Voglio riuscire a volare
nel cielo, molto in alto,
proprio come una libellula.
Voglio volare sugli alberi,
attraversare i mari ad ogni latitudine
fino a dove mi va.
(Lenny
Kravitz)
Vola
leggero, Alessandro.
Voglio riuscire a volare
nel cielo, molto in alto,
proprio come una libellula.
Voglio volare sugli alberi,
attraversare i mari ad ogni latitudine
fino a dove mi va.
(Lenny
Kravitz)
Vola
leggero, Alessandro.
“Fedullo racconta Arpad Weisz” è l’ultima opera dell’attore teatrale e scrittore salernitano Sergio Mari, che per sedici stagioni ha giocato a calcio da professionista. Anche nella Centese di Paolo Specchia
di Marco Tarozzi
Qualcuno, dalle parti di Cento, avrà alzato le antenne
vedendo circolare sui social la locandina del monologo “Fedullo racconta Arpad Weisz”, scritto e interpretato da Sergio
Mari, attore teatrale e scrittore salernitano; un’opera che racconta la storia
del grande allenatore del Bologna, uno dei giganti del calcio italiano,
tragicamente scomparso ad Auschwitz, da un’angolazione diversa e particolare.
Quel nome, Sergio Mari, avrà ricordato qualcosa a chi conosce la storia della
Centese. Perché è lo stesso di quel mediano di bel talento che arrivò alla
corte di Paolo Specchia nel 1986, e a cui solo un pesante infortunio negò la
possibilità di arrivare anche più in là. E in realtà l’attore teatrale di oggi
e il calciatore che ha vissuto sedici stagioni tra i professionisti sono la
stessa persona. Ed hanno (o meglio, ha) una splendida storia da raccontare.
ARRIVA
MARI..DONA. Salernitano, classe 1962, Sergio si affaccia al calcio
dei “grandi” nel 1979, in C1 con la Cavese, svezzato da un maestro come Corrado
Viciani. Nella stagione successiva è uno dei pilastri della promozione in Serie
B, dove giocherà due stagioni. Poi una stagione in Sicilia, all’Akragas, sotto
la guida di Franco Scoglio (che alla truppa gridava “guardate come fa le
diagonali Mari!”), altre due a Cava dei Tirreni, quindi dall’estate 1986 a
quella del 1988 l’esperienza in Emilia, allenato da Specchia e poi da Gian
Piero Ventura. Mediano concreto e affidabile, arriva a Cento e subito lo
ribattezzano “Mari…dona”, e a ventiquattro anni è nel mirino di squadre blasonate,
seppure non più ai vertici, come Bologna e Vicenza. La frattura al perone che
lo rallenta nella prima stagione (14 presenze, per uno che partiva titolare…)
gli comprometterà in qualche modo la carriera, che da lì in avanti resterà
confinata ai campi di C1.
“Ma mi resta un ricordo bellissimo dei
due anni a Cento, nonostante la tristezza per l’infortunio e la lunga
inattività nel primo. Tifosi speciali, ambiente giusto e Bologna e Ferrara a
due passi. Per uno come me, un richiamo. Ricordo la sera in cui chiesi a
Specchia di poter saltare, l’indomani, la rituale cena con gli scapoli della
squadra. A Ferrara c’era la prima di “Rosa Luxembourg” di Margarethe Von
Trotta, e la regista era presente per raccontare il proprio lavoro. Eravamo
tutti a tavola, i compagni mi guardarono come fossi un alieno appena sbarcato
sulla Terra…”
MIMO
A MEZZANOTTE. Perché Mari era questo: un atipico del
calcio. Per questo oggi, dopo l’evoluzione della sua personalità e di fronte al
nuovo mestiere, viene naturale accostarlo a personaggi come Ezio Vendrame,
Gianfranco Zigoni, Paolo Sollier, allo stesso Gigi Meroni che aveva dentro sé
un’anima da artista.
