di Marco Tarozzi
Ancora una volta, Bologna viaggia ad alta quota nella
storia e nella cronaca del baseball italiano. Ancora una volta la Fortitudo
gioca per l’albo d’oro e per il titolo. Allora, vale la pena ricordare le
origini di questa passione, e i campioni veri che l’hanno alimentata.
Ricordate Nando Mericoni, il personaggio caratterizzato
meravigliosamente da Alberto Sordi, con la sua ossessione per l’America, e quella
volontà ferrea crollata davanti a un piatto di pasta preparata dalla mamma? Beh,
a Bologna, a metà degli anni Sessanta, c’era un ragazzo che con mazza e
guantone se la cavava talmente bene da scomodarli lui, gli americani.
Non aveva ancora diciannove anni, Alberto Rinaldi, e giocava già da quattro, quando arrivò la chiamata
dei Cincinnati Reds, che gli apriva le porte del sacro mondo del baseball. Ed
erano altri tempi, in cui l’America non era esattamente a portata di mano, ed
era più facile sognarla.
LA GRINTA DI “TORO” - Andiamo con ordine. Il viaggio
comincia su un campo di periferia, con un salto indietro nel tempo. Fine anni
Cinquanta, per capirci. Alberto abita fuori porta Lame, alla Pescarola, praticamente
campagna. Di fronte a casa sua, la caserma delle Fiamme Oro, che hanno la
squadra di baseball e reclutano per il servizio di leva i migliori atleti
d'Italia. A sei anni quel ragazzino è già diventato la loro mascotte. Lo
chiamano “Torino”, e crescendo con l’età diventerà naturalmente “Toro”. Gli
basta attraversare il cortile ed è in campo. Gioca coi grandi, mai con i
ragazzi della sua età. Fa il tappabuchi di tutte le squadre, in tutti i ruoli.
Interno, seconda base, terza base, i posti in cui la palla corre velocissima.
Impara a non avere paura, in cortile gioca con i sassi. Impara da tutti, e da
solo. A sedici anni approda in Serie A, quasi senza accorgersene. Appena poco
tempo dopo, in Nazionale.
Ma nel destino di Toro Rinaldi c'è qualcosa di più
grande. Un'avventura da pioniere, nella terra dei maestri. Dici baseball, dici
America. Un talent-scout lo nota in Germania, a Ramstein, durante un raduno. Lo
porta negli States in tempi in cui l'America è andare in Piazzola a cercare
guantoni usati, niente di più. Non ci sono riviste specializzate, o
videocassette per capire il gioco e i suoi campioni. Fare quel viaggio è un po’
come andare sulla luna. Ma Toro ci mette la spregiudicatezza e l’entusiasmo dei
diciott’anni. Forse anche un po’ d'incoscienza.
LA SCOPERTA DELL’AMERICA - Accompagnato da
Giulio Glorioso, lanciatore in Italia già mito a quell'epoca, Alberto arriva a
Tampa, per lo springtraining dei Cincinnati Reds. Subito allenamento duro, tre
ore al mattino e altrettante nel pomeriggio. Un altro mondo: gioco più veloce,
prendi e vai, bisogna abituarsi in fretta. La nostalgia di casa? Non c’è
nemmeno il tempo, per pensare a casa. Qualche lettera ogni tanto e passa la
paura. Se mai c’è stata.
Toro Rinaldi ci passa un’intera stagione, negli Usa. E quando torna in Italia è un altro. Un campione
completo. Negli States gli hanno insegnato a battere, nella prima stagione dopo
il ritorno vince la classifica dei fuori campo nel campionato italiano. Tre
anni a Parma, ma nel destino c'è Bologna, la sua Bologna. E la Fortitudo, dove
ci sono tutti gli amici. Arriva nel 1969, vince subito lo scudetto.
“Dove c'erano tutti i miei amici. Non dico che vincemmo per merito mio, ma
certamente qualcosa cambiò nella mentalità. Fin lì, la squadra si era sempre
piazzata a metà classifica. Si vinceva, si perdeva, e il mondo non cambiava. A
me non stava bene. Per me vincere era la normalità, perdere mi faceva soffrire.
Lo so che ci sono altre priorità, che la vita è un'altra cosa. E infatti fuori
dal diamante sono una persona che si diverte, che sdrammatizza. Ma in campo ero
così, c'è poco da fare”.
Questione di mentalità. E se riesci a trasmetterla a un
gruppo, il gioco è fatto. Quattro scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa
Italia. La bacheca si riempie, la Fortitudo diventa una seconda casa per Toro. Ci
giocherà fino al 1981, continuerà da vice allenatore di Vic Luciani fino al
1985, tornerà da capoallenatore negli anni Novanta. E nel 2002 rinuncerà ad
allenare Rimini perché l’idea di arrivare ai playoff e trovarsi di fronte alla
sua Fortitudo lo fa dannatamente soffrire. Anche perché, il 14 luglio del 2000,
la Fortitudo ha consegnato Toro Rinaldi alla storia. Ritirando per sempre la
casacca con il numero 20. Il suo numero.
UN AMICO SPECIALE - Quel 14 luglio, la sera della festa, sugli spalti a
festeggiare Toro, in mezzo alla Bologna innamorata del baseball, c’è un amico
speciale. Si chiama Giacomo Bulgarelli.
Si sono conosciuti quando l’onorevole Giacomino era la stella del Bologna, e
Toro della fantastica Montenegro. Sono amici da allora, le famiglie si
frequentano, vacanze e serate vissute insieme, parlando di sport e di vita. Perché
poi, prima di giocare a pallone, anche Giacomo aveva corso sul diamante. Prima
base, a Casalecchio.
Da quando Giacomo se ne è andato, Alberto ha un sogno
ricorrente. Ce lo ha raccontato così: lui cammina solitario sotto i portici di
via Galliera, e a un certo punto da una specie di rimessa si affaccia l’amico
che non c’è più. “Non ti preoccupare,
Toro”, gli dice. “Io sono qui e sto
bene, dì a tutti che non siano tristi per me. Me la passo…”. Nei primi mesi
dell’assenza, il sogno arrivava regolare, quasi ogni notte. Ora forse succede
un po’ più di rado. Ma l’amicizia, quella vera, che va anche oltre l’assenza,
non si cancella mai. Si erano capiti subito, Toro e Giacomo. Perché avevano la
stessa passione per le cose che facevano, e un talento da coltivare. Niente
potrà cancellarli, quei momenti vissuti insieme. Nemmeno il destino, che ha
spento una leggenda lasciandone un’altra a ricordare. Da sola. Come ai tempi di
quel cortile alla Pescarola.
Più Stadio, dicembre 2019