Un vero amico non se ne va mai via per sempre.
di Marco Tarozzi
BOLOGNA
Pace in testa, fuoco nel cuore. Dove l’avevamo già
sentita, questa frase? Ma sì, è facile: in fondo sono passati appena due anni e
un mese, anche se tutto quello che è successo in mezzo, nello sport e nella
vita, allunga i tempi del ricordo.
Anversa, Final Four di Basketball Champions League. E subito la seconda
domanda, legittima: che c’entra, che senso ha tirare fuori l’ultima festa
europea il giorno dopo che la Virtus ha messo le mani sullo scudetto, dopo
vent’anni passati a ricordare (quasi sempre rimpiangere) il passato?
ANIMO
SERENO. Pace in testa, fuoco nel cuore. In quei giorni freddi
di una primavera che sembrava autunno, la Virtus cercava di ritrovare rispetto
e considerazione in Europa, ma non si affacciava a quell’atto finale da
favorita. Veniva da una stagione complicata, era fuori dai giochi per lo
scudetto, intorno sentiva venti di amarezza e delusione. Fu in quei momenti che
il timoniere, Sasha Djordjevic, si inventò quella frase memorabile. Non una
semplice boutade, ma una vera lezione
di vita ai suoi uomini. Per vincere serve un cuore grande, che non si inchiodi davanti
alle prime difficoltà, e contemporaneamente serve una testa liberata da tutti i
pensieri, una leggerezza da portare dentro al campo insieme alla fame
agonistica. In una parola, bisogna avere l’animo sereno.
Quelle parole cambiarono il corso degli eventi. E noi che eravamo lì, che
vivevamo la squadra ora dopo ora, intuimmo il cambiamento e ci lasciammo
coinvolgere. Si andava davvero tutti nella stessa direzione. Gli sguardi, le
parole spese con parsimonia e nei momenti giusti, la semplice voglia di essere
dentro a qualcosa di grande e meritato: tutto sembrava annunciare quel finale
che poi, puntualmente, arrivò.
GIOCO
DI SQUADRA. Come allora, certamente più di allora, anche questa
volta il viaggio non ha attraversato soltanto mari tranquilli. La pandemia ha
lasciato il segno anche qui, come nelle nostre vite che non saranno più le
stesse. Ha svuotato i palazzi del basket, ha frenato e accelerato i ritmi della
stagione, spesso stravolgendo il campionato, ha trasformato i campi amici in
campi neutri, annullando il fattore “casa” in molte occasioni. Il 7 dicembre,
dopo la sconfitta con Sassari, Sasha Djordjevic non era più l’allenatore della
Virtus. Come in un deja vu di storie accadute vent’anni prima, dopo un’altra
giornata movimentata era di nuovo al suo posto, con una certezza in più da
spendere: la squadra. Gli uomini in cui lui credeva e crede, credevano in lui.
GIORNI
DIFFICILI. Lo scudetto numero 16 è il capolavoro finale, ma nel
tragitto questo gruppo ha lasciato segni indelebili. Si può anche cadere in una
semifinale europea, ma farlo dopo diciannove vittorie in fila è un messaggio
chiaro, quello di una squadra e di una società che hanno ritrovato stima e
riconoscimenti anche a livello continentale. Djordjevic ne ha sentite tante,
camminando coi suoi ragazzi verso la sfida finale con Milano. I “social” a
volte sono una roba pessima, ce lo ricordava Umberto Eco. Nei bar dello sport
era diventato l’incompetente, quello che non reggeva più il timone, destinato a
farsi divorare in un playoff abitato da allenatori con il quadro comandi ben
piazzato davanti agli occhi. Lui ha reagito alla sua maniera: chiudendosi in
palestra con i suoi ragazzi e le sue certezze, restituendo alla squadra la
fiducia che dalla squadra ha sempre ricevuto. Liberando la testa e facendo
pompare il cuore.
LA
GENTE GIUSTA. Anche quando arrivò Teodosic, splendido
sforzo anche economico di una società che non si è tirata indietro pur di
tornare ai vertici, qualcuno azzardò che sì, d’accordo il campione e il
talento, ma l’età mica si può nascondere. Ma Djordjevic sapeva cosa chiedere a
Milos, lo conosceva bene da prima di tutti noi, e ha saputo convincerlo a
scegliere Bologna e la Virtus. E quell’arrivo ha aperto la strada a tutti
quelli che sono venuti dopo, perché anche in giro per il mondo agenti e
giocatori hanno capito che la Virtus stava tornando un porto felice.
Anche quando si è unito alla truppa Marco Belinelli, per chiudere
meravigliosamente il cerchio là dove tutto era iniziato, a qualcuno è scappato
un sorriso sentendolo affermare che “torno per vincere ancora, a casa mia”.
Djordjevic sapeva cosa poteva aspettarsi da un campione che non era tornato per
svernare.
Anche quando Alessandro Pajola è stato nominato Mvp della serie, protagonista
assoluto della finale, Djordjevic ha accennato un sorriso. Quel ragazzo che nel
2015 si sistemava il letto nella foresteria di via di Corticella ha saputo
incanalare il suo talento. Lo deve a gente come Alessandro Ramagli, che lo
gettò nella mischia sui parquet della Serie A2 (e a lui anche la Virtus deve
tanto, l’uscita dalle sabbie mobili che le ha permesso di riprendere il volo),
e come Alexsandar Djordjevic, che non ha paura di dargli le chiavi della
macchina nel momento più rovente. Chissà, magari è il nome di battesimo in comune
che fa legare tra loro le persone…
PAROLE
MAGICHE. Pace in testa, fuoco nel cuore. Vivendo il presente,
chiudendo nell’armadio un passato che qualche cicatrice deve pur averla
lasciata, senza farsi troppe domande su un futuro che è già alle porte. Non adesso,
non in questi attimi costruiti con passione e determinazione con un gruppo
fidato, che lo seguirebbe ovunque. Non adesso, che è il momento di festeggiare.
Perché la Virtus, insieme al suo popolo, è uscita di colpo dai suoi ricordi,
dalle sue nostalgie. Il passato, adesso lo sfoglierà senza rimpianti. Il
presente è tutta questa Italia dei canestri di nuovo ai suoi piedi. Come diceva
l’avvocato Porelli, “di scudetti basta vincerne uno ogni tre-quattro anni”.
Stavolta c’è voluto più tempo. E c’è voluto un manovratore che ha trovato la
formula in sei parole magiche.
(Più Stadio, Stadio-Corriere
dello Sport, 13 giugno 2021)