di Marco Tarozzi
“Essere
il numero due non mi basta. Ai prossimi Giochi olimpici, farò di tutto per
diventare il numero uno”. Ivo
Van Damme assomigliava anche in questo, nel coraggio un po’ guascone delle
intenzioni e delle dichiarazioni, a quel talento d’oltreoceano che tutti
chiamavano Pre. Nessuno immaginava
che il destino avrebbe presto accomunato lui e Steve Roland Prefontaine nella
tragedia più assurda, quella che toglie la linfa vitale a chi è nel pieno delle
forze e sta guardando con mille certezze al futuro. Aveva stile e carattere,
quel ragazzo di Bruxelles che in pochi anni era entrato di forza tra i grandi
dell’atletica in pista. Aveva carisma, e non gli mancava il fisico del ruolo.
Alto, capelli lunghi e biondi, barba che lo faceva sembrare un veterano di
mille battaglie. Una bella faccia da attore, una determinazione quasi feroce,
una capacità inusuale – per un ragazzo della sua età, appena ventidue anni – di
interpretare al meglio la gara. Due medaglie d’argento alle Olimpiadi di
Montreal gli avevano srotolato davanti un radioso avvenire. Almeno così
pensavano tutti, in quei giorni felici di fine luglio del 1976.
Alla corsa, Ivo era arrivato tardi. Nato nel 1954, figlio
di un poliziotto, prima ci aveva provato con il calcio, sognando come tanti
coetanei di indossare un giorno la maglia dell’Anderlecht, la squadra più
blasonata del Belgio. Aveva fatto la trafila delle giovanili, immaginava un
futuro da professionista. Ma le cose dovevano andare diversamente: una frattura
al braccio, poi il trasferimento per il lavoro del padre a Veltem-Beisem, piccolo
borgo del Brabante fiammingo a un quarto d’ora d’auto dal capoluogo Leuven, gli
cambiarono le prospettive. A diciassette anni, con la passione per la pratica
sportiva ancora viva, Van Damme bussava alla porta del Daring Club di Leuven, e
pochi mesi dopo la fiamma bruciava già intensamente. Subito in pista,
inizialmente a cimentarsi sulle distanze dei 1500 e dei 3000 metri, di lì a
poco a prendere confidenza con gli 800 metri, inaspettata e piacevole scoperta
anche per lui. 2’07”20 alla prima uscita ufficiale, già diciottenne, un
miglioramento di cinque secondi al secondo tentativo. E nel 1973, a diciannove
anni, i primi risultati davvero significativi: per iniziare il quarto posto,
sempre sugli 800, agli Europei juniores di Duisburg, alle spalle di Steve
Ovett, Willi Wülbeck ed Erwin Gohlke; poi, dopo un anno tribolato a causa di
una forma di mononucleosi, il secondo posto agli Europei indoor di Katowice,
dietro al tedesco dell’Est Gerhard Stolle, ma demolendo un record storico per
l’atletica belga, quello di Roger Moens, che resisteva da vent’anni. E nel
1976, anno olimpico, la prima medaglia d’oro internazionale, ancora una volta
agli Europei indoor, terreno amatissimo, e ancora una volta sugli 800 metri,
col tempo di 1’49”2. A cinque mesi dall’appuntamento olimpico, un biglietto da
visita prestigioso.
I
GIORNI DELLA GLORIA – Nonostante quella medaglia pesantissima,
Ivo è ancora fuori dai radar degli addetti ai lavori quando si presenta a
Montreal. Buon specialista, certo, ma ancora giovane e certamente non
accreditato come altri. Mancano i talenti d’Africa, bloccati in patria dal
primo boicottaggio della storia olimpica: per protesta contro la Nuova Zelanda,
la cui Nazionale di rugby aveva compiuto una trasferta in Sudafrica,
infrangendo il veto sportivo in atto a causa della politica di “apartheid”
della nazione ospitante, in Canada non si presentano ventisette paesi africani,
uno asiatico (l’Iraq) e uno americano (la Guyana). All’appello mancano campioni
come i kenianI Mike Boit e John Kipkurgat, specialisti degli 800 metri, o come
il tanzaniano Filbert Bayi, primatista mondiale dei 1500. Ma la concorrenza è
comunque nutrita. Il favorito nel doppio giro di pista e lo statunitense Rick
Wohluther, medaglia d’argento sulla distanza a Monaco nel 1972 e detentore
della miglior prestazione stagionale. Il cubano Alberto Juantorena,
favoritissimo nei 400, è una specie di incognita che dà comunque affidamento,
avendo già segnato il secondo miglior risultato mondiale dell’anno. E ci sono
Clement, Wullbeck, Steve Ovett che ha addirittura un anno meno di Van Damme.
Ivo è sicuro di sé, lo dimostra già nelle batterie,
vincendo la sua in 1’47”80, e soprattutto in semifinale, dove si piazza immediatamente
alle spalle di Juantorena in 1’46”00, a dodici centesimi dal tempo fatto
registrare dal cubano. Approda alla finale non più da carneade, tra i giornalisti accreditati più d’uno inizia a tenerlo
d’occhio. Così come lo controllano i colleghi in pista, perché il ragazzo
mostra di saper leggere la gara come pochi. In finale, “El Caballo” Juantorena impone un ritmo elevato, Wohlhuter rimane
incollato mentre Ivo sceglie una tattica più accorta, che pagherà nel finale:
sul rettilineo conclusivo, il belga riprende e supera lo statunitense e va a
prendersi la medaglia d’argento, chiudendo in 1’43”86. “Per battermi, bisogna correre a ritmo di record del mondo”, aveva
confidato Van Damme, ricordando anche in questo le dichiarazioni di Prefontaine
alla vigilia del 5000 di Monaco. E aveva ragione da vendere: Juantorena ha
viaggiato in 1’43”50, nuovo primato mondiale, e quello di Ivo è il terzo crono
di tutti i tempi, subito dietro al leggendario 1’43”7 fissato all’Arena di
Milano da Marcello Fiasconaro nel 1973.
