Marco Tarozzi
Quando gli spiegarono che il suo
non era un cuore adatto alla corsa, Clarence
DeMar pensò che la vita è davvero strana, pronta a toglierti quello che ti
ha appena dato. Ma come, proprio a lui che a ventidue anni aveva appena mostrato
il proprio talento, debuttando alla Boston Marathon con un secondo posto alle
spalle del canadese Fred Cameron? Proprio a lui che aveva iniziato a correre
ancora bambino, a sette anni appena, per andare e tornare da scuola? Sì,
proprio a lui. Destino maledetto.
Era il 1910, e quel medico era
stato chiaro: soffio al cuore, percepito dopo un controllo di routine. Il
consiglio? Fermarsi, per non prendere rischi inutili. Solo che per Clarence la
corsa era molto più che uno svago. Era passione, vita. E un anno dopo, con
tutti quei dubbi nella testa, decise di ripresentarsi al via di quella maratona
di cui si era innamorato, e sulla linea di partenza i medici della corsa, che
conoscevano la situazione, gli ricordarono che in caso di affaticamento avrebbe
dovuto ritirarsi immediatamente, e quasi certamente rinunciare a qualunque
altro sforzo in futuro.
La risposta fu limpida. Clarence
DeMar fu il vincitore dell’edizione 1911 della Boston Marathon, per di più col
record della gara, 2:21:39. E fu soltanto l’inizio. In diciannove anni, l’avrebbe
vinta sette volte in tutto. Un record che nessuno, dopo, avrebbe più neppure
sfiorato. E quella corsa, la “sua” corsa, l’avrebbe chiusa da “finisher” in
tutto trentanove volte. L’ultima nel 1953, a sessantacinque anni.
DI
CORSA CONTRO IL DESTINO
Clarence era nato a Madeira,
Ohio, da una famiglia che aveva attraversato l’oceano. Origini francotedesche.
Aveva otto anni quando il padre gli morì davanti agli occhi, e presto fu
costretto a improvvisarsi venditore ambulante nei paesi vicini, per dare una
mano a mamma che in qualche modo sfamava lui e cinque fratelli più piccoli. Far
visita ai clienti gli servì per coltivare ancora quella passione per la corsa.
Da una casa all’altra, da un paese all’altro. Tutti i giorni, per tutto l’anno.
A dieci anni si spostò ad Est con
la famiglia, e venne ammesso alla Farm & Trades School, scuola per ragazzi
indigenti sulla Thompson Island, di fronte al porto di Boston. Lavorava duro e
trovava sempre e comunque il modo di ritagliarsi uno spazio per la corsa. Si
trovò separato dalla famiglia, imparò a fare della solitudine una forma di
forza interiore. Aveva fegato e tenacia, non accettava il destino senza
combattere.
Aveva iniziato a gareggiare nel
cross ai tempi del college, ma preferì interrompere il suo sogno quando trovò
un lavoro da apprendista in una tipografia. Imparava un mestiere, aiutava la
famiglia e per dar sfogo alla passione gli bastava allenarsi alla vecchia
maniera: avanti e indietro dal posto di lavoro. Era tutto lì il suo programma
di allenamento, giorno dopo giorno.
Intanto studiava di notte,
frequentava scuole serali. Ottenne la laurea di primo grado alla Harvard
University, frequentò con successo un corso post-laurea alla Boston University.
Nel frattempo, Boston aveva imparato a conoscerlo. Con quelle due fiammate
nella maratona più antica del mondo: secondo nel 1910, al debutto, primo a
tempo di record nel 1911.
Dopo quel successo, Clarence era divento uno dei maratoneti più forti degli
Stati Uniti. E infatti andò a rappresentarli a Stoccolma, nel 1912. Un
viaggio-premio, per uno che non aveva frequentato scuole di corsa. Un
self-made-man che gareggiava nel più puro spirito dilettantistico. Finì con un
dodicesimo posto nella maratona olimpica, e poi con quel suo spirito libero che
non accettava compromessi parlò senza timori dei metodi dittatoriali con cui lo
staff della Nazionale di atletica controllava e decideva il metodo di
allenamento dei suoi uomini, affermando che avevano danneggiato la squadra. Non
si preoccupò delle conseguenze, anche perché subito dopo le Olimpiadi troncò di
netto la sua carriera atletica e sparì da tutti i radar, e dai taccuini degli
esperti.
La sua tenacia, in quel momento,
lo convinse a mettere davanti a tutto lo studio. Nel 1915 mentre lavorava in
una tipografia a Boston, riuscì a laurearsi in discipline umanistiche ad
Harvard.
La storia del DeMar maratoneta
avrebbe anche potuto chiudersi così: una vittoria a Boston, una partecipazione
alle Olimpiadi. Nemmeno poco, a pensarci.
IL
RITORNO DEL CAMPIONE
Invece, ecco tornare fuori tutta
la passione. Sul finire della prima guerra mondiale, e per di più in Europa. Quando
Clarence arrivò a St. Armand, in Francia, non si sparava più. Era il 1919, di
lì a poco fu trasferito a Coblenza, in Germania. E finalmente potè riprendere a
dedicarsi alla corsa. Gareggiò ai trials per i Giochi Interalleati, tra le
forze che avevano vinto la guerra. Finì quarto nei 10mila metri, si qualificò
per la squadra americana senza partecipare all’atto finale della manifestazione.
Ma la fiamma era riaccesa.
Rientrò in patria, riprese ad
allenarsi con regolarità, ma per il grande ritorno attese ancora qualche anno.
