mercoledì 28 novembre 2012

L'ENIGMA DI TURING




di Marco Tarozzi

Questa è la storia di un genio. Nato esattamente cent’anni fa, ma in incredibile anticipo sui tempi. Di uno studioso borderline, fuori dagli schemi, capace di guizzi inarrivabili e di dolorose solitudini. Di un visionario guidato dalla logica che ebbe chiaro, tra le mani, in mente, il concetto di computer molto tempo prima che diventasse realtà. Di un uomo solitario per scelta e alla fine emarginato dalla società, perseguitato dal suo stesso Paese a cui aveva reso un servizio che gli avrebbe dovuto valere riconoscenza eterna. Questa è (anche) la storia di un maratoneta. Per passione, per convinzione. Non un amatore della domenica: un uomo di scienza avvolto da progetti e impegni ma capace, nel 1947, di correre la sua seconda maratona in 2:46:03 e di coltivare un sogno olimpico, che avrebbe potuto trasformarsi in realtà se proprio nell’anno dei Giochi di Londra, quelli del ritorno alla normalità dopo le devastazioni della guerra, non fossero insorti problemi fisici che deviarono nuovamente la gran parte delle sue forze verso la ricerca scientifica.

Questa è la storia di Alan Mathison Turing. Il padre riconosciuto del computer. Un uomo che ci ha cambiato la vita. Talento puro, unico. Diverso. Un secolo dopo, è più fresca e viva che mai.


IN ANTICIPO SUI TEMPI
 
Alan Turing era un matematico. Uno dei più grandi del suo tempo. Ma per qualcuno doveva apparire quasi un visionario, quando nella primavera del 1936 si entusiasmava per quell’idea così rivoluzionaria che avrebbe aperto la strada al mondo moderno e alle sue conquiste cibernetiche: immaginava, Turing, che le macchine potessero pensare.

Lo scrisse, giovane ricercatore al King’s College di Cambridge dove era diventato fellow, dottorando, appena due anni prima, in un articolo che scosse la comunità scientifica internazionale. E inseguì per tutta la sua vita, breve e travagliata, quell’intuizione, lasciandoci in eredità con gli studi sulla “macchina di Turing” il moderno concetto di computer, così come lo intendiamo oggi.

Alan Turing era un uomo schivo, eccentrico. Un genio che stupiva senza volerlo, e talvolta imbarazzava. Come quando si presentava a lezione in pigiama, e comunque sempre trasandato e trasognato. O come quando andava a giocare a tennis coperto soltanto da un impermeabile. Comportamenti che all’inizio avevano addirittura spiazzato i suoi stessi insegnanti: prima del King’s College, ai tempi del liceo, quando la pulsione per le materie scientifiche era tale da fargli quasi dimenticare l’importanza di quelle letterarie, il preside della scuola in cui si diplomò arrivò a scrivere che era “il tipo di ragazzo condannato a rappresentare un problema in ogni tipo di scuola e comunità”.

Era strano, Turing. Non sempre decifrabile. Ma aveva addosso una pulsione per la libertà che lo portò a diventare un eroe di guerra, seppure dietro le quinte. Durante il dottorato di ricerca alla prestigiosa università di Princeton, guadagnato grazie alla sua intuizione, vedeva passare per i corridoi mostri sacri come Einstein, Von Neumann, Church, Weyl. Ma la maggior parte del tempo preferiva passarla chiuso nella sua stanza, a perfezionare una nuova e misteriosa macchinetta che avrebbe contribuito in maniera determinante, di lì a qualche anno, a cambiare le sorti della guerra e a spazzare via la minaccia del nazismo. Negli States, Turing sviluppò una passione e un’avversione: la prima nei confronti dei codici segreti da decrittare, la seconda verso il nazismo, che con lugimiranza considerava un crimine per l’umanità. Tornato in patria nel 1938, offrì il suo genio alla Government Code and Chiper School che stava battendosi per evitare al mondo di andare verso la catastrofe. Il problema da risolvere si chiamava Enigma: all’apparenza un’innocua macchina da scrivere, nata per scopi tutt’altro che bellici e fatta propria dai servizi segreti tedeschi perché permetteva alle forze dell’Asse di scambiarsi messaggi cifrati che nessuno avrebbe potuto comprendere e tradurre. Miliardi e miliardi di combinazioni: un’impresa impossibile.