DUE
VOLTE SUL PODIO – Pochi giorni dopo, Van Damme si rimette in
gioco nei 1500 metri. Cinque batterie, e il giovane belga, ormai tutt’altro che
sconosciuto, supera il turno agevolmente finendo secondo nella sua, alle spalle
del tedesco occidentale Wellmann, spalla a spalla con Wohlhuther. Su questo
terreno, il grande favorito è il neozelandese John Walker, ma nelle
eliminatorie brillano anche i talenti di Ovett, di Wessinghage, bronzo agli
Europei, dei britannici Clement e Moorcroft, dell’irlandese Coghlan,
dell’australiano Crouch e di un insolito (su questa distanza) Fernando Mamede.
Due semifinali estremamente tattiche portano tutti i migliori all’atto finale,
che si sviluppa con una gara in cui i tatticismi si sprecano. Dunque
lentissima, anche quando a tirare il gruppo dei nove finalisti va Coghlan, e
pronta ad accendersi all’ultimo giro. Van Damme si muove da atleta navigato,
quando Coghlan aumenta il ritmo portandosi dietro Walker, sul rettilineo
opposto a quello del traguardo, è perfettamente posizionato. Ma quando tocca a
lui, resta per qualche attimo chiuso da Graham Crouch. Sono le frazioni di
secondo che permettono a Walker di creare il “buco”. Nell’ultimo rettilineo, il
belga risale infilando Wohlhuter, ormai spento, e Coghlan, ma non basta ad agguantare
il neozelandese. Sul traguardo ci sono 48 centesimi di secondo tra il vincitore
ed il quinto classificato, Clement. Van Damme si piazza alle spalle di Walker,
con un distacco di appena dieci centesimi. E porta a casa da Montreal la sua
seconda medaglia d’argento.
IL
FINALE SBAGLIATO – Al rientro in patria, Ivo è l’eroe del
momento. Addosso gli resta quel filo di malinconia che prende chi sa di essere
stato a un passo dal trionfo, e le sue parole non nascondono quel senso di
incompiutezza. “Tra quattro anni, sarò il
numero uno”, assicura. Non un proclama, niente parole gridate. Solo una
certezza da coltivare. Si gode il momento, comunque: a ventidue anni, sa di
avere fatto qualcosa di grande. Tutta benzina per ripartire con ancora più
energia, con nuove motivazioni.
Ma c’è quel maledetto destino, in agguato. Ivo corre
ancora da protagonista, negli 800 stampa un 1’44”02 a Zurigo e un 1’44”09 a
Colonia, risultati in fotocopia che parlano di un atleta in piena condizione,
padrone delle proprie sensazioni, maturo come pochi lo sarebbero a quell’età. E’
pienamente soddisfatto di questa annata da favola, quando si sposta a Marsiglia
per uno stage di allenamento invernale. E’ passato da poco Natale, quando
arriva il “rompete le righe”. Il 29 dicembre, Ivo si infila in auto per tornare
a casa. Ha la testa piena di pensieri positivi. Nella stagione che verrà lo
attende la prima edizione della Coppa del Mondo, a Dusseldorf, nel 1978 a Praga
ci saranno gli Europei. Soprattutto, pensa ad un futuro da costruire fuori
dalle piste: a casa lo attende Rita Thijs, la sua fidanzata. C’era anche lei, a
Montreal, condivide la passione e i sacrifici del suo uomo. Nel 1975 è stata
campionessa del Belgio degli 800, e medaglia d’argento agli Europei juniores.
Hanno deciso, Ivo e Rita: il 1977 sarà l’anno giusto per mettere su famiglia.
Li attende un matrimonio da campioni.
Belle sensazioni. Frantumate in poche frazioni di secondo
all’altezza di Orange, nel Midi, in quella sera del 29 dicembre. Uno schianto
frontale che non lascia scampo, né tempo per pensare. A poche ore da un nuovo
anno che Ivo Van Damme non potrà mai vivere. Come per Prefontaine in Oregon,
toccherà agli amici, a quelli che ne ammiravano il talento, perpetrarne la
memoria. Un gruppo di giornalisti sportivi che aveva seguito la crescita
sportiva, testimoniandone la grandezza, inventerà il memorial che porta il suo
nome, e sarà Wilfried Meert, uno di loro, a farne uno degli appuntamenti
classici del calendario europeo e mondiale. Un modo per tenere accesa la
memoria, per ricordare un nome. Ma quello che avrebbe potuto fare negli anni a
venire Ivo Van Damme sulle piste di atletica, che ruolo certamente importante
avrebbe potuto recitare nel periodo del grande duello tra Seb Coe e Steve
Ovett, non lo sapremo mai. La storia e la vita hanno deciso di non regalarci
queste emozioni. E quando vogliono, sanno essere incredibilmente crudeli.
THE STORYTELLER - RUNNER'S WORLD ITALIA - gennaio 2018