Era il 1922 quando si ripresentò
sulle strade della gara più amata. La Boston Marathon. Erano passati undici
anni da quella prima vittoria, in mezzo c’era stata una guerra. Ma Clarence era
carico a mille, affamato di corsa e di gloria. Vinse in 2:18:10, nuovo primato
della gara. “Mister DeMar-athon” era tornato
davvero a casa, e nessuno avrebbe più potuto fermarlo.
Aveva trentaquattro anni,
Clarence. “Ormai”, verrebbe da dire. Non fosse che per lui la leggenda stava appena
iniziando. Insieme ai suoi anni più fecondi da runner. Tornò a Boston nel 1923
e vinse ancora. Nel 1924 sulle strade che portano tradizionalmente da Hopkinton
a Copley Square andarono in scena gli US Trials, e ancora una volta DeMar non
lasciò scampo agli avversari. Nessuno aveva mai trionfato in quella classica
tre volte di seguito. Così il Boston Globe raccontò, il giorno dopo la sua
vittoria: “Non riusciva a contenersi
nella sua azione, e all’altezza di Beacon Street non aveva più nessuno accanto,
o nelle vicinanze, se non un cane uscito di corsa da un cortile che lo
accompagnava nella sua corsa vincente… Non poteva essere battuto e la domanda a
quel punto era in quanto tempo avrebbe terminato. Ha chiuso in mezzo a un tifo
selvaggio, nel sensazionale tempo di 2 ore, 29 minuti, 40 secondi e un quinto… DeMar
si è assicurato un posto importante ai Giochi Olimpici di Parigi”.
Il campione tornò in Europa. A
Parigi lo aspettava la sua seconda Olimpiade. Questa volta, a trentasei anni,
era nel pieno della forma. Valeva il podio e andò a prenderselo in una giornata
talmente calda da costringere gli organizzatori a rinviare la partenza, e
parecchi atleti ad abbandonare la gara. Ebbe la meglio Albin Stenroos,
finlandese, in 2:41:22, tempo che la dice lunga sulle condizioni climatiche
affrontate dai concorrenti. L’italiano Romeo Bertini fu secondo in 2:47:19.
DeMar andò a prendersi il bronzo in 2:48:14, a meno di un minuto dall’azzurro.
Nell’Olimpiade di Paavo Nurmi, di Harold Abrahams ed Eric Liddell, anche lui
riuscì a trovare una medaglia e un momento di gloria.
A Boston tornava (e a lungo
sarebbe tornato) a raccogliere l’abbraccio della sua gente, senza più spezzare
il filo che lo legava alla grande corsa. Nel 1925, anno post olimpico, fu
secondo alle spalle di Charles Mellor. Poi, nei due anni seguenti, infilò una
serie di vittorie a Baltimora, Philadelphia, Port Chester, ancora Baltimora e
finalmente, nell’aprile del 1927, di nuovo Boston. Quinta vittoria, e la sesta
sarebbe arrivata l’anno successivo, ancora una volta a regalargli un posto alle
Olimpiadi. Ad Anversa, sua terza partecipazione ai Giochi, finì ventisettesimo
pagando una giornata di vento gelido e pioggia. E forse anche l’età, che ormai
si avvicinava ai quaranta.
IL RE
VETERANO
Qualcuno pensò che DeMar avesse
infilato il viale del tramonto. Qualcuno che non aveva fatto i conti con la sua
tempra d’acciaio. Certo, i tempi erano cambiati: Clarence si era sposato, era
diventato professore di tipografia e storia industriale alla Keene Normal
School, si occupava dell’educazione dei boy scouts di Camp Zakelo, sul Long
Lake, in Maine. Ma non aveva smesso di tenersi in condizione a modo suo. Ogni
settimana raggiungeva Keene, nel New Hampshire, correndo, camminando e facendo
l’autostop: ed era un viaggio da novanta miglia ogni volta…
Insomma, era ancora “Mr. DeMar-athon” quello che si presentò al via della Boston Marathon nel 1930. E alla bella età di quarantun’anni poteva ancora concedersi il lusso di vincerla. In 2:34:48, e per la settima volta. Nessuno aveva mai scritto il suo nome nell’albo d’oro a quell’età. Nessuno ci sarebbe mai riuscito dopo. Il modo migliore per consegnarsi alla storia.
Insomma, era ancora “Mr. DeMar-athon” quello che si presentò al via della Boston Marathon nel 1930. E alla bella età di quarantun’anni poteva ancora concedersi il lusso di vincerla. In 2:34:48, e per la settima volta. Nessuno aveva mai scritto il suo nome nell’albo d’oro a quell’età. Nessuno ci sarebbe mai riuscito dopo. Il modo migliore per consegnarsi alla storia.
E le famose disfunzioni? DeMar
morì nel 1958, settantenne, per un cancro allo stomaco. Cinque anni prima aveva
concluso la sua ultima Boston Marathon. Negli anni della gloria aveva aderito
alle ricerche harvardiane sugli effetti dell’allenamento e contribuì alla
comprensione della fenomenologia del cuore d’atleta. Il suo era più grosso
della norma, ma se nel 1911 gli consigliavano di fermarsi perché questo
sembrava deleterio, già negli anni Venti la differenza tra il cuore di un
atleta e quello di un sedentario era chiara. Il cuore di Clarence era qualcosa
di più: batteva nel petto di un Campione.
RUNNER'S WORLD - "THE STORYTELLER" - marzo 2017