 
UN EROE PERSEGUITATO

Per tutti, pensavano i tedeschi. Che non conoscevano Alan Turing. Con i suoi collaboratori, chiuso in una villetta di Bletchey Park, a un’ottantina di chilometri da Londra, partecipò alla più grande impresa di spionaggio della storia: costruì prima la “Bomba”, che già nel ’40 leggeva tutto il traffico segreto della Lutwaffe, poi un enorme colosso elettromeccanico chiamato “Colossus”, che nel ’43 fece prendere al conflitto mondiale una piega diversa, snidando soprattutto i “branchi di lupi”, i terribili sottomarini che tenevano sotto scacco le imbarcazioni alleate. Alla fine della guerra gli fu conferito l’Ordine dell’Impero Britannico in gran segreto, come segreta era stata la sua missione. Che Turing fosse stato un eroe la gente l’avrebbe saputo soltanto trent’anni dopo. E quel suo lavoro decisivo per le sorti del mondo occidentale non gli rese la vita più facile. Né gliela salvò.

Alan Turing era omosessuale. In un Paese, l’Inghilterra, che nel dopoguerra faceva ancora rispettare le stesse leggi che avevano portato in carcere Oscar Wilde. Lui ci finì dentro per un banale incidente: dopo aver denunciato due ladruncoli che erano entrati in casa sua, saltò fuori che con uno di loro aveva avuto rapporti sessuali. Fu imprigionato il 31 marzo 1952 per “atti osceni gravi” e solo il suo status di insigne scienziato e di eroe di guerra gli evitò il carcere duro. In cambio, dovette assoggettarsi a un trattamento ormonale che lo avrebbe reso impotente. Un “bombardamento” che ne minò le capacità fisiche e quelle mentali, mandandolo in depressione. Stanco, vessato dai pregiudizi e controllato dai servizi segreti, perché il suo passato al servizio dell’Inghilterra lo rendeva “scomodo” portatore di verità nascoste, Turing si isolò e preparò la propria uscita di scena. Teatrale, perché il teatro era sempre stata, fin dagli anni di studi a Cambridge, una passione. Amava la storia di Biancaneve, spesso si era fatto sorprendere mentre canticchiava il motivo della scena in cui la strega convince la principessa a mordere la mela. E decise di farla finita in quel modo: intingendo una mela nel cianuro e addentandola. Aveva quarantadue anni da compiere. Aveva fatto fare al mondo un cambio di marcia.

Anni dopo, qualcuno ha pensato che il logo scelto da Steve Jobs per la sua azienda destinata a diventare un’icona della modernità fosse un omaggio silenzioso ad Alan Turing. Storia o leggenda? Il guru di Apple, a quanto si dice, avvalorò la seconda ipotesi: “Non è vero, ma Dio, come vorrei che lo fosse”. A suo modo, comunque un omaggio.
 
 

 UN CUORE DA RUNNER

Alan Turing, infine, è stato un ottimo maratoneta. Per un breve periodo, ma mettendo nella corsa la stessa dedizione che metteva nelle sue ricerche, nei suoi progetti, nelle sue intuizioni. E scalando le graduatorie della specialità, in Inghilterra.

Aveva iniziato da ragazzo. Gli piaceva lo sport. Canottaggio, ciclismo, soprattutto corsa. Aveva praticato il running con buoni risultati, a Sherbourne, di solito quando il maltempo costringeva a cancellare le partite di calcio. Poi aveva abbandonato durante gli anni universitari a Cambridge, riprendendo con convinzione dopo la laurea. Uno dei suoi territori d’allenamento abituali era la strada che portava da Cambridge ad Ely, una cinquantina di chilometri tra andata e ritorno. Roba da maratoneti, appunto.

Bletchey, dimora da lui stesso definita “terrificante” e “orrenda”, non doveva essere il luogo adatto per tenere acceso il fuoco della passione. Ma nell’immediato dopoguerra Alan approdò al National Phisical Laboratory, dove con i mezzi messigli a disposizione si dedicò per qualche anno alla costruzione della sua macchina universale progettando un vero e proprio computer, l’Ace (Automatic Computer Engine). Ma i tempi di Bletchey Park erano ormai finiti, e Turing trovò intorno a sé scarso interesse e ancor meno collaborazione.

Fu in quel tempo, stressato dal lavoro e deluso dall’indifferenza, che riprese a coltivare la passione per la corsa. E fu in quei luoghi che fu notato dai futuri compagni del Walton Athletic Club, una società che aveva sede a Walton, nel Surrey. Un sobborgo a sud-ovest di Londra, non lontano dal luogo di lavoro dello scienziato.