“Io però non avevo consapevolezza di
quello che sarei diventato. Forse lo capivano di più i compagni: anche oggi,
quando li rivedo, non mostrano stupore per la mia vita da attore, regista,
scrittore. Dicono che loro se lo immaginavano. Chissà cosa avrebbe detto
Specchia se avesse saputo che certe sere, quando a mezzanotte non ero nel mio
appartamento a Cento, non vagavo in cerca di avventure per le vie della grande
città, ma stavo in una sala dell’Antoniano a frequentare una scuola di mimo…”
LIBERTA’
E LIBRI. “Era la Bologna
delle osterie, della creatività, del Dams e di Andrea Pazienza, del salto in
stazione per andare a comprare Carlino e Stadio. Una città vitale, ma nella
quale potevi anche scomparire per ritrovarti. Come feci un pomeriggio, quando
ero fermo per via dell’infortunio. Entrai alla Feltrinelli, poi mi spostai su
una panchina di via Indipendenza e restai lì a leggere per due ore. Fu un
giorno pieno di tristezza, per i problemi fisici che mi affliggevano, ma allo
stesso tempo di assoluta libertà”.
VITA
NUOVA. Da quel mondo si è allontanato a fine carriera, dopo
aver provato ad aprire una scuola calcio per i giovani. “Ma le dinamiche erano lontane dal mio modo di affrontare la vita, non
mi ci trovavo più. Per dodici anni ho fatto il gallerista, ho lanciato artisti
e ho vissuto bene di quel mestiere. Poi sono salito su un palcoscenico, quasi
per caso. Mi è piaciuto, sono piaciuto. Allora mi sono messo a studiare, ho
visto tanti lavori teatrali, ho letto voracemente. Ho cercato di recuperare il
tempo perduto”.
E si è riconciliato col vecchio amore, perché le storie di pallone sono spesso
affascinanti.
“Con gli anni, mi sono reso conto che
l’armadio in cui avevo riposto i ricordi e che stava in un angolo del mio
cervello, andava riaperto. Le cose migliori, le persone belle che avevo
conosciuto, erano lì. Dal futuro non avevo avuto le stesse gioie del passato:
non è stato un gesto nostalgico, ma solo un recupero oggettivo, un
riconoscimento a quel mondo che mi aveva permesso di crescere, e a cui avevo dato
poca importanza quando ci stavo immerso”.
ARPAD
E FRANCISCO. Da quelle considerazioni arriva, tra le
altre, quell’opera teatrale che riporta sotto i riflettori il Bologna che
faceva tremare il mondo. Dove a raccontare Weisz, questa volta, è uno dei campioni
che lo hanno avuto come allenatore.
“Ho scoperto che i genitori di Francisco
Fedullo erano partiti dal centro di Salerno per andare in cerca di fortuna in
Uruguay. Praticamente, da casa mia. Da questo è nato un lavoro che parla del
rapporto franco tra due grandi personaggi dello sport e della vita. L’ho
portato nei teatri, nelle scuole, è stato visto da migliaia di studenti. In
tempi di lockdown, ho pensato di ricavarne anche un monologo di mezz’ora, interamente
girato in casa mia, dove interpreto entrambi i personaggi. Il calcio è un
veicolo perfetto su cui far viaggiare messaggi importanti, e farli arrivare
alle nuove generazioni. La fine di Weisz rappresenta la tragedia di un popolo,
un crimine che non bisogna mai dimenticare. Spero che anche questo mio lavoro
serva a coltivare il ricordo, e a condannarlo”.
TORNARE A VIVERE. Nella bacheca, come si dice spesso per i calciatori pluripremiati, Sergio ha diverse performance teatrali vissute da protagonista e spesso anche da regista e soggettista, due romanzi, un libro di racconti. Il progetto più prossimo è la storia di Giovanni Falcone pensata ancora per il teatro. “Per un teatro che finalmente torni ad aprire le sue porte. Perché in questi tempi difficili, a cui eravamo impreparati, la socialità è un’assenza che pesa. Abbiamo bisogno di tornare a sentirci vicini, capaci di condividere un’idea, un pensiero, una passione. Trasmettersi tutto questo, dal palcoscenico alla platea e viceversa, è un dono meraviglioso”.
(Più Stadio, Stadio-Corriere dello Sport, 15 aprile 2021)