Ala sinistra rapida e imprevedibile, 130 reti in 294 partite con la maglia del Bologna che non lasciò mai. In Bologna-Inter del ’66 segnò di testa la rete iconica che beffò il grande Tarcisio Burgnich
di
Marco Tarozzi
BOLOGNA
Certi giorni sono tristi anche con il sole a picco. C’era un cielo limpido il 4 gennaio di cinque anni fa, quando se ne andò il grande Ezio. Uno che è stato qualcosa di speciale per questa città, per gli innamorati del Bologna e non solo per loro. Un nome che ancora oggi, quando arriva il momento di recitare a memoria la squadra dell’ultimo scudetto, arriva secco come una fucilata: Pascutti. Anche se il destino gli negò la gioia più grande, quella di calpestare l’erba dell’Olimpico il giorno dello spareggio. Ezio non c’era, quel pomeriggio del 7 giugno 1964, ma c’era stato e c’era, per tutti.
GOL LEGGENDARIO. Quando si dice il
destino. Cinque anni oggi che Ezio se ne è andato, e dopodomani è in cartellone
Bologna-Inter, la partita del suo gol più iconico. Un lampo anche quello, e per
fortuna quel 12 dicembre del ’66 a immortalarlo ci pensò un grande fotografo
come Maurizio Parenti.
Perché le foto fanno la storia più dei gesti, afferma Oliviero Toscani, e forse
anche Ezione sarebbe d’accordo. In fondo, quella zuccata di rapina, infilandosi
a sorpresa sotto il corpo di Burgnich ed eludendone il controllo, non lo ha mai
considerato il suo gol più bello. Se glielo chiedevi, lui senza esitazioni
sceglieva quello del 7 febbraio ’65, contro il Genoa, tra l’altro il centesimo
in maglia rossoblù: cross a rientrare,
dal fondo, di Maraschi, Ezio si tuffa al limite dell'area e infila il pallone
all'incrocio dei pali. Praticamente perfetto. Solo che quella volta non c’era
nessuno a fermare l’attimo.
SEMPRE IN ANTICIPO. Però in quel gol all’Inter c’è tutto Pascutti. Tutto quello che era in campo: rapido, inaspettato, imprevedibile. Sempre quell’attimo in anticipo su tutti. Tanto avanti che all’inizio sembrava quasi fuori tempo, e i tifosi ci misero un po’ a capire che razza di campione si era assicurato Dall’Ara. Anche perché la ricostruzione del presidente, dalla metà degli anni Cinquanta, non si fondò sulla rincorsa di campioni costosissimi e di nomi altisonanti, ma sulla capacità di arrivare per primo a scovare talenti in sboccio. Fu così per Pascutti, che arrivò a Bologna insieme a un altro talento fermato tragicamente dal destino, il centravanti Leskovic che morì giovanissimo prima di esordire in prima squadra. Fu così per Fogli, Tumburus, Pavinato, Furlanis, Perani. Quelli che poi avrebbero fatto l’impresa.
I CONSIGLI DI ENEA. Infanzia dura, di quelle che temprano. Papà falegname, mamma bidella. Due fratelli più grandi che la vita allontanò presto. Enea, il maggiore, era emigrato in Canada quando Ezio aveva undici anni. Tornò in tempo per vederlo calciatore professionista, per dargli consigli (“Impara a calciare di sinistro, ragazzino, che in Italia dopo Carapellese non è più nata un'ala sinistra degna di questo nome”). Ma un male vigliacco lo portò via a nemmeno quarant'anni. Paride invece era uscito sfibrato dalla guerra e dalla prigionia in Germania, l’ombra di quello che era. Ezio crebbe forgiando un carattere spigoloso, una rabbia che poi avrebbe riversato in campo buttandosi tra le gambe dei difensori, senza paura. Il coraggio di chi ha raggiunto un grande traguardo, ma sa che la vita ti dà e ti prende, senza preavviso.
Una volta compreso quel suo essere in anticipo su tutti, e la sua generosità, la piazza ne fece un idolo. Quello che segnava gol a raffica, e senza battere lo straccio di un rigore. Quello che ci metteva carattere e orgoglio, roba che a volte ti frega. A lui capitò in Nazionale, per esempio, con quell’espulsione del 13 ottobre del ’63, rimediata contro un mastino incattivito di nome Dubinski che gliene aveva fatte di tutti i colori, ma soprattutto contro l’Urss, a Mosca, il che fece di un fallo di reazione un caso politico, con tanto di interrogazione parlamentare. Una persecuzione da cui si salvò in qualche modo grazie all’amore protettivo dei bolognesi.
IL MONITO DI SCHIAVIO. E infatti non lo
piegarono la politica, le accuse della stampa o i fischi con cui a lungo venne
accolto in ogni stadio per quell’episodio. Semmai furono gli infortuni a fargli
dire basta, nell’estate del 1969. Dopo cinque operazioni alle ginocchia, che poi
lo avrebbero tormentato fino agli ultimi giorni. Ma anche con una storia da
eroe rossoblù alle spalle: lo scudetto del ’64, vissuto da protagonista anche
senza la soddisfazione dello spareggio, 130 reti segnate in 294 partite con la
maglia del Bologna. Quella che proprio nel 1966 avrebbe addirittura potuto
togliersi.
Dopo il maledetto Mondiale d’Inghilterra, Ezio stava per fare le valigie. In
ballo c’era una serie di scambi: Gigi Riva all’Inter, che poi lo avrebbe girato
al Bologna in cambio di Pascutti, una fissa di Helenio Herrera. Con l’affare
già ben avviato, arrivò la voce imperiosa del grande ex, Angelo Schiavio.
“Pascutti non si tocca”, consigliò alla dirigenza rossoblù. E Pascutti restò
dov’era.
LE STRADE DEL
CAMPIONE.
Avrebbe chiuso la carriera da professionista
strapagato, a Milano. L’ha chiusa da icona a Bologna, destinata a diventare la
sua città. Che gli ha dato, e a cui lui ha dato tanto. Che nel 2004 si è
ricordata di questo friulano diventato più bolognese di tanti che qui sono
nati, premiandolo con la Turrita d'Oro. A lui, che ha saputo onorarla più di
chiunque altro.
Sì, sono cinque anni che non vediamo più Ezio camminare nel suo triangolo di
strade, tra Riva Reno, San Felice e Lame. La sua “comfort zone”, si direbbe
oggi, più prosaicamente quell’angolo di città che sentiva più suo e in cui
trascinava un passo ferito da mille battaglie del pallone. Cinque anni che non
possiamo fermarci a fare quattro chiacchiere con un vecchio amico che non
viveva di rimpianti, ma sorrideva orgoglioso quando qualcuno gli ricordava
quello che è stato per Bologna e per il Bologna. Ed erano in tanti, a
ricordarglielo. Che lui era stato “l’ala sinistra”, che uno così noi non lo
vedremo mai più.
"Più Stadio", Stadio-Corriere dello Sport, 4 gennaio 2022