“Più che vederlo arrivare, lo sentivamo”, ricordava l’allora segretario della società, JF Harding. “Faceva un rumore terribile, una specie di grugnito, quando correva, ma prima ancora che potessimo rivolgergli la parola ci aveva raggiunto e superato come un proiettile. Così una sera gli chiedemmo per chi corresse, e quando sapemmo che non era tesserato lo invitammo ad unirsi a noi. Lo fece e divenne il nostro miglior runner”.

Il mensile “Athletic”, poi destinato a diventare “Athletics Weekly”, lo menziona per la prima volta nell’agosto del 1946, quando vince la gara sociale del Walton sulle tre miglia. In 15:37:8, tempo niente male per un atleta trentaquattrenne praticamente debuttante, perché alle prime vere sfide con il cronometro. A fine ottobre Turing rispunta con un terzo posto, sempre nelle tre miglia, durante una sfida Walton-Thames Valley-Harriers Woodford Green a Cranford, a soli sei secondi dal vincitore Alec Olney, di dieci anni più giovane, destinato a correre i 5000 metri alle Olimpiadi di Londra.

Poi un autunno e un inverno passati a raccogliere buoni piazzamenti, improvvisamente riconosciuto dalla rivista “Athletic” che spiega che l’atleta del Walton è “lo stesso dottor Turing che ha creato la “macchina che pensa”.

“Non avevamo idea di chi fosse quando lo invitammo nella società, né di che grande uomo si trattasse. Non lo realizzammo finché non saltò fuori la faccenda di Enigma. E non sapevamo dove lavorasse, fino al giorno in cui ci chiese se i ragazzi di Walton avessero voglia di giocare una partita di calcio con quelli del National Phisical Laboratory. Era molto amato dai ragazzi, un leader silenzioso perché comunque non era uno di loro. Ma la volta che affrontammo la nostra prima trasferta a Nijmgen, in Olanda, e lui era impossibilitato a venire, mi consegnò cinque sterline, all’epoca una bella somma, dicendomi di comprare ai ragazzi qualcosa da bere da parte sua”.

 
UN MARATONETA SPECIALE

Nel 1947 Turing allunga decisamente le distanze. Secondo alle spalle di Peter Dainty, ufficiale della Raf ed atleta di spessore internazionale prima della guerra, in una gara di dieci miglia organizzata dal suo club ad aprile; terzo a maggio in una 20 miglia a Kent, a circa quattro minuti dal vincitore Ron Marley.

Già sta progettando, alla sua maniera, da logico matematico, il debutto in maratona. Che arriva il 12 luglio a Rugby: quarto posto in 3:01:23 nella gara vinta dal gallese Tommy Richards, futuro argento olimpico un anno dopo, in 2:43:03.

A fine agosto, a Loughborough, è in prima fila alla partenza della maratona valida per il titolo nazionale, dove finisce quinto migliorandosi di oltre un quarto d’ora, con il fantastico tempo di 2:46:03. La vittoria va a Jack Holden degli Harriers Tipton, anche lui destinato a correre la 42 chilometri olimpica nel 1948.

Per farla semplice: con un risultato per quei tempi fantastico, Turing è uno dei nomi che circolano per la squadra di maratona delle Olimpiadi della rinascita. A fine anno nelle graduatorie AAA compilate da Jack Crump, dirigente della British Amateur Athletic, il nome di Alan Turing è al nono posto. Fuori di un soffio dalla lista provvisoria dei “probabili olimpici”.

Ad aprile dell’anno olimpico, Alan corre la 15 miglia di Wigmore e chiude a nove minuti dal vincitore. Ma non torna ad affrontare una 42 chilometri, anche per sopravvenuti problemi fisici, e questo di fatto gli pregiudica una eventuale chiamata olimpica: nella lista degli “osservati speciali”, nei mesi di vigilia dell’evento, era finito comunque anche lui. E a Londra il tempo del vincitore, l’outsider argentino Delfo Cabrera, sarà appena undici minuti inferiore a quello di Turing. L’idea è che un runner che alla sua seconda maratona corre in 2:46:03 abbia notevoli margini di miglioramento. Nel caso di Turing l’età poteva essere un handicap, ma la determinazione era enorme: “un giorno gli chiesi perché si allenasse così duramente”, è sempre il ricordo di Harding, dirigente del Walton Athletic Club. “Mi rispose: ho un lavoro stressante, l’unico modo per non pensarci e liberare la mente è lavorare duro anche in campo”.

