Se ne va una bandiera della Virtus, protagonista della rinascita di inizio anni Settanta.
Talento cristallino e anima hippie, ispirò una generazione di appassionati della pallacanestro. Insieme a Gary Schull alimentò il mito della Città dei Canestri
di Marco Tarozzi
BOLOGNA
John Fultz è stato molto più di un immenso talento della
pallacanestro. A Bologna ha incantato una generazione di ragazzi degli anni
Settanta. Perché lui era altro: l’indiano, l’atleta magnifico e affascinante,
l’America della generazione hippy che iniziavamo a leggere sui libri, sognando
libertà e strade che finivano chissà dove. Era un mondo nuovo, un tiro fatato a
canestro da ripetere mille volte, sapendo che quella perfezione non ci sarebbe
mai stata data. Era la nostra uscita dal mondo in bianco e nero, la nostra
prima vita a colori.
UOMO
DELLA RINASCITA. Per la Virtus è stato tanto altro. La
rinascita, prima di tutto. Quando arrivò dagli States, il grande Gigi Porelli
stava raddrizzando una barca che sul finire degli anni Sessanta aveva perso
smalto e lucentezza. Sull’altra sponda, in casa Fortitudo, c’era già da qualche
stagione il Barone Gary Schull. John diventò l’altra faccia della Città dei
Canestri, insieme ne costruirono le nuove fondamenta. L’epopea di BasketCity, a pensarci, è iniziata con
loro. Da una parte il Barone, dall’altra Kociss. Prima l’idea di derby era
abbozzata, anche se i precedenti non mancavano, ma riguardavano Virtus e Gira,
persino Moto Morini e Oare. La Fortitudo era giovane e arrembante, la Virtus
aveva addosso il profumo della storia e della gloria.
JOHN
E GARY. E in mezzo al campo, loro. Il Barone, al secolo Gary Walter
Schull, aveva già avuto il tempo di scontrarsi con un fenomeno come Terry
Driscoll, al primo fugace passaggio in terra bianconera. Ma quando arrivò
l’altro, quando arrivò Kociss, ovvero John Leslie Fultz, fu subito un’altra
storia. Anche per quel bellissimo palazzo di piazza Azzarita, che dopo anni in
cui faceva il pieno solo se si parlava di boxe iniziò a riempirsi anche per la
pallacanestro.
LE GRANDI SFIDE - Fiorì in quei
tempi un’aneddotica che si è tramandata negli anni. Il Barone, un pezzo di pane
in realtà, che affiggeva ai muri della stanza le foto dei rivali, per caricarsi
prima delle partite. Il sangue sulla canotta, diventato icona di fortitudinità.
Kociss, sull’altra sponda, ci metteva tecnica e valanghe di punti segnati in
tempi in cui il tiro da tre non era nemmeno un’idea, e rimbalzi accatastati,
“doppie doppie” da far sognare il popolo bianconero.
Kociss movimentava anche la vita fuori dal parquet con la sua condotta da
hippye, innamorato di pace e amore, con gli appartamenti pieni di amici e
presunti tali a notte fonda, al punto che quando Porelli decideva di tenerlo un
po’ sotto controllo, lo portava al Flamengo insieme a lui. Era anche tornato
negli States a fare un nuovo provino per i Lakers dopo il primo anno bolognese:
si fece fregare dalla sua voglia, quasi necessità, di vivere la vita
intensamente, e l’occasione sfumò. Lui, semplicemente, tornò a Bologna. Il
posto dove tutti si voltavano quando lo vedevano passar per strada, il posto
dove era diventato un idolo per gli innamorati della V nera.
GRANDI NUMERI. Alla Virtus ha regalato,
in tre stagioni, dal 1971 al 1974, 83 partite di campionato e 2232 punti, 1898
in campionato e 334 in Coppa Italia. Fate i conti: è una media di 27.2 punti a
partita. Quella Coppa Italia del 1974 fu , primo passo verso il ritorno ai
vertici di una società che non poteva avere altra collocazione, nel basket
italiano, e la Virtus lo vinse soprattutto grazie a lui, che fu eletto anche
Mvp della finale. Ancora: nella prima stagione bianconera fu il miglior
realizzatore del campionato. E’ stato un giocatore moderno, completo. Tecnica
sopraffina, movimenti da manuale, tiro vellutato eppure letale per qualunque
difesa.
L’ADDIO. Soprattutto, è stato un
giocatore mai altezzoso ed un uomo generosissimo. Gli fece male andarsene dalla
Virtus, ma capì la scelta di Dan Peterson e i due rimasero in ottimi rapporti.
Lo ricordava proprio John: “Dan fu corretto con me. Mi disse grazie per quello che stavo dando, e mi
confermò che c’era la possibilità di portare a Bologna un fuoriclasse come Tom
McMillen. “Se l’affare non va in porto resti tu”, mi disse. Ma Tom arrivò e
toccò a me fare le valigie”. Fultz iniziò il suo pellegrinaggio sui parquet: in
Svizzera, Austria, Portogallo; da tecnico, a inizio carriera allenò anche le
giovanili della V nera, poi finì a Napoli, altra città che gli è rimasta nel
cuore per tutta la vita.
LA SUA AMERICA. Ma
Bologna era Bologna, nel suo cuore. Ci era tornato un paio di anni fa, perché,
diceva, “In fondo la mia America
l’ho soltanto sfiorata dall’altra parte dell’oceano, poi l’ho trovata qui. Ora,
dopo tanto girare, sono di nuovo a casa mia”. Forse era destino che finisse qui, ma è comunque troppo presto. Ora sono di
nuovo insieme, Kociss e il Barone, gli americani che cambiarono volto al basket
bolognese e fecero nascere il mito di Basket City. Erano amici, ma si
divertivano a interpretare ruoli: Gary il cowboy, anche sulla copertina del 45
giri che lo segnalò come meteora della canzone; John l’indiano, a cui Lucio
Dalla in persona consigliò di fare altrettanto, con quella faccia da artista,
ma lui decise che con quella voce sarebbe stato meglio continuare a darci
dentro sul parquet. E’ stato la nostra ispirazione, questo meraviglioso hippie
che oggi salutiamo come faceva sempre lui: “Peace”, John. Ti vorremo sempre
bene.
Più Stadio, 14 gennaio 2022