mercoledì 31 luglio 2013

CIMPIEL: “IL MIO CALCIO TRA EUSEBIO E PELE’”


di Marco Tarozzi

Paolo Cimpiel non ha mai smesso di correre in mezzo alle praterie del calcio. Le attraversa tranquillo, con un sacco pieno di palloni e un altro stipato di ricordi. I primi li usa per insegnare il verbo ai ragazzi, a quelli che non l’hanno mai visto tra i pali ma sanno che il mister è un tipo in gamba, che ci sa fare. I secondi li tira fuori uno alla volta, con pudore e senza enfasi, e sono storie che arrivano da un altro calcio, da un altro mondo. Come le leggende: antiche, immortali. Lo ha fatto anche quella splendida sera di giugno in cui si sono aperti i cancelli del Dall’Ara per parlare di Bologna, di emozioni da stadio, di calcio vero sotto la luna. E i suoi aneddoti hanno stregato i fortunati che c’erano.
Paolo è stato un globetrotter del calcio, ma ha sposato una bolognese e alla fine è tornato a Bologna, o meglio a Casalecchio, per restarci definitivamente. In casa, in bella mostra come un trofeo, tiene la foto che vale una vita nel calcio: lui con la maglia dei Toronto Metros, Pelè con quella dei Cosmos. Belli fermi, in posa insieme, sorridenti. Da raccontare, ma una cosa per volta: prima ci sono i ragazzi.
“Mi piace lavorare con loro. Dico, lavorare: lo sanno che c’è un momento per il gioco e uno per fare sul serio, in campo bisogna fare la cosa giusta. Ora alleno insieme al “mitico” Villa, mi diverto sempre anche se i giovani non hanno più voglia di stare in porta, hanno quasi paura. Dei genitori, soprattutto… E’ destino, finirò col perdere il lavoro…”.
Intanto, però, imparano l’arte che Cimpiel ha insegnato a tanti. “Dieci anni alla Compagnia atleti, a crescere giovani talenti che si chiamavano Toldo, Seba Rossi. E poi il Bologna, prima dell’arrivo della dirigenza Gazzoni”.




Il Bologna, appunto. Parte da lì, la storia. Primi anni Sessanta: Paolo Cimpiel, classe ’40, è un portierino nato ad Azzano, provincia di Udine, e cresciuto nel Portogruaro. “Prima, nelle sfide di paese, incrociavo Zoff che abitava a pochi chilometri da me. Una volta giocammo in un posto che non aveva nemmeno le docce, e finimmo a sciacquarci in un lavatoio. Dino se lo ricorda ancora. Poi lui andò all’Udinese e io al Portogruaro dove mi vide Ballacci, ex rossoblù, spedendomi a Bologna nel ’59”.

Gavetta in Serie C, a Trapani. Poi il ritorno a Bologna e il lancio in prima squadra, con Bernardini. “Prima in Mitropa Cup, dove vincemmo. Poi in campionato, al posto di Santarelli. Era il ’62-63, l’anno del “così si gioca solo in Paradiso”. Eravamo forti, anche se spesso inciampavamo con le grandi. Avevo iniziato bene, ma poi arrivò la maledetta domenica contro la Juve.Presi un gol impossibile da metà campo e ciao… Allora un portiere di ventidue anni non dava sicurezza, si cercava il numero uno più maturo. Era la prassi. Non ebbi più chances, e l’anno dopo arrivò Negri. Iniziai a girare l’Italia, prima in prestito, poi a titolo definitivo dopo la morte di Dall’Ara. Brescia, Verona, Catanzaro. Ma intanto mi ero sposato con Marina, che è nata qui e non si sarebbe spostata per niente al mondo, e sapevo che a Bologna alla fine ci sarei tornato”.

Altre tappe. Cesena, con la promozione in B, tre anni fantastici a Taranto, il Pescara dove Cimpiel arrivò chiamato da Tom Rosati, guadagnandosi un’altra promozione. “Ma anche lì dopo un paio di stagioni arrivò Piloni dalla Juve e dovetti farmi da parte. Ormai avevo trentacinque anni, la catena era lenta. Dissi basta”.

Mentre sta appendendo i guanti al chiodo, Paolo riceve la telefonata che gli allunga la carriera. Da Toronto. “Chinaglia aveva già scelto l’America, e anche Bulgarelli e Perani l’avevano assaporata. Giacomo aveva giocato nell’Hartford, in Connecticut. E Marino, che aveva accompagnato Bob Vieri da dirigente rossoblù, finì per divertirsi un’estate laggiù in maglietta e calzoncini. Era il ’76, non è che pensassi di diventare miliardario, attraversando l’oceano. Ne parlai con mia moglie, decidemmo di andare a divertirci, a scoprire un mondo nuovo. A quell’epoca mica giravano i soldi di oggi, ma quell’esperienza mi ha arricchito dentro, questo posso dirlo. Ho coltivato amicizie che durano ancora, ho anche vinto un campionato. In squadra con un certo Eusebio, scusate se è poco. Certo, era a fine carriera, aveva giocato un paio di campionati in Messico, ma ai fuoriclasse il tempo non può togliere il talento. New York ho giocato contro Chinaglia e Pelè, a Toronto ho portato ‘O Rey e Beckenbauer nella comunità italiana, che è numerosissima. Organizzammo anche un’amichevole per raccogliere fondi per i terremotati del Friuli, e loro non mancarono”.

 
 
Due anni in Canada, il ritorno in Italia e figurarsi se Paolo Cimpiel dice basta. “Arrivo a trentotto anni e qui hanno appena riorganizzato la terza serie in C1 e C2. Mi chiama l’Osimana, per andare a fare la chioccia a un paio di giovani emergenti. Loro si infortunano e io torno tra i pali. Fino a quarant’anni suonati. E le sfide più belle erano quelle con l’Elpidiense. Lì c’era Ricky Albertosi, ci guardavamo e ci scappava da ridere. Era una bella rimpatriata tra nonni”.
Ma poi, certo, era destino chiudere la saracinesca prima o poi. Era destino ritrovare Bologna, il calcio con le stellette e una parentesi rossoblù troppo breve. Prima di mettere radici a Casalecchio, per insegnare il mestiere ai ragazzi. Che qualcuno, in campo ad ascoltare calcio, ci sarà sempre e comunque.

Bologna Rossoblù, agosto 2013
 


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