull’altra sponda. Che effetto le fa?
“Non lo
scopro io, ha già dimostrato, soprattutto in Sicilia, di poter fare quel
mestiere. Lui è genuino, immediato, e credo che ai giocatori possa trasmettere
passioni ed emozioni, che servono tanto a consolidare un gruppo e a raggiungere
gli obiettivi. Poi mi è simpatico, è istrionico e spettacolare, e la
pallacanestro per me ha bisogno anche di questo per farsi amare da sempre più
persone”.
(www.virtus.it)
(foto tratte da “Mi chiamavano Kociss”, John Fultz, Minerva Edizioni)
(foto tratte da “Mi chiamavano Kociss”, John Fultz, Minerva Edizioni)