 

 
DAL SOGNO ALL’INCUBO

Alan Turing avrebbe continuato a gareggiare fino al 1950. A ritmi meno esasperati, perché gli infortunii (dovuti anche ad uno stile di corsa parecchio dispendioso) non lo avrebbero mai più abbandonato del tutto. Chiuse con la corsa dopo aver dato tutto, trasmettendo nel gesto sportivo le sue caratteristiche vitali: logica rigorosa, attenzione ai dettagli, capacità di costruire e portare avanti un progetto vedendone l’approdo, ma anche colpi di genio improvvisi che spiazzavano interlocutori e, in gara, avversari.

Finita la parentesi atletica, Alan sprofondò nella vergogna indotta da un’Inghilterra puritana e pronta a puntare il dito contro il diverso. A questa gogna non si sottrasse, nonostante non avesse mai ostentato la sua scelta.

“Noi della squadra non sapevamo che fosse gay. Nessun sentore, lui non lo lasciava trasparire. In spogliatoio c’erano sempre una trentina di giovani, lui non ne ha mai avvicinato uno, mai nemmeno invitato uno di noi a bere un drink. L’unica cosa che avrebbe potuto insospettirci fu un’uscita di gruppo nella quale andammo tutti insieme al teatro Prince of Wales. Era pieno di ballerine, e tutti i ragazzi avevano lo sguardo fuori dalle orbite e una certa agitazione addosso. Mi voltai verso Alan e vidi che stava dormendo…”

Sarebbe una storia divertente, per colorare un lieto fine. Invece quei tempi spensierati e felici della corsa erano già un ricordo appena due anni dopo, quando l’uomo che aveva salvato l’Occidente e aperto la coscienza della gente lottava contro l’oscurantismo, conosceva la prigione, accettava un trattamento micidiale che ne avrebbe vinto il carattere forte.

Alan Turing aveva ancora molto da dare. Negli ultimi tempi aveva allargato la sua ricerca a studi di neurologia, fisiologia e biologia. Era convinto che entro il 2000 i computer avrebbero potuto replicare completamente il funzionamento del cervello umano. Aveva un passo mentale che lo faceva vivere in vantaggio sui tempi. Ma fu punito per quel suo essere diverso, perché la sua nazione viaggiava, al contrario, molto indietro rispetto ai suoi tempi. Proprio quest’anno, in occasione del centenario della nascita, il primo ministro inglese Cameron gli ha rivolto le scuse ufficiali dell’intero Paese. Ma lui non c’è più da tempo. Per scelta o, come dicono certe teorie del complotto, per decisione di altri, perché certi segreti dei tempi della guerra avrebbero potuto accendergli un desiderio di vendetta. Per dirla semplice: qualcuno vede un omicidio dove è stato registrato un suicidio.

Ma ormai sono passati troppi anni da quel morso alla mela e da quella fine tragica. Noi sappiamo solo che in un giorno di giugno del ’54 se ne andò una delle più grandi menti del Ventesimo secolo. Avrebbe compiuto 42 anni pochi giorni dopo. Quarantadue. Come i chilometri di una maratona.
 
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QUEL TEST CHE ISPIRO’ BLADE RUNNER
Della grande eredità che Alan Turing ha lasciato all’umanità, esplorando il campo delle intelligenze artificiali, la più nota è certamente il test che porta il suo nome. Il “test di Turing” apparve nel 1950 sulla rivista Mind, stabilendo un criterio preciso per stabilire se una qualsiasi macchina potesse essere definita “pensante”. L’idea è semplice e perfetta: tre persone, in tre diverse stanze; le prime due (A e B) sono un uomo e una donna, la terza (che chiameremo C) è lì per stabilire, attraverso risposte dattiloscritte, chi delle altre sia l’uomo e chi la donna. In un secondo esperimento, una delle prime due persone viene sostituita da una macchina: se le conclusioni di C sono statisticamente identiche a quelle della situazione precedente, significa che la macchina può essere considerata “pensante”.
Ad oggi, nessuna macchina ha superato in maniera esauriente il “test di Turing”, che nel tempo è stato modificato e aggiornato. Ma l’idea resta piena di fascino, e c’è chi l’ha usata anche nella finzione cinematografica. Dice niente l’interrogatorio, fatto di domande apparentemente banali, cui il replicante Leon Kowalski (impersonato dall’attore Brion Howard James) viene sottoposto da Rick Deckard (Harrison Ford) che vuole capire se si tratti di un uomo o di un robot, nel film-culto Blade Runner di Ridley Scott? Non c’è tanto delle idee di Turing in quella scena?
 
Runner's World, novembre 2012

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