E arrivò il giorno in cui un uomo degli altopiani d’Africa diventò re di maratona alle Olimpiadi. E successe proprio in Italia, in una meravigliosa notte romana, il 10 settembre 1960. Quel campione, l’etiope Abebe Bikila (cognome prima del nome, come impone ancora oggi la regola del suo Paese), ventottenne guardia del corpo personale dell’imperatore Hailé Selassié, tagliò il traguardo sotto l’arco di Costantino, lungo la via Appia, in uno scenario affascinante. Lo fece a piedi scalzi. Non una scelta tecnica, come spesso è stato tramandato. C’è di mezzo, ancora una volta, Adidas, fornitore tecnico di quell’edizione dei Giochi, che fornì le calzature al 75 per cento degli atleti in gara. Compreso Bikila, che però le trovò troppo strette: c’era il rischio che le vesciche potessero infrangere il sogno di un atleta che a Roma era approdato da riserva, e si trovò in gara per sostituire il connazionale Wakijera, campione nazionale, infortunatosi durante una partita di calcio.
Bikila non era un fanatico della corsa senza scarpe, come si disse poi.
Certamente l’aveva provata. L’ultima volta proprio pochi giorni prima di
partire per Roma, quando il suo allenatore, lo svedese Onni Niskanen, lo
sottopose a un test di 32 chilometri, chiuso in 1:42:36, alla media di 3’10” a
chilometro ad un’altitudine di duemila metri. Nessun dubbio, dunque: scarpe
strette, nessun altro modello disponibile, la gara della vita corsa a piedi
nudi. Motivo in più per passare alla storia.
(Marco Tarozzi - da “Scarpe e runner: che
storia!” - Runner’s World, settembre 2020)